Articolo di Paolo Fabbri, La Repubblica, 18 maggio 2007.
Ha un senso chiedersi qual’è stato il più bel libro o il più bel film dello scorso anno e premiarlo? Forse, ma chi ricorda il miglior programma televisivo del 2006?
C’è da chiedersi allora a che servano i premi Televisivi internazionali, quelli destinati a premiare la qualità di una tramissione, di una serie o di un formato. Sul modello della letteratura e del cinema, numerose giurie, divise per generi – documentario, docu-drama, fiction, ecc. – si ripartiscono i compiti di giudizio. Dopo attento esame – qualità delle immagini, costruzione narrativa, valore informativo e didattico – vengono assegnati i premi, cioè gli indicatori certi che il prodotto prescelto non verrà mai comprato da alcuna emittente televisiva o destinato all’invisibilità di orari antelucani. La qualità estetica televisiva è impresentabile!?
Una spiegazione plausibile del paradosso sta in un equivoco nella valutazione “estetica” della televisione e del suo linguaggio. In primo luogo sulla ripartizione del flusso delle immagini che è costituito dai Generi. L’unità di consumo di molti linguaggi di massa infatti sono i generi – al cinema si decide per un giallo, per un western, per horror oppure per un Fellini, un autore-genere.
Gli spettatori televisivi non scelgono sulla base di distinzioni come docu-drama o fiction, ma a partire da trasmissioni inquadrate in quei macro-generi che sono i Format: schemi eseguibili, come la musica, con variazioni e adattamenti appropriate alle circostanze – pubblici, tempi e luoghi. L’immaginario televisivo non è un dizionario di immagini ma una antologia di Format.
Un Genere-Format contiene sempre nel suo formato una intenzione d’azione sullo spettatore che incorpora nella propria strategia. Un reality show mescola fiction-varietà e informazione-documentario, ma prevede inoltre una specifica reversibilità tra attore e spettatore. È quindi legittimo domandarsi se c’è un’estetica di questi modelli che testimoniano, al di là dei singoli programmi, di una “creatività di genere” che va oltre le classificazioni tradizionali. Senza fermarci ai giudizi di kisch o di trash che situano la comunicazione televisiva al di là o al di qua del bello e del brutto. E sono un segno ulteriore che la TV è un attrattore tenace di rappresentazioni negative nella nostra cultura, dove disprezzo del popolare e demagogia populista si tengono la mano.
Se partiamo invece dal punto di vista che questa “spugna del mondo” è l’insostituibile utensile domestico per “rendere visibili le evidenze”, accettiamo più facilmente che il banale non è l’insignificante e che per quanto anodina e riflessiva, la TV può essere un rivelatore di immaginario anche migliore del cinema.
Sono proprio i Format che, cambiando i dispositivi di senso della neo-televisione, hanno modificato le condizioni del giudizio estetico. Le accuse di esibizionismo che caratterizzano i reality show dimostrano che la neo-televisione è caratterizzata non dall’offerta di informazione e fiction ma dalla “tecnologia della relazione”. Da oggetto gerarchico, passaggio di sapere e distrazione e rubinetto di immagini per spettatore passivo e cittadino immaturo, la TV è diventata un medium per handicappati relazionali molto attivi nello zapping. Una macchina di sensazioni ed un’offerta di relazioni: più che la critica politica delle istituzioni conta lo psycho-show, la clinica di soggettività incerte sulla loro identità e interiorità. L’esibizionismo e la sua pretesa oscenità hanno quindi cambiato valore. Sono la schiuma di un’onda interattiva, un effetto di senso della inflazione contemporanea di soggettività, espressa e “formattata” dai Format. L’apprezzamento estetico si è spostato dal verosimile narrativo ad un “romanzesco dell’autenticità” espresso in diretta da testimoni-attori intercambiabili con gli spettatori. Non c’è crisi del racconto e dell’immagine – v. le geremiadi della vetero-TV – ma la messa in valore di un romanzesco minore della vita sociale, dove, esibendosi agli altri e a se stessi, si esprime un individualismo in sofferenza di collocazione. Mentre prima la TV si guardava, i nuovi Format permettono di partecipare virtualmente alla messa in scena dei dilemmi dell’individualità. Ovvia, in queste condizioni, la decomposizione delle forme espressive del teatro e del cinema. L’industria del divertimento ha cambiato tattica rappresentativa: ha rinunciato alla sola evasione e si è appropriata della retorica della comunicazione e dei metodi di laboratorio delle scienze sociali. Mette insieme lo spettacolo di varietà e il consumo di relazioni, offrendo realtà e sogni, azione e distrazione. Attori e spettatori si impegnano e si distraggono raccontandosi le difficoltà – economiche, sessuale, morali – della vita quotidiane. Nei “Format di prossimità”, di cui il Grande Fratello è il prototipo, sfuma la pedagogia gerarchica e si assapora una (tele)presenza allo stato puro e una vita psicologica on line. La Tv è un centralino di soccorso psichico vissuto sotto forma di un videogioco dove i VIP sono come noi e noi siamo testimonial come loro. L’anormalità sembra in via di definitiva sparizione.
Siamo fuori quindi dalla società dell’immagine prospettata dai situazionisti: nei talk show conta più la parola ed è vana nostalgia quella dei “bei” tempi del racconto e delle “belle” riprese. I corpi, le facce, le acconciature alla moda certificano le interazioni e le chiacchere. I creativi dei generi hanno capito che alla TV non si chiedono più immagini ma visibilità: rappresentazioni efficaci del sé in rapporto agli altri. È la caratteristica eminente della l’interattività: comunicare con gli altri per provare a diventar se stessi. Non si tratta più di possedere ed esibire segni di prestigio ma di mostrare la propria competenza ed agio nell’entrare in relazione.
Questo vale per il personale quanto per il pubblico. Mentre la politica è ossessionata dal privato – i problemi di famiglia, la rappresentazione televisiva della singolarità prende sempre più il formato del dibattito e della negoziazione politica – con esperti e animatori.
Concludiamo: l’estetica ha una radice sensibile: l’estesia è percezione. È certo che il ribollire surplace di questa vitalità relazionale priva di scopo crei un malessere. La pubblicizzazione della singolarità si presta facilmente all’oscenità quando si perde la distanza dall’altro. E nel mercato degli equilibri interiori è ragionevole domandarsi se, una volta mostrato tutto, resti ancora qualcosa da vedere. L’esperienza spettacolarizzata della interiorità si trasforma spesso in esibizione di intimità insignificanti perché senza esperienza. I formati di partecipazione alla generale sinergia e promiscuità dei rapporti possono quindi dare nausea e persino allergia.
Che dopo il sublime, il disgusto dell’indecenza psichica nel regime della banalità neo-televisiva diventi la nostra nuova emozione estetica?