Da: RomagnaNOI, 11 agosto 2016.
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Milano omaggia il lavoro polimorfico di Studio Azzurro a tre anni dalla scomparsa di Paolo Rosa
Tre anni di morte. Paolo Rosa, mente di Studio Azzurro, ci lascia nell’agosto del 2013, in Grecia. Riminese tanto da meritare il Sigismondo d’Oro nel 2011, attualmente, con le sue creazioni, è in scena a Milano, a Palazzo Reale, nella mostra Studio Azzurro. Immagini sensibili, in atto fino al 4 settembre. Tra gli intervenuti in catalogo, anche Paolo Fabbri, semiologo riminese, con un testo di cui stralciamo, per gentile concessione, un brandello. Speriamo che l’Amministrazione di Rimini si ricordi di onorare un grande riminese.
Studio Azzurro non condivide la proposizione o il postulato che viviamo una società dello spettacolo. Nel senso proprio del termine, lo spettacolo chiedeva una profondità di illusione, un gioco di simulacri, una separazione tra la ribalta e la platea (Baudrillard). La comunicazione social-mediatica, virale e presenzialista che si pretende many to many, risulta spesso – e forse volentieri – many to none. Studio Azzurro non condivide neppure le esibizioni acrobatiche di tecnologia informatica e il kisch pervasivo di immagini d’ogni genere – non ultime le cd. immagini scientifiche che sono spesso pubblicità di laboratorio.
Per Paolo Rosa e i suoi coautori, per un’estetica focalizzata sulla dimensione performativa “risulta centrale la teatralità che trova il suo fulcro nel momento relazionale” (Arte fuori di sé, p.105). Una drammaturgia dell’Io-Tu, piuttosto che una rappresentazione epica dell’impersonale e una espressione lirica dell’Io. Per che abbia il valore di un laboratorio antropologico, un teatro “fuor di sé” – con registi e non burattinai robotizzati e attori e non marionette – “opera sull’immaginario attraverso segni e indizi”; un dispositivo semiotico e poetico per rendere significante ogni gesto, disegno, suono e parola.
La regia delle installazioni di Studio azzurro. Intreccia quindi le forme espressive dei videogame all’articolazione dei contenuti narrativi, in vista delle potenzialità espressive dei nuovi media performativi – che includono il post-cinema – e una drammatizzazione degli habitat. Sono riflessioni e ripensamenti nell’Arte fuori di sé che Balzola e Rosa deducono o proiettano da un trittico di spettacoli come The cenci, Giacomo mio, salviamoci!, Il fuoco, l’acqua e l’ombra, operati con il musicista Giorgio Battistelli, la regia di Paolo Rosa e il dichiarato influsso di “tre grandi silenzi del ‘900, Beckett, Cage, Duchamp”.
Tra le installazioni più teatrali, inclusive di musica e danza, le scene più coerenti al progetto teorico sono Neither (2004) e Galileo, studi per l’inferno (2006-8), cosmogonie antropomorfe dove i corpi degli attori interagiscono con la “fisicità delle immagini”. La più saliente, quella che più mi riguarda, è il cosmodramma – tratto dalle sorprendenti misurazioni dell’Inferno dantesco, eseguite dal giovane Galileo Galilei. Uno spettacolo di danza e video che è l’oggettiva, involontaria replica al poeta tedesco Durs Grünbein, il quale vedeva nella ricerca di Galileo sul grande teatro infernale la rottura moderna tra la poesia e la scienza.
Attualizzare i classici ci allevia dal presentismo e ci ricorda in questo caso che la letteratura è Mimesis e Mathesis e soprattutto Semiosis. Studio Azzurro riprende creativamente il calcolo, rigoroso quanto immaginoso del “grande teatro” dantesco dell’aldilà, della sua coreografia, dei suoi protagonisti e dei loro tormenti, che Galileo voleva fossero disegnati con immagini (perdute) e diagrammi che ne facessero considerare il sito e le figura.
Nella regia di Paolo Rosa, la mappa galileana perde ogni cornice: diventa una partitura aperta, mobile e drammatica: le immagini al suolo, fatte ma non finite, rappresentano alternativamente fogli, circoli, croci, silhouettes colorate, diagrammi geometrici, lettere, scritte, visi, occhi. I danzatori incarnano diverse istanze: i pensieri di Galileo, i dannati, i visitatori dall’Inferno, i giudici ecclesiastici: col loro ruotare scendono misurando da un girone all’altro, fino alla sequenza finale in cui, attraversando un occhio spalancato verso di noi, verso la nera pupilla, trapassano dallo spazio satanico verso un altro spettacolo: “a riveder le stelle”.
Paolo Fabbri