Da: Gianfranco Marrone, Doppiozero, 02 marzo 2017.
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Il sito archeologico di Palmira, l’antica Tadmor siriana, viene inaugurato ufficialmente dai francesi nel 1929. Nella storia millenaria di questa straordinaria città-oasi, ricchissima tappa di lunghe carovane fra il Mediterraneo e l’Oriente, si contano sette diverse fasi: cinque di sviluppo, due di decadenza. Moltissime culture e religioni – greca, romana, cristiana, mussulmana – sono state accolte in questo centro civile e commerciale, che si è costantemente caratterizzato per il politeismo felice e l’inclusione etnica, il desiderio di dialogo e la volontà d’unione: in nome degli dèi, ivi compreso il denaro. Dal 1930 le cose cambiano: Palmira sembra avere il passato nel suo futuro, esce dalla storia per diventare, appunto, bene culturale, patrimonio dell’umanità, fino a diventare, nel 1980, brand Unesco.
Sembra una museificazione definitiva, un ineluttabile passaggio alle ragnatele, ma le cronache sono pronte farsi storia a loro volta. Ed ecco due nuove, inaspettate fasi, da includere nella riflessione dello studioso e negli scavi dell’archeologo. Dal 1930 al 2013, parallelamente al lavoro di riemersione dei reperti e dei monumenti nella città antica, si sviluppa a Nord-Est un nuovo inurbamento, altri edifici, altri riti, altre esistenze. La vita vera, insomma: quella che si potrebbe definire come la sesta fase di sviluppo. E poi, dal 2013 a oggi, una nuova fase di declino, la terza: rapidissima, violenta, micidiale. Arrivano i figuri del sedicente Stato Islamico e con la dinamite fanno saltare per aria, oltre agli edifici civili e i loro abitanti, alcuni dei più importanti monumenti del sito – il santuario di Bel, il tempio di Baalshamin, il Grande Arco della lunga colonnata, un numero imprecisato di torri funerarie: certamente i più rappresentativi, non foss’altro perché più grandi, più visibili, più rivendibili turisticamente, e dunque, dal punto di vista degli invasati dell’Isis, quelli la cui distruzione fa più notizia nell’odiato Occidente. Occorre farsene una ragione e, a conti fatti, inserire queste due nuove fasi nella storia di Palmira, delle quali non solo rendere conto dal punto di vista conoscitivo ma anche lasciare memoria sul versante museale.
Metterla così, descrivere con questo tono d’estrema freddezza, di rigida oggettivazione storiografica, quello che con ogni probabilità è stato uno dei più atroci atti vandalici degli ultimi decenni è forse la scelta migliore, la più rassicurante, la meno dolorosa, perché forzosamente al netto di ogni emozione personale o indignazione collettiva. È la via che ha deciso di seguire Manar Hammad, architetto, semiologo, archeologo, e profondo conoscitore di Palmira prima ancora che per ragioni professionali e cognitive, in quanto siriano doc trapiantato a Parigi, per motivi personali, familiari, affettivi ed etnici al contempo. Fra i fondatori della semiotica dello spazio (Leggere lo spazio comprendere l’architettura, 2004; Sémiotiser l’espace, 2015) e della cultura araba del Medio Oriente (Aux racines du proche Orient arabe, 2003; Sémantique des institutions arabes, 2017), Hammad conosce a menadito l’architettura arabo-normanna (ha in progetto un libro sulla Zisa di Palermo) e l’archeologia siriana, avendo fra l’altro dedicato a Palmira, non molto lontana dalla casa di famiglia ad Aleppo, due strepitosi volumi. Nel primo, Palmyre, transformations urbaines (2010), grazie all’analisi semantica dei luoghi ha ipotizzato l’esistenza di un anfiteatro che poi, in una missione archeologica da lui stesso guidata, stava per vedere la luce. Il secondo, Bel/Palmyra Hommage (2016, bilingue in coedizione italo francese, con prefazione di Paolo Fabbri) è uscito subito dopo la distruzione del tempio di Bel, ed è dotato, fra l’altro, di un’ampia documentazione iconografica.
In uno scritto recente non ancora pubblicato (“Sémiotique de la destruction à Tadmor-Palmyre”), e in occasione di una conferenza tenuta all’interno della Biennale Arcipelago Mediterraneo, attualmente in corso a Palermo, Hammad ha lavorato su quella che, appunto, chiama la nona fase dell’evoluzione di Palmira, che ha visto la demolizione dei suoi principali monumenti. Da semiologo esperto di archeologia (caso pressoché unico nell’attuale panorama degli studi semiotici e archeologici), ha provato a interpretare il senso dell’azione devastatrice dell’Isis, al di là di quel che, a parole, i suoi esponenti hanno dichiarato. Se nelle rivendicazioni esplicite dei fondamentalisti islamici sono state addotte motivazioni di tipo religioso (“quei templi erano pagani e politeisti”), l’atto distruttore sembra rivelare tutt’altro genere di ragioni, di tipo politico e militare. Innanzitutto, infatti, l’Isis ha del tutto ignorato il fatto che il Tempio di Bel ha ospitato per ben otto secoli una grande moschea mussulmana, i cui resti, con spietata ideologia filo-grecoromana, gli archeologi francesi avevano a lungo provveduto a tenere in ombra. Distruggendo il tempio, paradosso della storia, hanno così contribuito a annientare, senza saperlo, la loro stessa tradizione religiosa, riaffermando indirettamente un politeismo che era quasi soltanto di facciata.
In secondo luogo, dando un’occhiata a ciò che è stato effettivamente raso al suolo nella parte archeologica, ci si accorge subito che si tratta di monumenti-logo, quelli che lo stato siriano usa nei suoi depliant promozionali, e che sono raffigurati nelle guide turistiche globalizzate. L’azione distruttrice, programmaticamente plateale, ha così due precisi destinatari. Sul piano militare, il cosiddetto Stato islamico ha voluto dimostrare la propria prestanza bellica ai suoi potenziali adepti sparsi in Europa o in America, mettendo in campo una vera e propria strategia di proselitismo. Rimbalzando negli schermi di mezzo mondo, i templi e le torri che saltano per aria esprimono un preciso messaggio promozionale: “venite con noi, arruolatevi!”. Sul piano politico, invece, l’operazione di vandalismo ha inteso colpire l’Occidente, i suoi valori estetici e culturali, ossia proprio quello che l’Occidente stesso, con gesto universalizzante, ha battezzato patrimonio dell’umanità. L’atto globale dell’Unesco s’è insomma rivoltato su se stesso, per mano di chi, al contrario, non crede affatto all’esistenza di valori universali ed eterni, ma porta avanti, con estrema violenza, soltanto il proprio credo.
In questo senso, come precisa Fabbri nella prefazione al già citato volume d’omaggio a Palmira, più che un’azione vandalica quella dell’Isis s’è rivelata essere un gesto iconoclasta. Laddove infatti il vandalo distrugge a casaccio, per il puro piacere di fare a pezzi ciò che per primo gli capita a tiro, l’iconoclasta conosce benissimo il valore che, per i suoi nemici, hanno gli oggetti da lui colpiti. E li distrugge proprio per questo. “L’iconoclasta, non il vandalo, è uno stratega esperto nei simboli propri e in quelli dell’avversario. Se rade al suolo parte del tempio di Bel è per colpire il nemico – colonialista, crociato e via dicendo – nella zona intensa dei suoi valori e per provocarlo sul suo terreno”. Da cui una riflessione importante: “Il ‘fondamentalista islamico’ – frase ormai fatta – è di fatto competente nella grammatica dei simboli occidentali. Fuori dall’esotismo a buon mercato, siamo certi di poter dire lo stesso?”. Se la guerra, si sa, è anche e soprattutto una guerra di segni, e si coniano simboli come si lanciano bombe, siamo sicuri di conoscere i codici corretti per interpretare i discorsi del nostro nemico? Costoro, a muso duro, comprendono tutto di noi, sanno assai bene come e dove colpirci, come annientare i nostri valori. Basterà dire, da parte nostra, che sono dei pazzi fanatici?