Da: AA.VV., Eloquio del senso, a cura di P. Basso e L. Corrain, Costa e Nolan, Ancona-Milano, 1999.
Vent’anni fa le enormi semplificazioni di Michel Foucault gli avrebbero impedito di dirsi d’accordo con la seguente proposizione: gli studi interculturali possono cambiare le cose nel mondo contemporaneo. Nel Quartiere Latino cosi come nel campus universitario della Hopkins, chiunque, studente o professore, avrebbe rilevato in questo asserto pragmatico la prova, se ve n’era bisogno, che il significato condiviso era interamente controllato dal vastissimo potere delle multinazionali, del profitto capitalista e, in ultima analisi, dello Stato moderno; ma dobbiamo lasciare le scorciatoie della retorica della discontinuità.
Le discipline trasversali, l’interdisciplinarità, gli studi inter-culturali, non sono che alcuni dei progetti, delle prospettive che venivano scambiate e che continuano ad attraversare le sponde dell’Atlantico. Nel 1875 Daniel Coit Gilman, che aveva studiato a Berlino e compreso l’importanza della ricerca per le Università, accettò il compito di progettare la futura Johns Hopkins University. Gilman ritornò in Europa, in Inghilterra, in Francia, in Germania: dopo il 1868, Victor Duruy aveva ottenuto da Napoleone III la creazione degli Studi Superiori, sia pratici che teoretici, dell’Ecole des Hautes Etudes, una sorta di colonia scientifica, che creava connessioni tra pratiche di laboratorio e seminari riunendo insieme, nello stesso luogo, matematica e storia, biologia e filologia, fisica ed economia. Per il 1868 fu davvero un evento di forte apertura innovativa, se si pensa allo stato in cui versava l’università tradizionale, totalmente privata dei mezzi per fare ricerca. Fu di fatto la prima istituzione a promuovere gli Studi Superiori. Arti e scienze erano finalmente riunite per lavorare assieme; la trasversalità delle discipline e l’interazione degli studiosi dovevano sostituire la divisione in facoltà, la cui competizione, in particolar modo tra Giurisprudenza e gli Studi Umanistici, doveva pesare fortemente sul futuro degli studi superiori nel campo di quelle che oggi chiamiamo “scienze umane”. Dopo la prima guerra mondiale, tra il 1925 e il 1930, troviamo gli americani, soprattutto la Laura Spelman Rockefeller Foundation, che per proprio conto iniziano ad aiutare e a incoraggiare i primi tentativi francesi nelle scienze sociali. Nel 1929 Marcel Mauss propone di riunire sociologi, storici, etnologi, cosi come economisti, politologi, statistici e geografi. Un programma che doveva concludersi solo molto più tardi in due riprese. Il 1947 è l’anno della creazione della sesta sezione degli Studi Superiori: la sezione di economia e scienze sociali stava per aprire le porte agli storici annalisti, ma anche agli antropologi, agli economisti e a tutti coloro che avevano l’inclinazione e il talento per la ricerca collettiva. Il 1957 é invece l’anno della fondazione della Maison des Sciences de l’Homme (l’Istituto di Scienze Umane), con l’aiuto della fondazione Ford, questa volta, allo scopo di fornire ai ricercatori di tutte le discipline possibili gli strumenti per un lavoro comune
È rilevante notare che la Johns Hopkins, dalla sua istituzione fino a oggi, non ha mai smesso di pensare se stessa come “un’università di ricerca”, capace da una parte di garantire e di preservare contemporaneamente una forma e una “dimensione umana”, e dall’altra di incoraggiare le intersezioni di metodi e l’interazione tra studiosi, al punto che ognuno di essi può liberamente — almeno per quanto conosco della storia di questo campus, ma anche per diretta esperienza — immaginare il profilo interdisciplinare che più desidera intraprendere, con altri o (perché no?) da solo.
Non sono certo il più qualificato in questa sede per fare un resoconto delle attività del Centro di Discipline Umanistiche, del “Programma sulla storia, cultura e società atlantica”, del progetto e dei risultati degli antropologi, che sono tra l’altro anch’essi degli storici. Sarebbe scortese rallentare il nostro dibattito aprendo il capitolo storiografico dei fraintendimenti tra filosofi, storici e antropologi. È necessario, ciononostante, far rilevare come l’estrema modestia dei filosofi li ha mantenuti per lungo tempo in un certo isolamento, soprattutto dagli studiosi che ambivano a interessarsi alle diverse culture, alle produzioni cosi difformi e intricate nel tempo e nello spazio del genere umano. Per quale presunzione la storia è capace di mescolare i risultati del pensiero filosofico con le altre produzioni intellettuali e artistiche, siano pure quelle di un’élite, essendo i primi gli unici qualificati a creare le forme compiute della civilizzazione?
Ciononostante, senza ritornare a Jean Bodin e a La Popelinière, nell’ultimo trentennio del XIX secolo i fondatori dell’antropologia (nel contempo culturale e sociale), sudditi di Sua Maestà, si cimentavano negli studi comparati tra le culture più semplici e quelle più complesse. Per i primi antropologi — ed essi furono largamente seguiti — ogni cultura definisce se stessa con un legame durevole tra pensiero, linguaggio e mondo; il concetto etnologico di cultura designa un sistema di concetti, storicamente trasmessi, espressi in forme simboliche mediante cui le persone comunicano, continuano e sviluppano la loro conoscenza sulla vita e i loro atteggiamenti reciproci. In questo modo di definire una cultura, possiamo riconoscere i “tratti peculiari” comuni a Tylor e a Geertz, insieme alla griglia di Cassirer. Ernst Cassirer, filosofo di obbedienza neokantiana, sembra essere uno dei primi pensatori che, nella propria attenzione a tutte le forme di pensiero del genere umano, si sforza di riflettere sulla Kulturwissenschaft attraverso la massa di configurazioni culturali scoperte e inventariate tanto dagli antropologi quanto dagli storici. Nel campo filosofico, la Filosofia delle forme simboliche, elaborata tra il 1923 e il 1929, certo più influente negli Stati Uniti che in Francia o persino in Germania, rappresenta la prima apertura alle esperienze concettuali che le svariate culture di altri tempi e luoghi hanno compiuto senza pensatori ufficiali o “filosofi associati”. In Francia, nella stessa epoca, vi era un associato di filosofia, Marcel Mauss che doveva gettare le basi dell’intersezione delle conoscenze dell’etnologo, dello storico e del sociologo per il nuovo progetto antropologico.
La filosofia, contrariamente all’antropologia, non è nata nel segno del comparativismo. E’ cosa risaputa da tutti, ma permettetemi comunque di richiamarla brevemente. Il comparativismo è un passo essenziale nella prima etnografia; è con esso che si costituisce la nostra consapevolezza della molteplicità delle condizioni culturali umane. Fin dal XVI secolo, con la scoperta del Nuovo Mondo, il Vecchio Mondo (che include quello degli Antichi e delle nuove nazioni), pone a se stesso in modo concreto la questione dell’Essere Umano, dei limiti e delle potenzialità dell’umanità. L’essere umano può iniziare a sperimentare se stesso. Prova a esaminare la variabilità delle culture al di là dei costumi osservati dagli antichi, da Erodoto a Plutarco. Ma si deve attendere il XIX secolo prima che venga esplicitamente annunciata una disciplina che si ponga come oggetto di studio la variabilità delle culture. Proprio mentre l’antropologia e le analisi comparative delle società umane si andavano costituendo, la conoscenza storica si autocostituiva come “scienza della storia”, il cui oggetto doveva essere da allora in poi “il passato in se stesso”. Se l’antropologia include chiaramente le cosiddette società antiche nel campo della sua conoscenza comparativa, la storia viceversa non mostra alcun interesse in un progetto comparativista, che sembrava attagliarsi solo alle società etichettate come “senza storia” e persino (in uno stile francese) “senza civilizzazione”; ciò rende appunto inconcepibile una possibile utilità di questo progetto.
Questa cruciale divisione è antica. Porta certamente l’impronta del XIX secolo. Tuttavia ne è soltanto la fondazione, dato che rimane tutt’oggi presente, tanto più in Europa dove “la scienza storica” è istituita entro il contesto della nazione, ossia si limita allo studio delle grandi nazioni. Gli storici sono in primo luogo degli storici nazionali; la conoscenza degli storici — di quelli che per formazione, in quanto homines academici (come direbbe Bourdieu), asseriscono di concepire la Storia come disciplina — è allergica all’esercizio della comparazione. In quanto nato come cittadino di uno Stato, lo storico (Homo Academicus) si domanda ieri come oggi: qual è il fine della comparazione? Dal suo punto di vista nazionale, che diviene piuttosto facilmente una presa di posizione nazionalista (vi sono costantemente esempi di questo slittamento), lo storico è corretto; è nato nell’Incomparabile. È risaputa l’affermazione spontanea: “Non si può comparare l’Incomparabile”. Nello stesso dizionario delle “idee generalmente accettate” (e da lungo tempo), si trova senza alcuna difficoltà la formula che fa eco alla prima: “Non si può comparare che ciò che è comparabile”. Chi parla in questo modo? Il significato condiviso e la sua forza è senza paragone. Ma questo è un autentico “sistema culturale”.
“L’antropologia culturale”, fin dal principio, tra Tylor e Boas, non è né nazionale né universale. L’unicità dello spirito universale, hegeliano, il cui fantasma ossessionò persistentemente Gombrich per settant’anni, non spaventò per nulla gli etnologi che scoprivano la straordinaria molteplicità delle culture prodotte e costruite dal genere umano e dal mondo. La prospettiva è abbastanza darwiniana, ma l’osservazione inaugurale dell’antropologia culturale è nella diversità, nella variabilità, nella gamma di variazioni nella “costruzione della cultura”, osservazione attraverso la quale gli antropologi “intendono i sistemi di concetti, significati e credenze che sono incorporate e rese manifeste nei simboli” (Cohn). La nozione di variabilità, che ho mantenuto con lo scopo di descrivere agevolmente in che cosa consista il progetto dell’antropologia, non deve condurre nessuno a pensare che questa nuova conoscenza stesse cercando di stabilire un catalogo di possibilità o, ancor di più, cosi come in seguito è talvolta accaduto, che aspirasse a formulare leggi generali, analizzando per esempio le differenze regolate tra sistemi. Se vi sono variazioni, è possibile avere delle variabili, ma in relazione alle costanti in contesto, nelle configurazioni locali che l’antropologo è indotto spontaneamente a mettere in relazione, persino a iscrivere dentro una prospettiva, ossia — lo possiamo ben dire — a comparare.
La comparazione è il cuore degli studi interculturali. Qualsiasi forma di interdisciplinarità che pretende d’essere qualcos’altro che un semplice trasferimento di metodo, non può sottrarsi alla pratica comparativa. Devo in particolar modo soffermarmi un momento nel dire che credo profondamente che gli studi interculturali siano capaci di cambiare le cose nel mondo contemporaneo e che nello stesso tempo questa sia un’impresa intellettuale degna quanto qualsiasi altra.
Noi, esseri umani dotati di linguaggio, pratichiamo spontaneamente la comparazione nello stabilire analogie che ci permettono di scoprire noi stessi, di comprendere e di agire.
Per un certo numero di discipline come la linguistica e la grammatica comparata, il comparativismo, fin dalla metà del XIX secolo, è divenuto un metodo fondamentale: scoprire e organizzare differenze sulla base della somiglianza e della fissazione dei limiti. L’etnologia, non appena considerò seriamente la diversità (la pluralità) delle società e delle culture, cominciò a comparare forme di parentela, rapporti sociali, modi di mangiare, rappresentazioni della vita e della morte, ossia tutti gli elementi, tutte le configurazioni che sono parte di una cultura. Dopo due secoli, si è così sviluppata una gigantesca impresa multinazionale del multiculturalismo del genere umano. In modo parallelo, le spedizioni degli storici nel passato (e, in tal modo, nell’alterità dell’insieme delle società antiche ed europee), forniscono al comparativista, fin dai tempi di Tylor e Sapir, una favolosa riserva di esperienze “preconfezionate” da Altri, Altri che sono i nostri Antenati, su scala continentale o addirittura extracontinentale. In modo più attivo, da circa trent’anni, alcuni etnologi tra gli storici e alcuni storici tra gli etnologi si sono dedicati alla comparazione tra società distanti ed esotiche, da una parte, e gli antichi stati della propria società, dall’altra. Finora ho parlato dei vantaggi: coloro che praticano questo accurato comparativismo tra società distanti e gli stati antichi della propria società, ci insegnano come siamo capaci di esprimere un’istituzione e una forma di pensiero in un linguaggio comparativo, quello cioè che prende in considerazione ciò che abbiamo imparato sulle altre società.
Possiamo perciò rispondere del tutto correttamente all’obiezione relativista che ci ricorda: “Si può comparare solo dal punto di vista di…”. In effetti, questo “punto di vista dal quale si compara”, è più spesso una categoria mutuata dall’etnologia, dalla storia come conoscenza, oppure offerta nel comune senso culturale dello storico o dell’antropologo. Per il filosofo, lo storico o il comparativista non vi è alcuna possibilità di dubbio: la categoria in questione non è un oggetto naturale, ma costruito; è una forte o debole classificazione. Se scegliamo, per esempio, “religione” o “salute”, sembra che forgiamo un ideai tipo come Durkheim e Max Weber. E’ proprio ciò che fa il comparativismo delle morfologie culturali e delle tipologie sociali. Per contro, se prendiamo una categoria molto debole, per esempio, “preghiera” o “genuflessione”, essa offre molto poco, se non nulla, alla riflessione.
Il vantaggio di una categoria che si ponga tra questi due estremi, come per esempio “fondazione”, “lo stabilire in maniera durevole” o persino “l’iniziare”, è da un lato che siamo facilmente in grado di vedere di che cosa è fatta, di che cosa è composta questa categoria nella nostra cultura, dall’altro che possiamo piuttosto velocemente “compararla”: ossia confrontare quanto può essere equivalente o assente in altre culture che conosciamo molto o piuttosto bene. Qui, sto apertamente esprimendo una mia preferenza: che ce ne siano diverse, due, se non tre o più. Questa è la prima operazione del comparativismo: che cosa pensa uno studioso del Burkina Faso quando ha in mente “la fondazione, l’istituire, lo stabilirsi in modo durevole”? E la domanda è la stessa per uno studioso del Giappone, per uno studioso vedico, per lo studioso amerindo il cui terreno di esperienze, di conversazioni (alcuni di essi parlano) è l’Amazzonia, e così via. È cosi che, a poco a poco, è possibile trarre profitto dall’interrogativo iniziale.
Prendendo l’esempio della “fondazione”, viene subito in mente l’immagine familiare della nazione dei Padri Fondatori. Pensare alla “fondazione” è per noi pensare alla singolarità di un luogo confrontato a uno spazio intero, individuazione che avviene attraverso il nome, le caratteristiche specifiche, i confini che gli si assegnano; ma pensare alla fondazione è anche richiamare l’idea di un inizio, evocazione di un evento primo, isolato, identificato; in ultima analisi è pensare a un soggetto, individuale o collettivo, in connessione con un atto, un intervento.
Il primo atto di un comparativismo attivo (assertivo) è connesso allo smantellamento della logica, fatto che apre un campo di possibilità, offre un mezzo per addentrarsi (con la complicità di una guida locale) all’interno dei sistemi di pensiero “altri”, i quali hanno elaborato concettualmente, ciascuno per proprio conto, ciò che si vuole chiamare “il fondare”, “lo stabilire in modo durevole”. In questo periodo iniziale l’attività comparativista sembra condurre a un’esasperazione delle differenze, a una messa in rilievo delle distanze tra singolarità. Tuttavia, è il modo più rapido per demarcare lo spazio della comparazione e la sua attività sperimentale. Affinché si possano individuare e scegliere le culture maggiormente contrastanti, si prende avvio da quella o da quelle che spontaneamente dicono: “fondare”, che cosa cerca di esprimere questa parola? “Fondazione”, questa, è un’idea sprovvista di significato.
Per riconoscere queste culture si deve conseguire un radicale disorientamento concettuale, comprendere che il nostro significato condiviso è un oggetto costruito, come il resto, dal “senso comune”. Nello spazio della comparazione, delimitato dalla selezione di un certo numero di culture, il comparativista “pluralista”, avendo incominciato con il trarre profitto dai concetti implicati nella “categoria” iniziale, prova ora a scoprire, pur nel suo andare a tentoni, le operazioni concettuali che gli permettono di dar conto delle diverse culture prescelte, attraverso le distinte configurazioni relative a categorie quali, per tornare ai nostri esempi, “il fondare, lo stabilire in modo durevole, il creare un territorio”. Insisto su questa mirabile libertà del comparativista: può lavorare con le culture di qualsiasi luogo, del passato o del presente, a lui più vicine o a lui più lontane. Da una parte potrà avvalersi di tutte le esperienze vissute che sono occorse; dall’altra farà ricorso a quelle che accadono proprio ora sotto i suoi occhi (senza dimenticare che siamo in un quadro pluralistico e può quindi scegliersi gli occhi che vuole).
Come si possono scoprire le operazioni concettuali al fine di compararle? Nell’esempio considerato in questa occasione, il comparativista deve saper comprendere come analizzare le diverse configurazioni con l’aiuto dei tre (apparentemente) semplici termini dello Stesso, dell’Altro e del Prima (il déjà-là). Potrebbe così individuare una serie di “portes d’entrée” (di ingressi) ai differenti sistemi di pensiero: può così dilettarsi nel comparare “le logiche concettuali parziali” attraverso le diverse microconfigurazioni reperite. “Micro” e “parziale” sono aggettivi centrali, ma soprattutto il comparativista deve ricordarsi di lavorare sulle configurazioni locali (non l’Amazzonia in generale, non la Grecia o la Francia, ma un abitante del Béarn o un ateniese del 450 a.C.), deve smontarle, metterle in prospettiva allo scopo, chissà, di scoprire le ragioni di una cosa, di un punto di vista privilegiato attraverso ognuno di questi piccoli sistemi di pensiero. Aprendo un sentiero, il comparativista, il microcomparativista lavorerà effettivamente nel comparare le soluzioni logiche presentate alla domanda “che cosa è — questo fondare”. Che cosa è — questo stabilire in modo durevole?
Il comparativismo di cui sto parlando, e che sto difendendo, è allora in pratica sperimentale e costruttivo. La sua ambizione non è in nessun modo quella di vendere tipologie o di confezionare morfologie “pronte all’uso”. E’ abbastanza semplice trarre profitto dall’opportunità che antropologi e storici hanno di comprendere meglio la più interessante materia per entrambi: le culture, le società, i modi di pensare che sono anche i loro, in tutti i sensi.
Per quelli che desiderano “vivere bene” in democrazia e con la molteplicità delle culture, il comparativismo degli studi interculturali è il miglior esercizio al fine di distaccarsi da sé e conoscere l’altro e il mondo. Il comparativismo non è una dottrina, ma un’attività.