Da: Pierluigi Basso e Lucia Corrain (a cura di), Eloquio del senso. Dialoghi semiotici per Paolo Fabbri, Costa & Nolan, Milano, 1999.
Ciò che apprezzo di Paolo Fabbri è che non è un ideologo, qualità rara oggigiorno. Semiologo, forse (ma non sempre ho capito come si possa essere semiologi). Ciò di cui sono consapevole è che la semiologia che egli propone (o che professa) è certamente costituita da un patrimonio di riferimenti inesauribili, ma anche da un patrimonio inesauribile di storie – e non solo di storie divertenti (anche se sovente lo sono), di storie in forma di allegorie, di favole o di apologhi, cioè di brevi racconti che lanciano e rilanciano l’argomentazione, e da cui si trae non un’istruzione morale come nell’apologo ordinario, ma un’istruzione leggera e ironica. Dunque ammetto volentieri che il modello teorico di Paolo sia semiologico, ma la sua esperienza di pensiero è fatta di storie, di narrazioni e di piacere narrativo.
Questo non toglie nulla alla capacità orale del suo svolgimento argomentativo. Gli interventi di Paolo (paolo “interviene”, è quello che ho imparato da lungo tempo, non enuncia nulla in maniera autoritaria e non contesta mai radicalmente, interviene – magistralmente e generosamente) sono molto caratteristici: cominciano in modo esistente, un po’ sincopato, staccato, pizzicato e poi il tutto si raduna, si organizza, come se un software interiore si mettesse in marcia verso quella che non è mai una dimostrazione. Ciò ha l’aria di un accumulo di piccole cose, di prove, di referenze, ma non è una dimostrazione: è un quadro concettuale.
Paolo è un nume tutelare. L’abbiamo vissuto tutti così, nel campo intellettuale come nella vita quotidiana. Non solo è uno dei rari personaggi che sa ascoltare gli altri, che presta loro intelligenza, ma è anche la persona per cui ogni situazione suscita un commento e richiede una delucidazione. Devo dire che, a questo riguardo, in parecchie occasioni non ho potuto che ammirare il suo coraggio. Paolo non è mai a corto di idee, di storie o di parole. Una sola volta l’ho visto interdetto e senza voce – durante il ricevimento preparato a sua insaputa per la partenza dall’Istituto di Cultura Italiano di Parigi. Era una sorpresa per lui ed è stata una sorpresa commovente per tutti vederlo incapace di una pronta risposta.
Ma forse è riuscito ancora a recitare questa parte – chi può saperlo? C’è in ogni caso un mistero Paolo, un mistero del suo personaggio, con ancora una volta questa presenza tutelare, questa influenza e questa potenza totemica della parola, rafforzata dal tabù della scrittura. Ma forse, nel suo rapporto con la scrittura, c’è anche un’ambiguità di cui egli stesso ha sofferto, ma di cui, e per di più, ha magnificamente usato e abusato – non sarà per caso un grafomane, un grafomane apocrifo, del quale un giorno resusciterà una massa di scritti occulti e accuratamente dissimulati?
In ogni modo, c’è un segreto di Paolo che amiamo senza averlo mai scoperto: esso è da qualche parte ma non tra “la Masque et la Plume”, bensì tra la Maschera e la Parola.