Da: Andrea Miconi (a cura di), Introduzione alla sociologia delle comunicazioni di massa.
https://digilander.libero.it/com_di_mas/scm/intmed.htm (Estratto il 15/03/2019).
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1.2 La semiotica
Definizioni e svolte semiotiche
Iniziamo con una definizione. La semiotica non è soltanto lo “studio dei segni”, ma, più precisamente, lo studio dei codici, cioè delle regole di correlazione che permettono di associare un significato ad un significante. Queste regole sono molto varie perché, ad esempio, le correlazioni tra il colore rosso del semaforo e l’obbligo di arresto, tra il fumo e il fuoco di cui è indice o tra la parola “cane” e l’idea a cui essa si riferisce, sono per l’appunto tre tipi di correlazione diversi. In ogni caso, appaiono evidenti le ragioni per cui la semiotica è stata considerata da subito una delle discipline più adatte all’analisi dei processi comunicativi.
Tutto inizia con il linguista Ferdinand de Saussure (1857-1913), che ha proposto per primo un concetto di segno come “associazione di un significante a un significato” (ovvero di “immagine acustica” e “pensiero”). Il segno, in Saussure, è sempre arbitrario, perché non c’è nessuna relazione necessaria tra il significante “cane” e il significato a cui esso rimanda (mammifero a quattro zampe eccetera). A questa concezione, l’americano Charles Sanders Peirce (1839-1914) ha aggiunto una terza variabile, sostenendo che oltre ad un significato e ad un significante che lo rappresenta sostituendolo (come una fotografia sostituisce una persona), esiste un destinatario del processo comunicativo. Questo destinatario decodifica il processo comunicativo attraverso un’immagine mentale di cui dispone, detta interpretante, che è a sua volta un segno, utilizzato come astrazione necessaria a mettere in correlazione significati e significanti. Infatti non possiamo intendere la relazione tra la parola “cane” letta in un libro e il significato che essa vuole trasmettere se non avendo già un’idea di cosa significhi “cane”: ma quest’idea dipende ancora da un’associazione di natura segnica, e così via, tendenzialmente all’infinito. Tanto è vero che si parla, in questo caso, di “semiosi illimitata”.
Anche se più marcata nel pensiero pragmatista di Peirce, l’adattabilità della semiotica allo studio della comunicazione sociale dovrebbe apparire evidente. E infatti sono ricchissimi i contributi della semiotica alla ricerca sulla comunicazione e sulla cultura di massa, al punto che approcci di tipo semiologico sono stati produttivamente applicati non solo alla teoria della comunicazione, ma anche all’analisi dei diversi media e generi contemporanei: la televisione, il cinema, la narrativa, la pubblicità, il fumetto e perfino le ricette culinarie.
Qui non si vuole, naturalmente, rendere conto dei diversi approcci e delle diverse correnti della semiotica, ma semplicemente prendere atto della centralità che questa disciplina ha guadagnato (al di là delle oscillazioni della moda) negli studi sociali. Ora, esistono, schematicamente, due tipi di semiotica: o meglio, esiste una semiotica in quanto studio dei segni, ed una semiologia, come studio dei segni destinato essenzialmente ai segni del linguaggio verbale (due filoni che risalgono ai fondatori della disciplina, cioè rispettivamente a Peirce e a Saussure). Entrambe queste tradizioni disciplinari sono state applicate, con profitto, allo studio delle comunicazioni di massa: anche se entrambe presentano, com’è inevitabile, alcuni rischi.
La semiologia, come detto, è uno studio dei segni appiattito sui segni linguistici. L’idea, cioè, non è che il linguaggio alfabetico sia una variante della comunicazione, ma che al contrario sia il linguaggio verbale a contenere in sé tutte le possibili forme di comunicazione (anche perché il linguaggio alfabetico verifica quella condizione tipica dei processi comunicativi, che è la disgiunzione tra espressione e contenuto). La “superiorità” del linguaggio verbale consiste nella sua maggiore duttilità: mentre altri sistemi di segni possono soltanto esprimere dei contenuti, il linguaggio verbale può anche parlare di se stesso. Tutti i codici hanno una loro precisa espressività (la musica, i gesti, la pittura, e così via), ma c’è soltanto un linguaggio nel quale tutti gli altri linguaggi sono traducibili, ed è quello verbale. Tuttavia questo tipo di approccio, molto marcato anche in un semiologo geniale come Roland Barthes (1915-1980), insiste forse troppo sulla traducibilità alfabetica degli altri linguaggi per sposarsi perfettamente con le ambizioni della ricerca sulle comunicazioni di massa, che deve necessariamente ricercare le qualità specifiche ed irriducibili di diversi formati espressivi (quello orale, quello scritto, quello visivo, e così via).
La semiotica, a differenza della semiologia, ha invece l’obiettivo di costruire una tipologia dei segni che prescinda dalla loro natura (segni linguistici e non linguistici). Il problema è che l’apertura a qualsiasi genere di segno crea, come visto in precedenza, un meccanismo di “semiosi illimitata”, cioè una deriva in una catena interminabile di significazione (se qualsiasi pratica sociale è portatrice di significato, come è possibile ordinare e comprendere l’insieme di queste pratiche?). Per evitare questo rischio, la semiotica ha provveduto a porre una cornice rigida ai processi di significazione: e questa cornice è quella del testo. Per quanto cioè idealmente disposta ad analizzare tutti i segni, la semiotica si è di fatto concentrata soltanto su quelli contenuti nella categoria di testo (e quindi, di nuovo, su segni di natura alfabetica). E’, questo, il caso di Umberto Eco, secondo il quale un testo non ha un significato univocamente definito, ma può essere interpretato dal lettore. Tuttavia questa interpretazione è (semiologicamente) legittima, cioè non dà luogo ad una “sovrainterpretazione”, soltanto se è interna alla gamma delle possibili interpretazioni contenute dal testo. Quindi, in poche parole, esiste sempre una demarcazione tra ciò che è corretto in quanto interno ad un meccanismo di natura testuale, e ciò che è scorretto in quanto esterno a questa cornice, aberrante.
Sulla necessità di una svolta, in questo senso, si è pronunciato il semiologo italiano Paolo Fabbri (che ha intitolato un suo libro proprio La svolta semiotica). Fabbri sembra ribaltare il procedimento classico della semiotica: non scompone il linguaggio nelle sue unità minime (appunto i segni), ma vuole invece costruire “universi di senso” più ampi. E quindi studiare non più il segno – che esiste solo come convenzione scientifica – ma la significazione, cioè qualsiasi processo in cui esistono un significante ed un significato diversi tra di loro (perché se un albero rappresenta un albero, cioè se stesso, non c’è significazione vera e propria). Questi processi non sono soltanto di natura verbale, ma rimandano a qualsiasi pratica che può essere portatrice di significato.
Questo passaggio rischia di riprodurre quella stessa deriva verso la “semiosi illimitata” che abbiamo incontrato in precedenza: rischia anzi di accentuarla, perché Fabbri sostiene che non c’è differenza tra le parole e le cose (ad esempio la prigione è il significante di un significato, quello di delinquenza, perché per capire lo stato della delinquenza non bisogna pensare all’idea di prigione, ma al modo in cui le prigioni sono realmente costruite). Torna così a porsi il dilemma tradizionale: porre dei limiti concettuali ai processi di significazione, e quindi escluderne alcuni, oppure rispettare la varietà di questi processi e quindi rendere impossibile una loro codificazione. Perché se tutto è portatore di significato, detto in termini più rudimentali, non esiste una vera semiotica (che si fonda su una delimitazione del campo, cioè sulla differenza tra ciò che è significazione e ciò che non lo è); ma se invece sono considerati portatori di significato solo alcuni processi (quelli testuali o alfabetici, di solito), si perde l’obiettivo di analizzare il rapporto generico tra significati e significanti.
Tuttavia il compito della semiotica – quella successiva alla svolta – non è di ridurre queste forme di significazione ad un unico linguaggio (verbale), né di incastrarle in un sistema definito (il testo). Anzi, è impossibile compiere queste operazioni perché non può esistere una tipologia precostituita dei segni: se non, appunto, a prezzo di una loro riduzione ad una categoria particolare. Ad ogni processo comunicativo corrisponde un codice diverso: il compito della semiotica, secondo Fabbri, è quello di stabilire categorie di significato (o “quadri di pertinenza”) variabili per i diversi modi comunicativi. In questo caso, quindi, non c’è una riduzione di tutti i linguaggi ad un’unità ultima di testo: al contrario, è il concetto di testo ad essere moltiplicato, perché a diverse pratiche comunicative corrispondono criteri di testualità qualitativamente diversi. Se si è insistito molto sul contributo di Fabbri, rispetto ad altri, è proprio perché questa “svolta” – come apparirà evidente – apre nuove possibilità di utilizzo della semiotica nello studio delle comunicazioni di massa.
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Paolo Fabbri
Paolo Fabbri (1939), professore di Semiotica dell’arte all’Università di Bologna, è oggi uno degli interpreti più innovativi della disciplina. Dopo avere insegnato in diverse Università in Nord America e in Europa e aver lavorato a Parigi con A. J. Greimas, Fabbri ha costruito un modello semiotico in qualche modo alternativo a quello (più conosciuto) di Umberto Eco. Il tentativo di Fabbri è infatti quello di sottrarre la semiotica all’area delle scienze umanistiche, per confrontarla invece ai processi più concreti della comunicazione sociale.
Se in una prima fase aveva analizzato la comunicazione lavorando all’applicazione dei concetti classici della semiotica, negli anni più recenti Fabbri si discosta invece dagli approcci tradizionali, proponendo infine una vera e propria “svolta semiotica”. A questa svolta dovrebbe corrispondere una rifondazione che permetta alla disciplina di occuparsi non solo di “segni” ma di “significazioni”, cioè di tutti i processi che hanno a che fare con la produzione e con la diffusione sociale dell’informazione. E’ ipotizzabile quindi non solo una semiotica delle passioni (che già appartiene al patrimonio classico della disciplina) ma anche, ad esempio, una semiotica degli oggetti, nella misura in cui proprio gli oggetti sono costruzioni sociali portatrici di significato. Non è forse casuale che a questo rinnovamento disciplinare si accompagni un forte rinnovamento di stile e di metodo, che Fabbri ha condotto rinunciando (almeno in parte) al prestigio accademico della scrittura (e del libro), in favore di una più intensa attività di divulgazione orale (convegni, seminari, interviste, e così via).
Tra le sue opere, vanno segnalate: Prima proposta per un modello di ricerca interdisciplinare sul rapporto televisione-pubblico (1968, con U. Eco e altri), Progetto di ricerca sull’utilizzazione dell’informazione ambientale (1978, con U. Eco), Tacticas de los signos (1996), La svolta semiotica (1998).
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