Il Giornalino – www.zoooom.it


Da: Il Giornalino – Settimana dal 18/3/2002 al 24/3/2002, www.zoooom.it, 2002.


domenica 24 marzo
Allora é vero! La politica, qualunque essa sia, non é che variopinta sovrastruttura: i veri interessi sono quelli dei dispositivi economici e finanziari.
Il Salone del libro di Parigi, teste oculare della potente industria editoriale francese, procede a vele gonfie e spiegate. Ha utilizzato senza rimorso alcuni provvisori bisticci politici tra le organizzazioni culturali pubbliche italiane e francesi e s’é liberato di loro in condizioni di reciproca soddisfazione. Per i rappresentanti del governo italiano si é confermato un orientamento che mirava alla loro emarginazione. Al governo francese, la gesticolazione diplomatica é stata sufficiente per dimostrare la maggior apertura e ottenere il completo rigetto. Ci hanno pensato gli oppositori italiani.
Intanto, grazie al mai abbastasnza deplorato effetto mediatico, il pubblico compra e l’incontro professionale tra editori e librai, il vero nucleo del salone, procede in un’atmosfera divertita. Merci les italiens: che pubblicità!
Ma il Salone é anche un luogo di dibattito culturale e non di sole firme apposte su prodotti commerciali, nel caso libri. Ecco questo non mi é parso: questo Salone, se ha un logo, questo é No-Luogo.
Cosa c’é di più fuori luogo della scenografia in materie plastiche neoclassiche che ospita la sezione italiana? Per situarla ci vorrebbe un’opera minore di Rossini, non la presenza della Tamaro.
E che dire degli scrittori italiani (Del Giudice, Baricco, Tabucchi, ecc.) che non parlano di letteratura, di cui si intendono, ma solo di sociologia, diritto pubblico e macro-economia della globalizzazione?
Trovate che stia al posto suo il traduttore di Eco per cui la letteratura italiana é conosciuta in Francia solo dopo “il Nome della Rosa” (perché, bontà sua, Calvino era troppo sperimentale, poco carnale e… non abbastanza napoletano!).
E sapete che un noto giornalista di Repubblica scrive seriamente che la ministra francese Tasca é di sangue italiano… come Napoleone?
Che dire del direttore editoriale d’una grande casa editrice francese che usa l’unica parola italiana che ammette di possedere “stronzo”, per qualificare il premier del nostro governo?
Che pensare di giovani studenti no-global che portano sulle magliette condivisibili slogan scritti in un francese sgrammaticato: ‘noi siamo rosso si, ma di vergogna’ e intervistati alla televisione locale parlano in inglese corretto (la più globalizzante delle lingue), sottotitolati in francese?
Ma nel No -Luogo opera il principio di serendipità, cioé la regola per cui cercando una cosa che non sapevate di trovare, se ne trova un’altra che non sapevate di cercare.
Ho fatto due incontri maggiori presso due editori minori. Il primo libro, edito da Leo Sher, davanti agli archi e la colonne del padiglione italiano, é il libro di Emmanuel Loi; un ex-galeotto, ladro solitario di Istituti di credito, dal titolo “Les mains en l’air” (che tradurrei “Alto le mani”). Il libro termina con un manoscritto, vero codice di mestiere per scassinatori di banche, magnifico per scrupolo professionale e precisione tecnica.
L’altro, “La littérature sans estomac”, per l’editore L’esprit des peninsules é un torrido pamphlet contro la letteratura francese contemporanea e l’industria che la promuove al di là di ogni qualità letteraria. L’autore, Pierre Jourde, fa giustizia di molti nomi eccellenti (Sollers, Houellebecq, Rollin, Toussaint) sopratutto per le loro pietose tranche de vie romanzesche. Non ha torto, alla mediocrità non basta la sincerità! E promouve con ragione Novarina, Chevillard, Guégan. Chiede agli scrittori di parlare di politica solo coi loro libri di finzione e pretende, con Calvino, che la letteratura possa vivere solo assegnandosi obbiettivi smisurati. Merci mon ami.
Insomma quando la grande industria editoriale muove strategicamente le sue armate per trovare qualcosa bisogna adottare la libertà tattica del volteggiatore.

sabato 23 marzo
Inaugurazione del Padiglione italiano al 22° Salon du Livre di Parigi: NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT NO COMMENT

venerdi 22 marzo
“Guerra, guerra, guerra” canta il coro dell’Aida. Ancora la Guerra e ancora la Battaglia. Da un lato le strategie e le tattiche di preparazione, dall’altro la mischia; il calcolo razionale delle possibilità e la zuffa delle forze e delle passioni. “Newsweek” se la prende con l’ultimo film di Ridley Scott, “Black Hawk” che descrive la sconfitta americana nella guerriglia somala: tutto è chiaro nella configurazione narrativa, nello spiegamento e nell’intreccio delle azioni, ma nello scontro sul campo è tutt’altra cosa. Miopia degli attori, interferenza dell’azione altrui sulla nostra azione, incidenti tecnici – che sono anch’essi errori umani -, distrazioni proprie e diversioni altrui, ritardi, entrate fuori tempo… Insomma l’attrito di Clausewitz, the fog of the war, nebbia di guerra.
Ritrovo nella cultura classica del Rinascimento l’opposizione più radicale tra la descrizione della battaglia data da Machiavelli nel III libro dell'”Arte della guerra” e quella di Leonardo nel “Trattato della pittura”. Il segretario fiorentino – che sembra abbia dettato al pittore il tema della battaglia di Anghiari – vuole restaurare l’ordine romano delle milizie. La sua scienza militare è disciplina formale. Le fanterie sono disposte in battaglioni, ordini elaborati (quadrati, cornuti e cosi via) preparati a spostarsi secondo la logica geometrica dei solidi, guidata da un sistema articolato di segni (bandiere, musiche ecc.). Lo scontro e la vittoria sono descritti come una dimostrazione logica che fa seguito a rigorosi postulati. “Guardate con quanta virtù, sicurtà e ozio (i nostri) ammazzano il nemico”. “Guardate con quanta furia i nemici muoiono”. “Ecco la vittoria è nostra”.
Ma Leonardo la vede altrimenti. La battaglia è il luogo reversibile della perfetta indeterminazione, una tempesta (“fortuna”) suscitata dagli uomini dove gli elementi si mescolano. Il fumo, la polvere e l’aria fanno “mistione” quando gli uomini cominciano la mischia. Le figure e le fisionomie non sono immediatamente visibili, traspaiono nel fortunale che suscitano. Lacrime e sangue si mescolano alla terra e i corpi tracciano segni nel fango: ben altra semiotica è quella della battaglia! L’acqua sollevata in spuma si mescola alla polvere e al fumo. Nella luce, filtrata dalle umane nebbie della mischia, vinti e vincitori sono figure ambivalenti e reversibili.
Un racconto prodigioso che rompe con ogni rappresentazione precedente: i duelli collettivi degli arazzi nordici o i modelli romani dell’Umanesimo tratti dai sarcofagi, dalle colonne o dai mosaici (Piero della Francesca, Pollaiolo, Ghiberti, Pîsanello, Paolo Uccello). Si crea una pittura di genere che durerà per secoli, fino all’invenzione della fotografia, quella dei pittori battaglisti (come si dice naturamortisti).
Il cinema che tanta guerra ci ha mostrato, manca a farci comprendere l’indeterminazione reversibile e radicale della battaglia. Spetta ancora alla letteratura, da Stendhal a Tolstoj, d’averci fatto intravedere e intra-sapere qualcosa. Ha ragione Deleuze, nella sua “Logica del senso”. Se vogliamo conoscere i segni dell’imperturbabile Marte o di Bellona, il miglior libro è quello di un uomo morto a 28 anni, che ha la penna d’un pittore impressionista: Stephan Crane ne “Il segno rosso del coraggio”.

giovedi 21 marzo
Leggo, prima del volo per Parigi, un secco giudizio del settimanale Newsweek: un tempo la capitale francese era la mecca di intellettuali e artisti. No longer! Gli americani, anche democratici, non sono certo teneri coi frenchies. Ricordo un’altra affermazione perentoria: il solo luogo abitabile in Europa è l’Olanda! Why not!
Per contrasto – è un buon principio di senso – ripenso al libro di Karelheinz Stierle, erede di Jauss nella semiotica e letteraria scuola di Costanza: “La capitale dei segni: Parigi e il suo discorso”. Uscito nel 1993 è stato tradotto nel 2001 dai francesi dell’EHESS, appena rimessi dalla tardiva estasi benjaminiana dei Passaggi .
E’ un testo esatto e dottissimo sulla preistoria della leggibilità della città. Comincia dalla fine dell’Illuminismo, quando passeggiano per Parigi Diderot e Restif de la Bretonne, Mercier e Rousseau. Termina con l’apologia del lettore urbano Baudelaire, quando la città cambia più in fretta del cuore dell’ uomo e l’artista deve entrare nel traffico ancora fluido della modernità.
Per regola barthesiana – alla lettura assidua, lo ‘studium’, deve accompagnarsi il ‘punctum’, là dove si conficca la punta sensibile – è nel capitolo sulla città e l’immaginario che qualcosa che mi tocca. Non nei numerosi romanzi di Sue e di Hugo, nelle mitologie di Vigny e di Nerval, nei misteri – fiume e nei moicani- feuilleton di Sue e di Dumas, ma nel piano urbanistico della capitale dei segni, la “Comédie humaine” di Balzac.
Soprattutto in quelle che Stierle chiama les esquisses balzaciennes d’une sémiotique de la ville. I segni urbani sono inseriti infatti nella struttura del dramma e dei suoi personaggi. Sono le fisionomie, le descrizioni letterarie delle toilettes (ah, l’irreversibile “Pelle di Zigrino”!) dalle mises maestose ai dettagli, a moltiplicare i segni sociali della moda. Tutto è traccia, tutto è indice, tutto è linguaggio nella Parigi di Balzac. Più che nel saggio incompiuto Sulla vita elegante, sono gli Studi di costume attraverso i guanti, l’esame minuzioso delle cravatte e del portamento, la Teoria della camminata e la Fenomenologia della canna da passeggio, che mostrano come la moda separi le classi e i tempi: i ricchi e i poveri, il passato e il presente.
Come dice Stierle “il Sistema della moda di Barthes puo’ essere letto più di un secolo dopo, come una sistematizzazione del punti di vista di Balzac sul carattere semiotico della moda” (pag. 290). Un vecchio francese direbbe: bien vu Landru! Se non è vero è certamente ben trovato.
Ma oggi Parigi ha vinto la battaglia del turismo. Vicino al mio studio, dove Diderot passeggiava tra le ambigue botteghe del Palay Royal, ora Ministero della cultura, il tipico flâneur è il gruppo che segue una guida che ha l’ ombrello aperto ad ogni stagione. Magritte avrebbe posto sull’ombrello, in luogo del puntale, un bicchere d’acqua e lo avrebbe intitolato Le vacanze di Hegel. Ci vuol humor nero surrealista e fede nella dialettica per pensarlo. Forse è più semplice dire con Newsweek: no longer!
Propongo, prima di decidere, di partire per Belleville – dove vivevo con te Jeanne Folly – in via Jouy Rouve, l’ultimo sindaco della Comune di Parigi. Ci sono ancora luoghi o non luoghi per abitare l’inabitabile?

mercoledi 20 marzo
Una giornata e un’annata sono più lunghi di un giorno e di un anno. Così è per un mattino e una mattinata, una notte e una nottata e forse, per una mesata e un mese. Questa settimana dovrebbe esser una “settimanata”, la parola ancora manca ma che sta per arrivare. Settimana lunga e bilingue perché dopo i corsi all’università di Bologna (lunedì-giovedì) sarò in Francia, il venerdì per due conferenze a Lyone, e il week end a Parigi, all’ atteso Salon du Livre.
Preciso, dopo le confuse polemiche dei giorni scorsi, che sono invitato al Salone nell’ambito del programma “L’Italie des Sciences”, per un dialogo con Edoardo Boncinelli, biofisico e direttore della Sissa di Trieste, dedicato alle scienze cognitive. Ho partecipato inoltre alla pubblicazione del Ministero degli Affari Esteri che sarà presentata da Paola Decina Lombardi: una pubblicazione che contiene scritti di molti intellettuali e dove figura una mia intervista a lingue incrociate con Isabelle Mallez, direttrice della Maison française de Bologna, su confronto tra esperienze di attività dei direttori di istituti culturali nei rispettivi paesi.
Seguirò dunque il Salone del Libro per motivate ragioni e passioni. Come visitatore attento, spinto dalla conoscenza di molti protagonisti dell’editoria parigina e da ragioni teoriche di lunga gittata (come tradurre e tradir cultura) e da urticanti occasioni politiche (le polemiche sul ruolo degli Istituti italiani di cultura; i possibili esiti di alcune truculenze verbali). Perché durante l’ultima edizione in cui l’Italia era invitata d’onore dirigevo l’Istituto Culturale italiano a Parigi; perché avevo chiesto agli attuali organizzatori se mai volessero fruire della mia non interessata esperienza; e perché le polemiche mediatiche in corso mi incuriosivano e preoccupano.
Ma l’attuale direzione dell’Istituto a Parigi basta a se stessa e così i responsabili dell’organizzazione, intenti pare a edificare una copia della Biblioteca Palatina di Parma!
Ma l’amico Roger Pol-Droit, già direttore-collega al Collège International de Philosphie e responsabile della pagina libri de Le Monde, mi ha chiesto di serrare in poche migliaia di segni i dibatti intellettuali rilevanti in Italia e le razioni tra intellettuali e potere negli ultimi trent’anni. Soltanto. Ricordando il monito di M. Leiris “glossaire j’y serre mes gloses”, ci ho provato in modo tagliente.
Ecco la risposta all’ultima domanda:
– Que faire ?
– Il faut repenser les régimes de savoir et leurs transmission à partir de l’école jusqu’au multimédia. Informer n’est pas transmettre: la culture ne se communique pas, elle se transmet.
(…)
Et il faudrait appliquer en premier lieu la recette de Calvino: reécrire la tradition culturelle italienne, axée sur Dante et Petrarque, par l’Arioste et Galilée. Croiser l’errance poétique et la précision des sciences; porter de la aventure dans la recherche et de la rigueur dans la littérature.

martedi 19 marzo
Vi sono varie strategie di guerra. Machiavelli, come altri, suggeriva che la battaglia perfetta si costruisce a tavolino, con piani che conducono a un “facile macello”: infliggere al nemico il massimo delle perdite con il minimo di perdite. (Gli americani hanno oggi la stessa strategia).
Nelle guerre moderne ci si illude di evitare lo scontro ravvicinato, il corpo a corpo. Ma, come non c’è linguaggio senza incontro-scontro conversazionale, così nella guerra resta sempre il duello. La guerra è calcolo perché è sempre preferibile non combattere: in battaglia non si può mai sapere chi vincerà anche in condizioni di superiorità numerica. La battaglia è il luogo della possibile renversione tra vittoria e sconfitta, è l’evento dalla incalcolabile singolarità. Del mondo della guerra, che sembra anomico rispetto a quello alla pace, mi interessa appunto il momento anomalo della mischia.
Per un esempio testuale facciamo un passo indietro. È il 1501. La città di Firenze chiede a Machiavelli di incontrare Leonardo per preparare l’affresco del Salone dei Cinquecento che doveva rappresentare la battaglia di Anghiari. E nel suo Trattato sulla pittura Leonardo da Vinci fisserà le linee guida della rappresentazione pittorica della mischia. La battaglia, che non eseguirà mai, è data come il luogo della mescolanza degli elementi. Non c’è prospettiva, è il luogo della confusione e dell’indistinzione degli spazi, dei corpi. Mistione di elementi; fumo d’artiglieria e moschetteria, polvere che offusca la vista, spuma, fango di lacrime, sangue. L’introduzione tecnica dello sfumato è fondamentale per la resa pittorica dell’aria polverosa e affumicata della mischia, dove sarà un rosseggiare rubolento di volti e persone, figure oscure in campo chiaro, i volti contorti dal lamento, dalla paura, dalle furore, dalle passioni più violente. Mischia di “accidenti mentali” e somatici. Questo scritto di Leonardo segna un’innovazione radicale nella rappresentazione della battaglia e storia dell’arte.

lunedi 18 marzo
In un articolo assai critico dell’opera di Calvino, Tabucchi si indignava, che Raymond Queneau, ispiratore e compagno ulipista, avesse scritto delle memorie fatte di sole letture di libri. Meglio essere economi del proprio disprezzo: forse la vera vita è là!
Ma a ciascuno il suo: i diari di uno scrittore sulla guerra (Gadda, Junger) e i corsi di un professore sulla battaglia. Oggi quel che mi accade – e che la forma diario trasforma in raccontabile – è il soggetto della mia lezione all’università di Bologna, per il corso di Comunicazione e il DAMS. È la Rappresentazione della Battaglia, che Deleuze, in Logica del senso, considera l’evento per antonomasia, nella sua neutra, impassibile singolarità. L’Aiòn fuori tempo e creatore del tempo che divide il passato e il futuro.
Esistono due atteggiamenti verso la guerra: quello del guerrafondaio e quello del pacifista. Sono pacifista s’intende, ma non del genere “pacioso”, che di guerra non vuole sentir parlarne. Io parlo invece di guerra perché è preoccupazione di ognuno. Per Auguste Comte: “La filosofia prolunga il buon senso”; quindi è compito irrinunciabile degli intellettuali di (far) parlare, (far) pensare la guerra. Tocca a noi spiegarla meglio perché capirci tutti di più.
La guerra è un fatto sociale totale, costituito da azioni, emozioni, narrazioni dirette e strumentali di grande complessità. È un sistema alternativo alla pace: non vigono le stesse regole. Il mondo della guerra organizza le proprie significazioni in modo diverso, possiede una semantica a sé, inintelligibile a partire dal mondo della pace. Ha una logistica incomprensibile dal punto di vista della logica della pace. Ma questa logistica non si ricostruisce a partire da definizioni filosofiche generali, con gli apriori dell’umana cognizione o con l’essenza dei conflitti. Lo studio dei testi rende pensabile la dimensione agonistica insita in ogni tipo di guerra, scrivendola nella problematica della significazione. Attraverso il concetto di contrasto e di differenza, da Saussure in poi, ogni significato è differenziale ed oppositivo. Per la semantica narrativa non c’è racconto senza conflitto di prospettive e senza opposizione tra categorie tradotte poi a livello sintattico da armi e soldati.
Il racconto è proprio l’attivazione di conflitti di personaggi e di punti di vista. L’azione di costruzione e trasformazione del senso passa attraverso azioni bellicose in cui si include l’altrui comportamento ostile come parte del proprio e lo si utilizza contro di lui. L’uso della forza dell’altro come arma e lo studio delle strategie dell’avversario sulla base delle quali modellare le proprie è caratteristico delle arti marziali.
Dobbiamo studiare semioticamente i testi visivi, letterari, ecc. come una retina esterna per guardare alla verità, che è la prima vittima della guerra. È difficile chiedere verità e combattere allo stesso tempo. I regimi bellici di comunicazione sono inevitabilmente fondati su sistemi di falso e di segreto e il controllo marziale dell’informazione è la regola. La Guerra Fredda è stata un vera e proprio conflitto semiotico, una “semioguerra” che usava segni reciproci di minaccia, e dimostrazioni di forza distruttiva, senza dare però la possibilità di calcolarli. Mezzo secolo di semiotica applicata.

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