Alle falde del cielo. Los Angeles – Las Vegas


Da: Remo Ceserani, Di falso in falso, Edizioni Bandusia, Pisa, 2014.


Sono arrivato a Los Angeles verso sera, con il volo da Monaco, e sono andato subito all’albergo che mi era stato indicato dall’Istituto italiano di cultura, il cui direttore, con l’aiuto di una organizzatrice di eventi, aveva avuto la bella idea di metter su un convegno sul tema del falso. In programma lezioni e discussioni con i semiologhi Paolo Fabbri e Umberto Eco (via Skype), lo scrittore e giornalista Roberto Barbolini e altri illustri colleghi italiani e americani: due giorni a Los Angeles e, per finire, un giorno a Las Vegas, città del falso per antonomasia.
Alla reception dell’albergo ho chiesto se altri convegnisti fossero arrivati e l’addetto mi ha risposto che non sapeva di nessun convegno. Ho provato un momento di panico: forse avevo letto male le date del convegno? Forse era già avvenuto la settimana prima? Salii in camera, controllai, ma le date risultavano esatte. Uscii da solo per il Westwood Village e finii in un ristorante messicano non molto autentico. Tornato in albergo, ancora nessuno. Arrivarono più tardi e la mattina successiva, con un manipoletto di convegnisti, in gran parte bolognesi, andammo all’Istituto. Qui trovammo la sorpresa, quasi a conferma delle mie preoccupazioni della sera prima: la sala era vuota e risultò che l’organizzatrice di eventi, una giovane signora elegante, aveva mandato in giro per la città 3.000 inviti al convegno sul falso con una data falsa: quella del mese successivo. Il pubblico si riduceva a una persona, uno studioso americano, specialista di falsi artistici, venuto appositamente da Chicago, che prudentemente si era rivolto per tempo all’Istituto e aveva scoperto il falso della data. Il direttore era desolato e si aggirava con la coda fra le gambe; la signora incapace sembrava del tutto indifferente al pasticcio combinato.
Per due giorni discutemmo di falso, di Kitsch e di altre manipolazioni della realtà e del buon gusto, lanciando idee e buoni esempi, interloquendo a distanza con Umberto Eco, davanti a un pubblico composto da alcuni funzionari dell’Istituto, qualche visitatore occasionale e dal fedelissimo specialista di falsi di Chicago.
Il terzo giorno, domenica, era in programma la trasferta a Las Vegas. Noi bolognesi avevamo fatto la prenotazione dell’aereo per conto nostro e ci recammo per tempo all’aeroporto. Con noi lo specialista di falsi di Chicago. Le prenotazioni per gli altri, compreso il direttore, le aveva fatte l’organizzatrice di eventi.
All’aeroporto di Las Vegas prendemmo una limousine che ci portò all’hotel Caesars Palace, uno dei più famosi templi del divertimento e del gioco nella città del gioco. Per tutto il tempo il professore bolognese Maurizio Ascari, sia sull’aereo sia sulla limousine, aveva attentamente tenuto sulle ginocchia un proiettore di diapositive, proprietà dell’Istituto, perché a Las Vegas era prevista una conferenza di uno studioso di architettura locale, con illustrazione delle meraviglie architettoniche della città. All’albergo, quando noi sette o otto ci presentammo alla reception, trovammo le stanze assegnate, meno la mia: non risultava nessuna prenotazione a mio nome (tirare il collo all’organizzatrice di eventi?). «Nessun problema» disse il tizio gentile della reception «abbiamo stanze libere e costano solo 250 dollari». Dietro di me, il buon Barbolini mi sussurrò in un orecchio: «Non prenderla; ti offro io un letto da me: ho una stanza per due». Prendemmo un’altra limousine, diretti all’università: «Vedrai», ho pensato «che di domenica è chiusa e non si potrà entrare». Invece era aperta. Ci sistemammo in un’aula, in attesa che arrivasse il resto della comitiva. Montammo il proiettore e, ahimè, dovemmo constatare che la lampadina, durante il viaggio, nonostante le cautele di Ascari, era saltata. Un proiettore senza lampadina è peggio di un falso proiettore.
Ci mettemmo alla ricerca, in quella grande università quasi deserta, di una lampadina, senza nessuna fortuna. A un certo punto sentimmo che da un’aula veniva una musica molto ritmata accompagnata da canti. Aprimmo la porta. Era in corso una funzione religiosa: al centro una donnona nera, con vestiti e veli colorati, che cantava a squarciagola e girava su se stessa vorticosamente con ai piedi dei pattini a rotelle. Tutt’attorno i fedeli che giravano in cerchio, tutti su pattini a rotelle. Corsero verso di noi, offrendoci i pattini per partecipare al rito collettivo. Scappammo via. Intanto gli altri partecipanti al convegno non si vedevano; il professore di architettura era impaziente, il proiettore non funzionava, l’amico di Chicago aspettava di imparare ancora qualcosa sul tema del falso. Verso le undici, licenziato il professore con tante scuse, Paolo Fabbri e io improvvisammo una specie di dialogo conclusivo sui risultati dell’incontro. Gli altri, compreso il direttore dell’Istituto, che avevano preso un aereo sbagliato, arrivarono dopo l’ora del lunch.
Nel pomeriggio andammo a visitare alcune delle straordinarie attrazioni di Las Vegas: la traversata di un falso deserto, durante la quale, a un certo punto compare una nuvola scura in cielo, si apre, ci regala uno scroscio di pioggia, tutti aprono gli ombrelli, poi compare di nuovo il sole e gli ombrelli vengono chiusi; una gita in gondola su un falso Canal grande, con falsi gondolieri, un falso caffè in una falsa piazzetta, un falso doge che a un certo momento compare su un balcone di un falso palazzo veneziano.
La sera, dopo una cena in un falso ristorante giapponese, l’ultima sorpresa, Quando, senza farmi notare, sono salito nella stanza di Barbolini, sono rimasto interdetto: l’unico letto era matrimoniale. Lui, accomodante, diceva, «beh, non importa, l’ho fatto altre volte». Io, sconsolato, cercai al telefono il direttore dell’Istituto e lui mi disse: «prendi pure una stanza singola, ci penseremo noi a pagare». A quel punto della giornata i 250 dollari erano scesi a 180. Pagai con la mia carta di credito. Il rimborso, probabilmente affidato all’organizzatrice di eventi, non è mai arrivato.

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