Traditi da Photoshop, ci fidiamo del segno


Intervista con Roberta Scorranese, Corriere della Sera, 13 aprile 2012, p. 51.


IL SEMIOLOGO PAOLO FABBRI SPIEGA CON LA CRISI DI CREDIBILITÀ DELL’IMMAGINE LA PRESENZA MASSICCIA DI GRAFICI E NUMERI NEI MEDIA

Certo, meditavano di uccidere il chiaro di luna. Ma i Futuristi, per primi, avevano capito una cosa: «La grafica è vita». Esordisce così Paolo Fabbri, semiotico tra i più famosi nonché uomo dai mille interessi, dal cinema alla letteratura. Che abbozza un quadro suggestivo: «Per Marinetti e gli altri il segno era qualcosa di più di un tratto. Era la sintesi di un cuore che batte, dotato di personalità. E non è un caso che oggi la comunicazione torni al linguaggio futurista». Torniamo a uccidere il chiaro di luna? «Non proprio – scherza Fabbri, docente alla IUAV, Università di Venezia nonché direttore della Collana di Semiotica per Bruno Mondadori – però gli diamo una forma diversa. Per cominciare, spicca la crisi dell’immagine, della foto». E l’analisi è semplice: non ci fidiamo più. Photoshop tascabili, Instagram e cosmesi varia, hanno privato la fotografia dello status di «scrittura della luce», secondo la visione di Roland Barthes. «Basta aprire i quotidiani – continua il professore – e vediamo una pioggia di diagrammi, grafici, mappe. Contenuto, insomma. Oggettività». Ed ecco che la grafica si fa sempre più spesso numero, significante matematico. Neo Futurismo? O il nitore razionalista di Munari, che inventò una personalissima semiologia delle emozioni? «Mettiamola così – dice Fabbri -: vedo una forza emotiva sempre crescente nella grafica. I Futuristi facevano coincidere tipografia e vita, basti pensare a quei grandi capannoni dove si lavorava e si viveva. Oggi abbiamo più strumenti tecnologici e quindi più mezzi espressivi. Però non pensate che qualche decennio fa la vignetta in prima pagina fosse un fatto così scontato. Quella è satira, quindi un tipo di grafica». Forse non era nemmeno così scontata la proliferazione (e la richiesta) di grafici, mappe, statistiche, numeri. «È come se oggi – spiega il docente – credessimo a quei segni che ci conducono a fare un ragionamento ulteriore. Pensiamo persino alle copertine dei settimanali. Quando ero direttore dell’Istituto italiano di cultura a Parigi, quindi una trentina di anni fa, ricordo che nascondevo le copertine di alcuni noti settimanali italiani: il proliferare di signore nude in copertina scandalizzava persino i francesi più progressisti. Oggi noto un ritorno al primo piano. I contenuti, insomma». Ma oggi la grafica è sempre più interattiva, grazie all’informazione online. Non più solo segno, ma anche voce (gli audio), coinvolgimento emotivo (si pensi alle immagini «sensibili», quelle che si animano al passaggio del mouse). Insomma, è sempre più. «Viva – completa Fabbri -! Esattamente come auspicavano Marinetti e compagni. Ma nell’informazione sul web c’è un altro aspetto. Facciamo un passo indietro: prima del “volumen”, c’era il rotolo di pergamena. Ebbene, l’informazione online, scorrendo lentamente sullo schermo, secondo me è un ritorno all’antico rotolo. E come può il volumen, ossia la carta stampata, fargli concorrenza? Scegliendo immagini molto studiate, inserendo dei grafici che stimolino la curiosità. Insomma, addensandosi». Cambiando veicolo, in molti casi. È interessante notare quel che accade nelle riviste di moda: Fabbri rimarca un insistente ritorno dell’acquerello rispetto alle foto, che ormai hanno raccontato molto. Infine, restano i segni universali, quelli che non muoiono. «Pensiamo alla croce – conclude il professore – il segno più riconoscibile, citato, sfruttato e interpretato. Da Cristo agli orrori nazisti. La morale è che il messaggio non sempre è univoco. E allora lasciamoci sorprendere dai segni».

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