Da: Gianfranco Marrone, Tuttolibri – La Stampa, n. 2078, 13 gennaio 2018.
Il viaggio di Greimas tra leggende, proverbi, indovinelli del suo Paese d’origine che ha abbandonato definitivamente il paganesimo soltanto nel XIX secolo
Il mito: sicuramente fra i termini, i concetti, i temi più ricorrenti nella cultura del Novecento. L’elenco degli autori, delle correnti di pensiero, delle discipline che se ne sono occupate è lunghissimo. Non c’è stata area sociale o spazio antropologico in cui non sia venuta fuori la presenza di una mitologia: poesia, politica, religione, scienza, folklore, mass media, cucina, moda, praticamente tutto è stato – talvolta maldestramente – interpretato in chiave di mito. L’intercalare di certi gerghi giovanili («mitico!») è la testimonianza dell’inflazione di questo termine, che ha privato il concetto corrispondente della sua potenza ermeneutica. Peccato. Perdendo il senso di uno strumento di pensiero così potente, si rischia di far girare a vuoto quelle scienze dell’uomo che, dribblando parecchie fumoserie filosofiche, erano approdate a risultati eccellenti nello studio delle culture umane e sociali, e che oggi sembrano invece in permanente ostaggio delle ricerche (mitiche?) da laboratorio naturalistico sul cervello o di chi ne fa le veci.
Giunge a proposito la recente pubblicazione delle Mitologiche di Algirdas J. Greimas, semiologo di meritata fama, di cui lo scorso anno s’è celebrato in mezzo mondo il centenario della nascita. Noto soprattutto per le sue ricerche sui meccanismi del significato presenti nei vari linguaggi, sul testo letterario e sui dispositivi formali della narrazione, Greimas è stato anche uno studioso delle culture: come testimonia in modo esemplare questo libro pazientemente curato e introdotto da Paolo Fabbri, suo principale allievo, e arricchito da una lucida postfazione di Tiziana Migliore.
Lituano d’origine, Greimas usa come terreno di lavoro delle sue mitologiche (il titolo, evidentemente, mima quello dei quattro volumi sulle narrazioni amerinde di Claude Lévi-Strauss) il ricchissimo folklore di questo paese baltico dalla lingua antichissima e dalla storia tutt’altro che lineare. I linguisti hanno a lungo considerato il lituano la lingua più simile all’ipotetico indoeuropeo, dunque fra le più arcaiche del nostro Continente, e in generale la Lituania ha tardato molto, contesa com’era fra Polacchi, Tedeschi e Russi, a darsi una cultura e una religione precise, abbandonando definitivamente il paganesimo soltanto nel XIX secolo. Da qui una fantasmagoria apparentemente insensata di dèi d’ogni forma e natura, di maghi, fate e demoni, di riti ancestrali e credenze popolari tanto radicata nel popolo quanto di delicatissima interpretazione. Il materiale preso in esame da Greimas è eteroclito e multiforme – proverbi, enigmi, indovinelli, fiabe, leggende, credenze, feste religiose e del lavoro, riti funebri, veglie notturne, giochi infantili -, di modo che il lavoro dell’antropologo-semiologo appare quasi come una personale autoanalisi. È la memoria dell’infanzia che, ripensata col proverbiale rigore metodologico greimasiano, assume tutt’altra luce e, pertanto, una coerenza e un senso. Alla sera, ricorda Greimas, era vietato strascicare i piedi per terra perché sul pavimento abitavano esseri bizzarri d’ogni tipo, e non bisognava farli innervosire. Analogamente, le veglie funebri andavano avanti per settimane poiché frequenti erano i racconti di cadaveri che pretendevano d’uscir fuori dalle bare anche parecchi giorni dopo la tumulazione. Analogamente, i galli erano considerati animali quasi sacri, i cinghiali si diceva s’accoppiassero con la terra, mentre le api avevano con gli uomini relazioni di stretta parentela: da esse s’imparava come comportarsi eticamente in società. Superstizioni irrazionali? Ingenue credenze? Forse, se lasciate slegate l’una con le altre. Invece pezzi di un complesso mosaico ideologico la cui trama – le celebri tre funzioni (sacralità, guerra, ricchezza) di Dumézil – assegna loro un ruolo preciso e un significato stabile. Il gallo, poniamo, è metonimia di Gabjauijs, dio del fuoco, per via della cresta rossa che lo sovrasta, così come i cinghiali sono la personificazione sotto forma animalesca degli elementi ctoni. Quanto alle api, la questione non sta nell’alveare ma nel modo in cui l’apicultore deve trattarlo, con estrema cura ma insieme con autoritaria determinazione; da cui il loro essere parenti acquisiti: mai, si sa, del tutto affidabili.
Che cos’è dunque il mito? Non un genere narrativo fra altri possibili, secondo Greimas, meno che mai il contrario della storia reale: semmai una sorta di logica stringente (il mitismo) che tiene insieme in modo sempre diverso a seconda delle culture, con assonanze segrete e associazioni figurative, le qualità sensibili del mondo, le componenti delle cose e degli esseri, al di là del loro grado di realtà o di immaginazione. Il mondo appare come una selva di somiglianze: il mitismo ne spiega le ragioni. E la luce fu.