Da: Massimo Polidoro, Un gioco infame. La banda della Uno bianca, Piemme, Milano, 2008, pp. 132-138..
Nota
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, una serie di efferati delitti gettò il terrore sulla Riviera di Romagna. È un episodio di quegli anni di piombo detto della “Uno Bianca” o della “Falange armata”.
Il giudice Roberto Sapio, che guidò con successo l’inchiesta per scoprire i colpevoli, ricorse, tra l’altro, alle competenze della linguistica e della semiologia. Paolo Fabbri e Alessandro Zinna, dell’Università di Bologna esaminarono, coi loro strumenti, i testi dei messaggi della Falange Armata e contribuirono all’esito dell’indagine.
Massimo Polidoro, professore e scrittore, ha ricostruiro l’episodio tra finzione e realtà con il libro Un gioco infame. La banda della Uno bianca, edito da Piemme nel 2008.
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Il giudice Sapio si rigirava tra le mani un foglio dattiloscritto. Era la trascrizione dell’ennesima telefonata che un anonimo aveva fatto a una redazione dell’Ansa, questa volta quella di Firenze, sostenendo di appartenere alla Falange Armata.
«Comprendiamo che la decisione che ha preso il sostituto procuratore di Rimini dottor Sapio» aveva detto la voce nel solito accento tedesco, «anche se forzata e temeraria, cioè se gli è parsa utile e tatticamente opportuna per decantare la situazione e rassicurare in qualche modo l’opinione pubblica. Ma lui per primo dovrebbe capire che non è una cosa seria.»
L’italiano era quello che era, e non necessariamente dimostrava che l’autore del testo fosse uno straniero. Ma il riferimento alla sua decisione di arrestare Palma e soci in quanto probabili componenti della Uno bianca lo impensieriva.
Se nel momento in cui aveva dato l’ordine gli era sembrata un’ottima pista, ora che i ricercati erano dietro le sbarre non ne era più tanto sicuro. È vero che Palma aveva una mascella spigolosa, come quella dell’uomo che a Santa Maria delle Fabbrecce stava accanto al guidatore e che aveva sparato per primo ai poliziotti, ma la somiglianza finiva lì. Per non parlare del Donati, che aveva una faccia completamente diversa dall’identikit fatto dai due agenti di Pesaro. Certo, poteva essersi modificato apposta le fattezze, ma la barba e i capelli erano comunque troppo lunghi, mentre i poliziotti avevano parlato di uomini con capelli corti e sicuramente senza barba. Ritenere che gli fosse cresciuta fino a quel punto in sole due settimane era impossibile.
Inoltre, l’idea che Palma potesse essere un feroce assassino non lo convinceva più. Nelle rapine del “bandito gentiluomo” non si era mai registrata una sparatoria. A meno che di tanto in tanto, come il dottor Jekyll e mister Hyde, non gli prendesse lo sghiribizzo di mascherarsi e andare a massacrare qualcuno.
Per le date di alcuni episodi, l’uomo sosteneva di avere degli alibi di ferro. Le verifiche erano in corso. Presto si sarebbe avuta qualche certezza in più.
Tuttavia, quello che impensieriva maggiormente Sapio era il resto del messaggio. Il testo infatti continuava con un invito diretto proprio alla sua persona: «Vorremmo perciò consigliare al dottor Sapio di andarsene per qualche tempo in vacanza e leggere in tutto riposo di corpo e lucidità di mente quel delizioso raccontino di Edgar Allan Poe dal titolo La lettera rubata, a meno che, e ce ne dispiacerebbe, non voglia davvero sprofondare nel ridicolo. Firmato, Falange Armata».
Lui quel racconto se lo era letto. Narrava di un documento della massima importanza rubato dagli appartamenti reali francesi nel diciannovesimo secolo. Sapendo chi era il ladro, nientemeno che un ministro del Regno, la polizia aveva fatto l’impossibile per ritrovare la lettera, ma senza farsene accorgere. Gli avevano perquisito la casa millimetro per millimetro, passando addirittura i mobili al microscopio in cerca di eventuali incollature recenti. Lo avevano sottoposto a un paio di aggressioni per strada, in modo da perquisirlo. Nulla, della lettera non c’era traccia. Fu solo grazie all’intuito del detective privato Auguste Dupin, una sorta di precursore di Sherlock Holmes, che la lettera venne ritrovata nel posto assolutamente più in vista di tutti: dentro un portalettere sulla mensola sopra il caminetto.
Il succo sembrava essere che la faccenda era in fondo molto semplice, al punto che la troppa ovvietà aveva messo fuori strada gli inquirenti. Forse quelli della Falange Armata volevano suggerire agli investigatori che anche nel caso della Uno bianca le cose erano assai più semplici di quel che sembravano. Ma in che senso?
A scanso di equivoci, Sapio decise di chiedere un parere al professor Paolo Fabbri, riminese, semiologo di fama internazionale, docente al Dams di Bologna e alla Sorbona di Parigi.
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Il professor Fabbri non poteva essere più chiaro. «Questi sono in modo evidente dei burocrati, funzionari dello Stato. Non escluderei che si tratti di gente appartenente alle forze dell’ordine, o comunque alla sicurezza dello Stato.»
Sul divano dello studio del semiologo, Sapio sfogliava il rapporto che gli era appena stato consegnato. Fabbri e il suo collaboratore Alessandro Zinna avevano analizzato tutti i comunicati attribuiti alla Falange Armata. Alla fine, erano giunti a quella sorprendente conclusione.
Il magistrato aveva scelto il professor Fabbri non solo perché anche lui riminese, ma soprattutto in quanto esperto nell’analisi della comunicazione politica. Ai tempi del rapimento Moro, aveva criticato l’idea di Sciascia secondo la quale per ritrovare lo statista rapito sarebbe bastato mettersi a esaminare i proclami delle Brigate Rosse col dizionario in mano. Fabbri invece sosteneva che dai comunicati delle BR sarebbe potuto emergere semmai giusto qualche dettaglio su chi li aveva scritti, nient’altro.
Applicare la semiotica a un’indagine di polizia era dunque un’idea nuova senza nessuna garanzia che potesse servire a qualcosa. Tuttavia, le conclusioni di Fabbri sembravano andare proprio nella stessa direzione verso cui tendevano le ipotesi di Sapio.
«Funzionari di Stato, dice lei. Da che cosa lo deduce?»
«È una questione di idiom» disse Fabbri portandosi la pipa alla bocca.
«Di cosa?»
Fabbri sorrise. «Gli idiom sono i modi di dire, le frasi fatte.»
Poi si accorse che la pipa era spenta e si mise a cercare i fiammiferi. «Quando si analizza un testo si può operare in vari modi. Di solito si lavora sulle parole, altre volte sulla grammatica. Altre ancora sullo stile, sul modo in cui una persona parla. E poi c’è l’analisi degli idiom. Le frasi fatte sono come parole complete, che non si possono modificare. Prendiamo il salto della quaglia. Non si può dire in modi diversi, non c’è il salto dell’allodola, o il balzo della quaglia. E non si possono nemmeno aggiungere aggettivi: non si è mai sentito il salto della bianca quaglia o della furba quaglia. Sono frasi ma equivalgono a parole. Le usiamo tutti, e aumentano via via.»
Sapio annuì. «È tutto molto interessante, ma cosa c’entra con le sue conclusioni così precise sui probabili uomini di Stato come autori dei messaggi?»
Fabbri trovò i fiammiferi dentro un cassetto e si prese tutto il tempo per accendere come si deve il fornello della pipa.
«Ci stavo arrivando» disse infine gustando il fumo delle prime boccate. «Se tutti usiamo le frasi fatte, è anche vero che certe frasi si usano di più in determinati contesti piuttosto che in altri. A guardare questi messaggi direi proprio che il contesto in cui sono nati è quello di qualcuno che ha a che fare con la burocrazia. Senta qui…»
Fabbri allungò una mano, Sapio gli passò i fogli che stava osservando.
«”Dopo attenta e circostanziata valutazione della situazione venutasi a creare…”, oppure: “Preso atto delle attuali indeferibili necessità di ordine politico…”. O ancora meglio: “La inderogabilità di perseguire, in via prioritaria, il raggiungimento di obiettivi più incisivi e persuasivi tramite azioni di guerriglia e di lotta armata…”. Lo sente come suonano stantìe tutte queste frasi? Sembra di ascoltare un funzionario del Politburo. Oppure, visto che siamo in Italia e vista l’impronta destrorsa dei comunicati, un passacarte del Sismi o del Sifar.»
L’idea era suggestiva. Un qualche spione nostrano, una qualche scheggia impazzita nei Servizi segreti, che colpiva con azioni quasi militari e poi le rivendicava cercando di depistare verso gruppi filonazisti.
«Ma non le sembra che queste rivendicazioni rappresentino un rischio per questa banda di criminali? Non potrebbe diventare più facile scoprire di chi si tratta, con analisi come le sue?»
Fabbri tirò una boccata dalla sua pipa di schiuma. «Non credo di avere capito.»
Sapio si sedette più vicino al bordo del divano. «Mi spiego meglio. Col messaggio di Poe sembrano volerci dire che le cose sono più semplici di come le guardiamo noi. Sembra quasi ci vogliano aiutare. Ma perché? È un controsenso. Non gli converrebbe restarsene zitti?»
Fabbri si raddrizzò. «Un momento. Io non le sto dicendo che chi manda questi messaggi sono le stesse persone che seminano il terrore sparando e uccidendo. Le mie analisi riguardano solo chi scrive i comunicati, che potrebbe anche essere qualcuno totalmente estraneo ai fatti di cronaca nera cui gli stessi messaggi fanno riferimento. In ogni caso, il riferimento a Poe ci dice solo che gli autori hanno un minimo di cultura letteraria. Stop. Dopodiché, nessuno può fidarsi delle indicazioni contenute in messaggi anonimi.»
«Sarebbero dei depistaggi anche questi, insomma?»
«Certo, potrebbero esserlo. Quando ci si trova in condizioni di conflitto e di strategia, la prima cosa da tenere presente è che tutte le informazioni che provengono dal “nemico”, vere o false che siano, ci vengono date per imbrogliarci. Se sono false, è chiaro. Ma nel caso in cui le informazioni siano vere, vengono date perché si ritiene che non verranno credute. Nei conflitti, la prima vittima è sempre la verità.»
Sapio sospirò. L’analisi di Fabbri era molto suggestiva; ma pur fornendo qualche utile indicazione sull’estensore dei messaggi della Falange Armata, non diceva nulla sugli assassini della Uno bianca. Si era di nuovo punto e a capo. Se anche fossero stati scoperti gli autori dei comunicati, c’era il rischio che si sarebbero rivelati dei semplici sciacalli, degli approfittatori di crimini altrui, col puro fine d’intorbidare le acque. Ce n’era abbastanza per perdersi d’animo.