Paolo Fabbri semiologo il dirimpettaio di Eco


Articolo di Stefano Bartezzaghi, La Stampa, 17 Giugno 1999.


Rícerca e didattica all’insegna dell’oralità
A 60 anni pubblica il suo primo libro ìtaliano; amicì e colleghi gli dedicano un volume di testimoníanze

Paolo Fabbri, La svolta semiotica, Laterza, pp. 138, L. 18.000
“VERSUS 79”, a cura di Paolo Fabbri e Isabella Pezzini, Bompianì, pp. 156, L. 15.000

Nei primissimi Anni Ottanta uno degli istituti del Dams di Bologna era ospitato in un edificio di via Guerrazzi (nel cui pavimento a un certo punto si aprì una voragine, misteriosa manifestazione di psícosomatica édilizia). Il corridoio principale dell’istituto a sinistra finiva nell’aula A e a destra nell’aula C: dal giovedì al sabato vi si tenevano lezioni e seminarì dì semìotica e la polarità fra le due aule sembrava quasi ripetere, in emblema, una di quelle coppie oppositive su cui la semìotica era sorta (langue/parole; significante/significato; paradigma/sintagma). A sinistra insegnava Umberto Eco, che aveva appena pubblicato il Lector in Fabula, Il Nome della Rosa e cinque voci dell’Enciclopedia Eìnaudi (poì raccolte in Semiotica e filosofia del linguaggio, Eínaudi 1984): la sua era una semiotica che andava recuperando il suo rapporto con la tradizione filosofica. Nell’aula C a destra, invece, c’era PaoloFabbri che allora non aveva mai scritto un libro e che metteva in atto una semìotìca diversa: meno attenta alle proprie ascendenze e più portata a spendersi sull’immediato, talvolta sull’istantaneo. Ma non appena uno studente aveva deciso che in aula A c’era la storia, il sistema (la “grammatìca”) e in aula C il discorso, il processo (la “pratica”), i due si scambiavano i ruoli: Fabbri promulgava severe bìbliografie mentre Eco abbandonava lo Stagirita e l’Aquinate per impegnarsi con l’uditorío in una gara di produzione dì metafore, spettacolare dimostrazìone dì semiotica líve.
Le due aule dirímpettaíe erano un modello didattico felicissimo: nel confronto, la materia insegnata non faceva in tempo a cristallizzarsi in certezze non infrangibili né a svaporare in nebbie dense e profumate. Questo obiettivo era ottimo per entrambe le opposte concezioni della semiotica e per entrambi i professori: che fossero addirittura d’accordo nell’ìnscenare il binarismo “aula A” versus “aula C”? La loro amicizia era annosa e collaudata, in passato aveva dato vita ad alcune avventure pionieristiche (come il comune aoppello di Eco e Fabbri a una “guerriglía semiologíca”) e i díssidi disciplinari non parevano scalfirla. Come gli studenti meno imbarazzati dalla futilità della voce si sussurravano. Eco aveva messo nel suo romanzo medievale il bibliotecario Paolo da Rimini che con il professor Fabbri condivideva il nome, la città di origine e una caratteristica ancor più importante: era detto “Abbas Agraphicus”, perché pur essendo di letture onnivore un particolare morbo gli impediva di scrivere.
In realtà del tutto agraphicus Paolo Fabbri non è mai stato, anche se al suo insegnamento l’óralità si addice come una condizione nativa. Che i meriti dì uno studioso si possano misurare dalla quantità delle sue pubblicazioni, è un’opinione che solo gli accademici possono ritenere, e a Fabbri, per svolgere il suo pensiero, è necessarío un interlocutore (presente o evocato in absentìa) da cui distinguersi e un pubblico di ascoltatori. In questi giorni esce un volume in omaggio ai suoi sessant’anni (a cura di Pierluigi Basso e Lucia Corrain Eloquío del senso. Díaloghi semíotici per Paolo Fabbri, Costa & Nolan, pp. 394, L. 38.000): non è composto di omaggi di allievi, ma di testimonianze di interlocutori, spesso appartenenti a discipline o attività dìverse dalla semiotica: da Baudrillard a Berio, a Detienne, allo stesso Eco, a Tadini. L’aspetto interlocutorio e paradossale dell’attività di Fabbri è testimoniato dal tìtolo che luì stesso scelse per un convegno su Barthes: Voci in ascolto di una scrittura. Fabbri semiologo della voce? Anche il libro di Laterza (il suo primo, in ìtalìano) è la trascrizione di lezioni, e a un certo punto Fabbri fa lezione sulla propria stessa voce, prendendo cioè la propria voce come oggetto di un esempio. Anche nel linguaggio verbale non tutto è scomponibile in unità mìnime significative, e averlo pensato ha portato la lìnguìstìca a trascurare nelle proprie analisi fenomenì che avrebbero potuto dirle molto. L’intonazione, per esempio, che è il punto in cui passioni e affetti entrano nella lingua parlata.
La semìotìca sì è sempre incardinata alla nozione di “segno”: daglì esordì con Roland Barthes che intendeva demistificare, rivelare l’ideologia del linguaggio borghese (Fabbri ricorda l’appartenenza originaria di Barthes alla critìca brechtiana) fino alle più aggiornate teorìe dì Umberto Eco e alle sue esplorazioni archeologiche sulla nozione di segno. Il segno vuole essere un modello rappresentativo della realtà; Fabbri sulla scorta della semiotìca del franco-lituano Algirdas J. Greimas, si chiede se il modo in cui “confíguriamo” il senso non sia invece di tipo narrativo, attraverso segni, ma anche oggetti, strategie racconti. La “svolta semiotica” che Fabbrì propugna fin dal titolo è questa, e distoglìe la semìotìca dalla sua vocazione tassonomica per farle affrontare i diversi modi in cui significhiamo, in cui raccontiamo il senso, quello che sappiamo ma anche quello che crediamo. Per fare un esempio, il modo ìn cuì le vocì corrono (sul pettegolezzo, Paolo Fabbri ha curato assieme a Isabella Pezzini il numero monografico di Versus ora in libreria).

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