Recensione di Aurelia Martelli pubblicata online in Tradurre. Pratiche teorie strumenti, n. 3, autunno 2012.
http://rivistatradurre.it/2012/11/la-recensione-1-quando-la-babele-non-e-solo-linguistica/
The architectures of Babel. Creation, Extinctions and Intercessions in the Languages of the Global World, a cura di Tiziana Migliore e Paolo Fabbri, Olschki (collana Fondazione Giorgio Cini), Firenze 2011
Il volume raccoglie i contributi della seconda edizione de «I dialoghi di San Giorgio», tenutasi a Venezia tra il 14 e il 16 settembre 2005, incontro progettato dalla Fondazione Giorgio Cini sul tema delle Architetture di Babele. Per l’occasione studiosi di linguistica, semiologia, sociologia si sono riuniti insieme con filosofi, scienziati e poeti per riflettere su ciò che accade e che sta accadendo ai “linguaggi” nell’incontro-scontro tra culture, etnie e religioni.
Sei anni dopo l’incontro esce il volume (finito di stampare nel novembre 2011). I curatori glissano elegantemente con una battutina ammiccante che attribuisce al kairos il gap temporale che separa le due giornate di dialoghi e l’uscita degli atti.
Arrivato dunque anche per noi il momento propizio, ci accingiamo a leggere il libro. Secondo quanto scritto nell’introduzione firmata dai due curatori, l’obiettivo di questa edizione dei «Dialoghi» è di riflettere sulle dinamiche di mutazione/estinzione delle lingue, sulle loro trasformazioni viste non più “soltanto” come sistemi verbali ma come una fusione tra parole, elementi verbali, numeri, immagini. Fin dalle prime pagine viene proposta una lettura del mito della diaspora di Babele come risorsa e arricchimento, vale a dire come evento che, spazzando via l’ideale (impossibile) di una lingua unica, ha favorito non solo la diversità, ma anche l’emergere della traduzione come alternativa alla lingua unica e quindi come strumento di incontro, conoscenza, comprensione e accoglienza dell’altro. E, naturalmente, poiché di global world si parla anche nel titolo, non poteva mancare una riflessione sugli effetti di quel complesso insieme di fenomeni chiamato “globalizzazione” e su come le lingue possano, in una società sempre più globalizzata, valorizzare la diversità e preservarla, nonché difendere la specificità dei popoli e delle culture favorendo, esprimendo e promuovendo le differenze, nonostante le difficoltà, i limiti, gli ostacoli che la comunicazione interculturale comporta.
Gli interventi sono otto, raggruppati in tre sezioni: Origine e destino delle lingue; Lingua, comunicazione e identità; Fisica e metafisica delle lingue.
Paolo Fabbri (semiologo, linguista, docente di semiotica dei linguaggi specialistici), il quale nei suoi interventi alterna il francese e l’inglese, propone una lettura del mito di Babele non come distruzione (di un ideale impossibile, forse anche indesiderabile) bensì come forza creatrice. La distruzione della torre non è più considerata una punizione, ma il simbolo di uno sviluppo sano e naturale che arricchisce e non necessariamente mortifica. Come alternativa alla lingua unica Fabbri propone la traduzione, o meglio quello che lui definisce un «comparatismo sperimentale» (comparatisme expérimental, p. 6), senza privilegi per nessuna lingua o cultura.
Harald Haarmann (docente di linguistica e vice presidente dell’Institute of Archaeomythology californiano-finlandese) propone la decostruzione di alcuni stereotipi che riguardano le lingue, in primis il luogo comune che definisce le lingue cosiddette “primitive”, prive di un lessico complesso e di complessità grammaticale (verrebbe da chiedersi cosa sia la complessità grammaticale). Prosegue riflettendo sul ruolo dell’inglese nella estinzione delle lingue difendendolo dall’accusa di essere “sterminatore” delle altre lingue. Secondo lo studioso, infatti, il pericolo maggiore per le lingue minori non proviene dall’inglese lingua franca ma dalle lingue nazionali che cercano di schiacciarle. Haarmann inoltre manifesta una certa preoccupazione per il fatto che il decremento del tasso di diversità linguistica causato dall’estinzione di molte lingue possa implicare/causare la perdita del patrimonio di conoscenze che le lingue in via di estinzione custodiscono.
Il futuro dell’inglese come lingua internazionale viene messo addirittura in dubbio da Nicholas Ostler. Il linguista inglese traccia un interessante parallelo tra le lingue internazionali del passato – per esempio il persiano, l’aramaico, il fenicio e il greco – e l’inglese. Come l’inglese, le lingue citate hanno conosciuto, per differenti motivi e in diversi momenti storici, una grande diffusione, tanto da imporle come lingue franche. Motivi religiosi, politici e commerciali hanno poi determinato la fine del dominio di tali lingue.
Susanne Romaine, docente di linguistica e sociolinguistica all’università di Oxford, fornisce un quadro dettagliato dello stato della diffusione delle lingue. Dai dati presentati emerge chiaramente che la maggior parte delle lingue del pianeta è parlata da piccolissime popolazioni e che esiste dunque una maggioranza di lingue che rischia di scomparire. La studiosa prende in esame alcune delle cause e delle conseguenze che la scomparsa di tali lingue comporterebbe e illustra possibili sforzi volti a migliorare la situazione su scala mondiale.
Oggetto dell’intervento di Paolo Ramat, professore ordinario di glottologia e linguistica dello IUSS (Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia), è il tentativo di fare il punto su quanto detto tra i colleghi e riconduce gli interventi a tre diversi filoni: azione politica, strategie educative, questioni di scontro o integrazione tra civiltà e culture. Ramat ribadisce la necessità di un approccio e di una ricerca interdisciplinare e sottolinea più volte come l’identità possa essere compresa solo attraverso la comparazione senza giudizio, come già accade negli studi di tipologia linguistica e nella ricerca etno-antropologica.
Jean-Marc Lévy-Leblond, fisico teorico francese impegnato nel dibattito sulla diffusione del sapere e sulla riflessione sulla natura del linguaggio della scienza, riflette su alcuni luoghi comuni che riguardano il linguaggio scientifico e mette in discussione l’idea stessa che possa esistere un linguaggio scientifico specifico, una sorta di lingua speciale in cui ogni parola ha un significato unico e ben determinato, insomma una lingua di carattere puramente denotativo che evita ambiguità. Inoltre manifesta una certa perplessità sul fatto che esista una lingua franca della scienza, un linguaggio cioè che rifletterebbe la pretesa universalità del sapere scientifico.
Abdelwahab Meddeb, poeta, scrittore, professore ordinario di letterature comparate presso la Università di Parigi X, descrive il proprio rapporto con la lingua araba, vale a dire con la lingua coranica, la lingua santa, al centro della sua costituzione in quanto soggetto (nel senso psicanalitico del termine) fin dall’età di quattro-cinque anni. Meddeb, di origini tunisine, descrive la sua infanzia trascorsa in uno stato di diglossia tra il volgare di Tunisi e la lingua santa, rappresentati dallo scarto tra l’arabo antico e il linguaggio colloquiale della Tunisi del secolo scorso. Diglossia che si è poi arricchita con il francese, imparato in età scolare e adottato in seguito dal poeta per scrivere.
Chi scrive confessa con rammarico di non essere in grado, per incompetenza, di dar conto dell’ultimo intervento, quello dell’epistemologo Michel Serres.
Il taglio del «Dialogo» è certamente interdisciplinare. Infatti sia i partecipanti sia i curatori più volte sottolineano la necessità di un approccio interdisciplinare, nel senso di non strettamente linguistico, ma aperto e attento alla dimensione storica, filosofica, sociologica, semiotica e scientifica (nel senso di “scienze esatte” o scienze “dure” che dir si voglia). Solo uno sguardo interdisciplinare, infatti, può riuscire a cogliere la complessità di un tema come quello della diversità culturale/linguistica e della evoluzione/estinzione delle lingue e dei linguaggi, proponendo una riflessione che non rischia di cadere nella trappola della semplificazione relativistica o dogmatica.
E come si fa a non essere d’accordo? In fondo l’interdisciplinarietà è connaturata nell’uomo, soprattutto al giorno d’oggi, epoca in cui il sapere si presenta come altamente specializzato grazie agli studi sempre più approfonditi e all’aumento delle conoscenze in diversi campi e settori disciplinari, ed è normale dunque – e anche sano – che si senta l’esigenza di comunicare e di integrare diverse discipline per poter avere una visione unitaria e comprensiva di un determinato fenomeno.
Ma c’è un problema: per quanto i rappresentanti delle singole discipline coinvolte in una discussione cosiddetta “interdisciplinare” siano maestri nel proprio settore, è davvero difficile che da un loro dialogo esca fuori qualcosa di realmente utile. Lo stesso Paolo Ramat (che di approcci interdisciplinari ne sa qualcosa) a metà libro commenta: I read all the papers with keen interest and I learned a lot. However, I must confess that it is difficult for me, invited by the Cini Foundation in my capacity as linguist, to say anything sensible about some of the papers (p. 81; traduco a braccio: Ho letto tutti i contributi con profondo interesse e ho imparato parecchio. Devo tuttavia confessare che è difficile per me, che sono stato invitato qui in quanto linguista, dirne qualcosa di sensato).
L’interdisciplinarietà ha il vantaggio del punto di vista trasversale e multiplo, ma ha lo “svantaggio” di porre in comunicazione discipline (in questo caso la linguistica storica, la sociolinguistica, la filosofia, la musica, la poesia, la fisica) che utilizzano sistemi di simboli e modalità di codificazione delle idee, obiettivi e schemi epistemologici sostanzialmente diversi.
Se otto (illustrissimi) studiosi si riuniscono e dicono ognuno la sua su un argomento (per altro vastissimo) alla fine l’impressione è di un “dialogo” in cui è stata messa molta carne al fuoco ma senza in realtà venire a capo di nulla e soprattutto senza una vera e propria integrazione delle discipline e dei punti di vista. Si tratta indiscutibilmente di questioni sacrosante e pure urgenti: si discute per esempio della desiderabilità o meno di una lingua franca, del rapporto tra linguaggio e pensiero, del ruolo dell’inglese nella scomparsa delle lingue “minori”, della struttura e dello scopo del linguaggio scientifico, di importanza delle esperienze personali nella costituzione di un proprio tessuto identitario linguistico e culturale… Dal punto di vista della ricerca (almeno in ambito universitario) un gruppo interdisciplinare è fatto da persone che hanno competenze culturali diverse e che si uniscono per risolvere problemi complessi avvalendosi dei contributi dei vari settori specialistici per sviluppare ed approfondire determinati campi di indagine. Il presupposto dell’interdisciplinarietà vera è dunque la coordinazione, ed è proprio la mancanza di coordinazione che si sente nelle pagine di questo libro dove si ha sì la presenza simultanea di più discipline, ma sotto forma di una sorta di giustapposizione di diversi punti di vista, una specie di “aggregato” di diverse discipline (che rimangono realtà sostanzialmente autoreferenziali), senza che si stabiliscano vere e proprie interconnessioni o sinapsi in grado di connettere i saperi tra di loro, e quindi di aprire nuove prospettive.
Manca insomma una componente fondamentale: l’individuazione di relazioni, l’integrazione (reciproca) dei concetti chiave e delle nozioni fondamentali, l’armonizzazione degli obiettivi e, soprattutto, manca uno specifico “linguaggio interdisciplinare”.
In un’ottica positiva possiamo dire che il libro non è punto di arrivo ma di partenza per ulteriori approfondimenti e, soprattutto, per una discussione costruttiva e integrante dei numerosi spunti di ciascun contributo.
Dare atto ai Dialoghi. Prove d’orchestra
L’etimologia è una figura retorica: estrae dal lessico sintomi di significazione. Così recensione deriva da census e ha la stessa radice di “censimento”, il cènsere: “novero pubblico di una rendita”. Implica un addentrarsi nella materia tanto da poterla sviscerare. Più del censore, chi “re-censisce” prende in carico la parola altrui e la passa al setaccio, raffrontandola con istanziazioni analoghe per un computo critico, a fin di bene comune. Ma in un’epoca in cui vale quante volte si viene tweettati, cioè informare su se stessi e non formare, la tecnica della recensione soffre di imperizia, come i metodi di stima del reddito divengono redditest. Notizie rumorose, che sgravano dall’impegno alla disamina.
Qualche settimana fa è apparso su Tradurre un commento a The Architectures of Babel (a cura di Tiziana Migliore e Paolo Fabbri, Olschki 2011). Il volume racconta l’edizione 2005 dei Dialoghi di San Giorgio,iniziativa annuale della Fondazione Giorgio Cini di Venezia. L’autrice del commento, Aurelia Martelli, osserva che gli Atti escono a sei anni dall’incontro. Un dato rilevante solo per chi intende la cultura come cronaca da consumare. Non necessariamente la maturità di una riflessione va a ritmo di Internet. La formula dei Dialoghi vuole che specialisti di varie discipline, appartenenti a tradizioni culturali diverse, si soffermino su un tema – Le atmosfere della libertà (2004); Martìri (2006); Ereditare il passato (2007); Visioni del mondo (2012)… – senza la pretesa di ridurlo a una dottrina e costruendo invece puzzle di competenze, in loco e in itinere. Prima dell’incontro circolano contributi suggeriti dai relatori, i quali, però, «si espongono al rischio di non sapere che cosa accadrà». La ricerca si compie nella conversazione; Pasquale Gagliardi, segretario generale della Cini, la paragona a un esperimento alchemico, dove ogni ingrediente scatena reazioni impreviste (p. IX). Un'”avventura semiologica” (Jurij Lotman), motivata dall’assunto che, su problemi di ampio respiro, non funziona l’intervento del singolo esperto o di gruppi monodisciplinari. Il Dialogo in tre giornate è un veicolo di approfondimento proprio perché si parte da presupposti e categorie distanti. Costringe a chiarire le idee.
In Architetture di Babele linguisti (Harald Haarmann, Nicholas Ostler, Paolo Ramat, Suzanne Romaine), semiologi (Paolo Fabbri), filosofi (Michel Serres), scienziati (Jean-Marc Lévy-Leblond) e poeti (Abdelwahab Meddeb) tentavano uno stato dell’arte rispetto alle creazioni, le estinzioni e le intercessioni dei linguaggi nel mondo. A turno ciascuno dei convenuti relazionava sul tema. Seguiva un dibattito a più voci che ribadiva, contestava o integrava punti dell’esposizione. Gli Atti tracciano la dinamica polifonica, con dialoghi inframmezzati a saggi individuali e che occupano all’incirca metà del volume. È il piatto forte di questa serie della Cini documentare gli scambi di vedute, restituendo il senso di studi condotti insieme. Perciò sorge il dubbio che Martelli abbia avuto fra le mani lo stesso libro quando lamenta una «mancanza di coordinazione» nel lavoro e pensa di trovarsi davanti a un «aggregato di discipline, che in realtà non viene a capo di nulla». Forse non coglie il montaggio fra contributi personali e dibattiti, marcato tuttavia nel testo da separatori e titoli: da pagina 7 a pagina 15, da pagina 24 a pagina 32, da pagina 43 a pagina 53, da pagina 71 a pagina 77, da pagina 87 a pagina 96, da pagina 110 a pagina 117, da pagina 125 a pagina 131. Questa distinzione, evidente se non ci si limita a sfogliare l’antologia, è all’origine del doppio uso del francese e dell’inglese, che Martelli attribuisce agli interventi di Fabbri, quasi fosse un gesto gratuito. L’obiettivo non è certo inscenare, con una mise en abîme, la confusione babelica! Semplicemente, per la stesura degli articoli, gli studiosi sono liberi di scegliere una delle due lingue, mentre i dialoghi ne consentono l’avvicendarsi. Fabbri ha preferito il francese per il suo contributo e, come Haarmann, Ostler e Ramat, interviene nel dibattito sia in francese sia in inglese. Meddeb e Lévy-Leblond parlano solo il francese, Romaine l’inglese. Una lettura disattenta porta Martelli a chiedersi che significato abbia in Haarmann la nozione di “complessità grammaticale” (p. 18); eppure Haarmann, un rigo sopra, lo specifica, per sostenere la teoria dell’impiego diffuso di pratiche simboliche presso i primitivi: «a rendere complesso un linguaggio non è il fatto che viviamo nell’era dell’informazione e riteniamo che la nostra lingua sia di lungo corso, ma sono le sfide dell’habitat a cui linguaggi e popoli devono far fronte» (ibidem, traduzioni nostre). Michel Serres è accantonato, causa dichiarata incompetenza di Martelli. L’ipotesi di una comunicabilità fondata sull’epistemologia dell’udito non suscita sforzi di comprensione. Basta ammettere il rammarico per scansare la fatica di applicarsi. Nel libro il filosofo indaga il ruolo della dimensione ritmica, soprasegmentale delle lingue: c’è una musica in comune, nel ceppo neolatino, che permette a un italiano o a uno spagnolo di intuire il senso di un discorso pronunciato in francese. Tedesco e inglese adottano altre partiture.
Si potrebbe obiettare che quanto detto finora non salva gli Atti dall’accusa di una fallita orchestrazione dei punti di vista. Per smentire la sentenza di Martelli – «otto (illustrissimi) studiosi si riuniscono e dicono ognuno la sua su un argomento (per altro vastissimo)» – è opportuno, dunque, menzionare alcuni passi dei dialoghi, rivelativi dei modi di costruzione di un pensiero collettivo. Suzanne Romaine accosta al mito di Babele, percepito da Fabbri come risorsa di intelligibilità, l’episodio della Pentecoste, il dono carismatico delle lingue. Impossibile tener conto delle differenze linguistiche se non si esplorano, parallelamente, i processi di conservazione e trasformazione della biodiversità (p. 15). All’interrogativo di Meddeb sulle garanzie di sopravvivenza delle lingue, Haarmann risponde sottolineando il peso della trasmissione intergenerazionale: l’antidoto migliore contro la scomparsa (p. 26). Qui Fabbri invita a non confondere l’estinzione con la morte: il volgare, per Dante, è un sole nuovo che oscura il latino, tramontato. Ma, inaspettatamente, il latino rivedrà l’alba nel Rinascimento (p. 24). Preservare a tutti i costi è un danno anche per Lévy-Leblond, avverso alla museificazione e “turistificazione” delle lingue. Il fisico opta per idiomi che co-evolvano con l’umanità (p. 29). Riguardo all’ideale di una “lingua franca”, Ostler condivide con Haarmann l’apprezzamento per un libro, World Englishes, di Jennifer Jenkins, che mostra quante varietà di inglese si parlano nel mondo, in Australia per esempio. Sono così lontane dagli standard dell’inglese britannico o americano da non sembrare più la stessa lingua (p. 28). L’inglese, in virtù delle nuove tecnologie, appare intramontabile (Ramat, p. 46), ma il suo potere si ridimensiona pensando che un ruolo analogo ha avuto il latino, lungo un secolo, in età gutenberghiana (Haarmann, p. 48). Più avanti Haarmann e Fabbri riconoscono a Ostler il merito di aver definito l’impatto della migrazione sul propagarsi di lingue e valori. Haarmann prende spunto dal discorso del collega e considera i “gradienti di immigrazione” nel pidgin e nel creolo, cioè nei fenomeni di assimilazione delle lingue (pp. 43-45). Sull’intervento di Romaine, che mette a fuoco il difficile equilibrio di forze fra lingue nazionali e minoranze, tornano Ramat, per ricordare il sistema altamente ufficializzato e simbolico del sardo – statuti, bandiere, inni (p. 71), Haarmann, che dai babilonesi ai georgiani lega l’endorsement delle culture a ragioni politiche (p. 74) e Fabbri, incline a un'”ecologia delle pratiche semiotiche”. Gli interessa il manifestarsi di idiomi minoritari, con i loro tratti prosodici e retorici, negli usi discorsivi di altre lingue. Molte minoranze si ripresentano, non svaniscono del tutto (p. 89). Infine il contributo di Meddeb sull’apprendimento dell’arabo suscita l’interesse di Romaine, perché interpreta l’acquisizione di una lingua come conoscenza incorporata, appropriazione attraverso la voce, la calligrafia, la mimica (p. 126).
L’attenzione reciproca è alta, le questioni trattate feconde. In particolare i Dialoghi insegnano che una “lingua franca” non consiste, con buona pace di Martelli, nell’armonizzazione degli obiettivi o nella scoperta di uno specifico “linguaggio interdisciplinare” (misterioso), ma nel sapersi situare, consensuali, su un territorio di emergenze (Fabbri, p. 130). Una fatica che non è da tutti.