Dove abita il mito? A proposito di Paolo Fabbri, Tex Willer e qualche circostante


Maurizio Del Ninno, E|C, rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici on-line.
Data di pubblicazione in rete: 7 gennaio 2005.


I miti non ci dicono nulla che ci informi sull’ordinamento dell’universo, sulla natura del reale, sull’origine dell’uomo o sul suo destino […]. Per contro, i miti ci insegnano tante cose sulle società da cui provengono, ci aiutano a evidenziare il meccanismo più profondo del loro funzionamento, chiariscono l’esistenza di credenze, costumi, istituzioni di cui non riusciamo in un primo momento a comprendere la connessione; infine, ed è la cosa più importante, ci permettono di cogliere certe modalità operative della mente, così stabili nel corso dei secoli e così generalmente diffuse per vastissime zone da potersi considerare basilari, si può quindi cercare di ritrovarle in altre società e in altri campi della vita mentale in cui non si sospettava neppure che intervenissero (Lévi-Strauss 1971: tr. it.:602).
Qualche giorno fa, di fronte a una mia parata levistraussiana, con molto candore, uno studente del primo anno, mi ha chiesto “Che cos’è un mito?” Abituato da sempre ariflettere sui contorni di questa nozione, mi sono trovato improvvisamente, ahimè, re nudo, costretto a imbastire una risposta. Me la sono cavata con una definizione “ostensiva”: riportando un esempio. Un bell’esempio, credo:

M. 272: Taulipang: origine del fuoco
Una volta, quando gli uomini non conoscevano ancora il fuoco, viveva una vecchia di nome Pelénosamó. Essa accatastava della legna sul focolare e vi si accovacciava sopra: dal suo ano uscivano le fiamme e la legna prendeva fuoco. Il suo speciale talento le permetteva di mangiare la manioca cotta, mentre gli altri la esponevano al calore del sole. Un giorno una bambina rivelò il segreto della vecchia. Poiché non voleva dividere con nessuno il suo fuoco, le legarono le gambe e le braccia, la posero sopra della legna e le aprirono l’ano con la forza. Il fuoco che essa evacuò si trasformò nelle pietre chiamate /Wato/ (= fuoco), quelle che danno il fuoco quando vengono battute una contro l’altra (Lévi-Strauss 1971b, tr. it.:13).
Soprattutto idoneo ai miei fini, perché toglie al mito quell’aura di classicità museale, di perbenismo, di sacra muffa, che il suo frequente ricorrere in contesti severi (l’antichità grecoromana, gli studi storico-religiosi) gli hanno conferito. Iconoclasta per il suo sonoro e fiammeggiante richiamo ai peti, l’esempio conserva comunque il tratto convenzionale che la nostra cultura attribuisce a un racconto per classificarlo nel genere letterario “mito”: la spiegazione di un certo stato del mondo. Nel caso specifico l’origine del fuoco per percussione.
Gli studi di Dumézil, di Lévi-Strauss e di quanti, sulla scia di questi autori nell’ultimo mezzo secolo hanno portato avanti la riflessione sul mito, evidenziando però che tali racconti sono solo uno dei campi di manifestazione del mito, il quale può esprimersi anche attraverso altri generi letterari (la pseudo-storia della Roma delle origini ricordata da Dumézil, per esempio) o in forma di chiosa ad un rituale (la mitologia “implicita” di Lévi-Strauss)1, se non addirittura sotto forma di comportamento somatico (vedi l’analisi di Austeja in Greimas 1985).
In definitiva, dunque, il mito è un concetto operativo, che rimanda solo a rappresentazioni sociali condivise, di cui si tratta da una parte di definire l’articolazione dell’universo semantico (il trifunzionalismo indoeuropeo, per esempio), dall’altra quella di individuare le operazioni mentali soggiacenti alle manifestazioni testuali (Lévi-Strauss).
Il mito, in effetti, non ha intrinsecamente niente che lo distingua da una qualsiasi creazione individuale. Infatti:

Ogni mito deve, in ultima analisi, trarre la sua origine da una creazione individuale2. Su questo non vi sono dubbi, ma per passare allo stadio di mito è necessario che una creazione non rimanga individuale e che perda, durante questo passaggio, gran parte di quei fattori dovuti alla probabilità chela compenetravano all’inizio e che potevano essere attribuiti al carattere, al talento, alla fantasia e alle esperienze personali dell’autore. Avendo i miti una trasmissione orale e una tradizione collettiva, i livelli probabilistici inclusi in essi subiranno un’incessante erosione a causa della loro minore resistenza all’usura sociale rispetto ai livelli organizzati in maniera più rigida in quanto corrispondenti a bisogni largamente condivisi. Non avremo quindi difficoltà a riconoscere che la differenza fra creazioni individuali e miti riconosciuti come tali dalla comunità non è tanto una differenza di natura quanto di grado.
A questo riguardo l’analisi strutturale può legittimamente applicarsi a miti nati dalla tradizione collettiva e a opere di un unico autore, poiché il procedimento sarà lo stesso in entrambi i casi (Lévi-Strauss 1971, tr. it. 589-590).
A questo punto, stabilito che dobbiamo pensare al mito come a un terreno scarsamente perimetrato su cui esercitare la riflessione alla ricerca di universali, il discorso potrebbe svilupparsi in diverse direzioni. Qui mi interessa però accennare solo a due aspetti.
In primo luogo vorrei osservare che, sebbene all’interno dell’antropologia vi sia semprestata la tendenza a scavare una frattura fra “noi” e gli “altri” (eufemisticamente definiti attraverso una serie di termini quali “popoli primitivi”, “popoli primitivi fra virgolette”, “popoli senza scrittura”, “società semplici”, “società tradizionali”, ecc.), è sempre più evidente l’arbitrarietà di tale distinzione, di fatto peraltro implicitamente messa in discussione dalla ricerca di “leggi generali”. A richiamare l’attenzione sulla necessità di saldare questa frattura èintervenuto negli ultimi anni soprattutto Marc Augé. Nel suo progetto di un’antropologia dei mondi contemporanei, egli sottolinea la difficoltà di stabilire un confine netto tra noi e gli altri. A parte la frantumazione del soggetto che ha attraversato tutto il ‘900 (“io è un altro”, secondo la celebre affermazione di Malraux), l’estraneità è un carattere che appartiene anche al nostro vicino di pianerottolo:

Il n’y a pas de raison pour que j’en finisse jamais de m’identifier à mes interlocuteurs africains; pas plus d’ailleurs […] qu’à mon voisin de palier, à ma belle-soeur ou à mes collègues: qui sont, que sont au juste ces autres proches en apparence familiers mais qu’à certains moments leurs lectures, leurs croyances ou, plus simplement, leur silhouette, leur attitude me revèlent plus étrangers, encore plus loin de moi, que le plus lointain de mes interlocuteurs africains? (Augé 1994: 44)3.
Come studioso formatosi sull’incerto confine fra antropologia e semiotica, non posso non osservare che la nascita di un’antropologia dei mondi contemporanei, la quale libera la ricerca dalla vocazione esplorativa e dagli straniamenti dell’osservazione partecipante, avvicina come non mai la configurazione disciplinare prevista dalla programmatica affermazione di Lévi- Strauss, quando, proponeva di intendere l’antropologia “come l’occupante in buona fede in quel campo della semiologia che la linguistica non ha ancora rivendicato come proprio; e in attesa che, almeno per certi settori di questo campo, non si costituiscano scienze speciali all’interno dell’antropologia” (1960, tr. it. 44).
Entro questo quadro di studi, che con Greimas possiamo definire etnosemiotici, vorrei iscrivere, quali felici azioni di avanscoperta verso la conquista di un terreno libero da ipoteche disciplinari, il Tex Willer di Paolo Fabbri, e il Mandrake di Antonino Buttitta, che condivide parimenti oggetto e metodo (Buttitta 2003). Non si può dubitare, infatti, che questi fumetti, nonostante la circolazione scritta e sempre autografa, appartengano all’universo delle rappresentazioni collettive. Come osservato a proposito di Alice di Lewis Carroll (Del Ninno 1994), spinge verso tale interpretazione non solo l’aspetto quantitativo, massmediatico, della loro diffusione, ma anche la loro “durata”, la continua, ricorrente, ripubblicazione.
L’altra osservazione, più generale, va nella stessa direzione. Ho già accennato all’infaticabile lavoro che nei quattro volumi di Mitologica Lévi-Strauss rivolge ad individuare le operazioni del pensiero mitico (in definitiva del pensiero tout court). In un breve articolo che non ha mai riscosso la giusta attenzione, egli definisce due di queste procedure: la deduzione empirica e la deduzione trascendentale. La prima si ha “quando un mito attribuisce una funzione, un valore o un significato simbolico a un essere naturale sulla base di un giudizio empirico che associ in modo duraturo l’essere con l’attribuzione” (1971, tr. it. 1); la deduzione trascendentale, invece, “più che dall’attribuzione di certe proprietà a un dato essere, deriva dalla consapevolezza di una necessità logica, quella di attribuire certe proprietà a un dato essere perché la deduzione empirica ha in precedenza connesso questo essere con altri sulla base di un insieme di proprietà correlative” (ibidem, p. 2). Qualora non sia già nota, l’ulteriore illustrazione di tale distinzione risulta, in questa sede, troppo impegnativa4. Mi limito, pertanto, a sottolineare quanto più mi preme, vale a dire il differente peso che i due modi di deduzione rivestono nella riflessione sulle nostre (dell’Occidente) attività intellettuali. Infatti, mentre è evidente che la deduzione empirica ci guida certamente attraverso le forme del pensiero magico e di quello scientifico, dobbiamo costatare la sostanziale rimozione di ogni interrogativo sui prodotti dalla deduzione trascendentale.
Torna così a manifestarsi, anche per questa via, l’urgente necessità di una antropologia dei mondi contemporanei (ovvero dell’approccio etnosemiotico) e si conferma la valenza positiva di un approccio mitico alle streap, un campo che si rivela, a questo punto, denso di riflessione.

Posso ora rispondere alla domanda iniziale. Dove abita il mito? Sicuramente ha più di un domicilio: abita le rovine delle ville greco-romane, le chiese di Roma, le foreste amazzoniche, i testi vedici. Ma lo si incontra spesso anche nel vicolo vicino casa mia. Direi di più. Passa sotto le mie finestre cantando, con buona pace dell’anonimo anatomista patologo che ha sezionato l’intervento di Fabbri, ignaro della carica etnocentrica della sua (vedi s.a. 2004) rivendicazione di una “riserva” per il pensiero mitico.


Riferimenti bibliografici

AUGÉ Marc 1994 Le sens des autres. Actualité de l’anthropologie, Parigi: Arthème Fayard (tr. it. Il senso degli altri, Milano: Anabasi, 1994).

BOGATIRËV Pëtr – Roman JAKOBSON “Die Folklore als eine besondere Form des Schaffens” in Donum Natalicium Schrijnen, Nimegen-Utrecht, 1929: 900-913 (tr. it. “Il folklore come forma di creazione autonoma”, Strumenti critici, I, 1967: 223-40).

BUTTITTA Antonino 2003 “Mandrake e la magia della comunicazione” in CASETTI Francesco, Fausto COLOMBO, Armando FUMAGALLI (a c. di), La realtà dell’immaginario. I media tra semiotica e sociologia. Studi in onore di Gianfranco Bettettini, Milano: V&P Università, pp.161-175.

Del NINNO Maurizio 1994 “Naked, Raw Alice”, in FORDYCE Rachel e Carla MARELLO (a c. di), Semiotics and Linguistics in Alice’s World, Berlino-New-York: Walter de Gruyter, pp. 34-42.

FABBRI Paolo 2004 “De Tex fabula narratur” in E/C, rivista dell’Associazione semiotica Italiana on-line, dicembre.

GREIMAS Des Dieux et des hommes. Études de mythologie lithuanienne, Parigi: PUF 1985 (parziale tr. it. “Le api e le donne”, Quaderni di antropologia e semiotica, 3, 1985).

LÉVI-STRAUSS Claude Leçon inaugurale pronunciata al Collège de France il 5 gennaio 1960, stampata per la prima volta nell’annuario interno del Collège, n. 31; ora in C. Lévi-Strauss Anthropologie structurale deux, Parigi: Plon (tr. it. “Elogio dell’antropologia”, Aut Aut, 88, 1965, poi in C. Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, a cura di P. Caruso, Torino: Einaudi, 1967: 47-82; ora in Antropologia strutturale due, Torino: Einaudi, 1978: 37-68.

LÉVI-STRAUSS Claude 1971a Mythologiques IV. L’Homme nu, Parigi: Plon (tr. it. Mitologica 4. L’uomo nudo, Milano: Il Saggiatore, 1974).

LÉVI-STRAUSS Claude 1971b “The Deduction of the Crane”, in Paul Maranda and Elli Köngäs Maranda (a c. di), Structural Analysis of Oral Tradition, Philadelphia, University of Pennsykvania Press: 3-21 (tr. it. “La deduzione della gru”, Quaderni di antropologia e semiotica, 6, 1990).

LÉVI-STRAUSS Claude 1983 Le regard éloigné, Parigi: Plon (tr. it. di P. Levi, Lo sguardo da lontano, Torino: Einaudi, 1975).

LÉVI-STRAUSS Claude 1985 La potière jalouse, Parigi: Plon (trad. it. di G. Mongelli, La vasaia gelosa. Il pensiero mitico nelle due Americhe, Torino: Einaudi , 1987).

s.a. 2004 “Tópicos del seminario” in E/C, rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici on-line, dicembre.


Note

  1. “La mitologia può apparire secondo due immagini ben distinte. Ora essa è esplicita e consiste innarrazioni che, per importanza, e organizzazione interna, creano opere a pieno titolo. Ora invece lerappresentazioni mitiche esistono solo allo stato di note, abbozzi o frammenti; anziché seguire un unicofilo conduttore, ognuna di esse rimane legata a questa o quella fase del rituale di cui fornisce le chiose.Solo gli atti rituali permetteranno l’evocazione di tale rappresentazioni” (Lévi-Strauss 1971, tr.it. 630-31). torna al rimando a questa nota
  2. Si riconoscerà in questo passo l’implicito riferimento al saggio di Jakobson e Bogatirëv sul “Folklore come creazione autonoma” (1929). torna al rimando a questa nota
  3. L’ambiguità del rapporto io/altro è del resto presente proprio in quanto c’è di più ‘familiare nelle istituzioni sociali: la regola dell’incesto che fonda l’alleanza matrimoniale deriva, come osservava già E.B.Tylor, dall’alternativa “either marrying-out or being killed-out” (v. Lévi-Strauss 1983, tr. it. 49-74). torna al rimando a questa nota
  4. Oltre a Lévi-Strauss (1971b), per un approfondimento e degli esempi il lettore può fare riferimento ai vari volumi di Mitologica e, soprattutto, a La vasaia gelosa (1985). torna al rimando a questa nota
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