Da: Scenari, 17 aprile 2015.
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Intervista di Tiziana Migliore
T.M. Roland Barthes è uno studioso divenuto “bipolare” nella storia della ricezione critica: esponente di punta dello strutturalismo o viceversa alfiere, con Jacques Derrida, del decostruzionismo. Come spieghi questa schize? È perché Barthes è passato da una fede all’altra?
P.F. Sono ricostruzioni immaginarie, formulate ex post e che oggi vanno decostruite. Non mancano relazioni fra Barthes e Derrida – che di Barthes amava il libro S/Z (1970) – ma così come Derrida non ha mai praticato nessuno strutturalismo, così Barthes non ha mai detto di essere filosofo e decostruzionista. Era soprattutto un semiologo e sosteneva che il metodo strutturale lo rendeva più intelligente. Per la sua tesi della pluralità testuale Barthes aveva altri riferimenti: contrari, come Lévi-Strauss fermo alla chiusura del testo, o solidali, come A. J. Greimas prima, poi Julia Kristeva e Philippe Sollers. Piuttosto c’è stata una veemente resistenza della filosofia alle scienze umane (Derrida appunto) e delle stesse scienze umane all’ipotesi di un’analisi rigorosa e interdefinita nei testi soprattutto letterari. Barthes, però, sollecitava non il rientro della soggettività perduta nello strutturalismo, ma l’integrazione della categoria con cui la semiotica legge gli effetti intersoggettività discorsiva: l’enunciazione (Benveniste). Un es.: la “proferazione” je t’aime nei Frammenti di un discorso amoroso che non è proprio un performativo, ma una formula quasi rituale e come tale efficace: ristruttura parlante, ascoltatore(i) e la loro relazione.
T.M. È probabile che Barthes sia inattuale nell’epoca del pensiero liquido. Per M. Ferraris, in una nota su Repubblica, sopravviverebbero solo i Miti d’oggi “mentre gli scritti più accademici oggi ci appaiono datati”. Fammi un esempio della sua inattualità. Un campo di indagine dove ha mostrato l’efficacia dello Strutturalismo…
P.F. Difficile totalizzare la personalità singolare di Barthes, che è molteplice nei tratti e nei tempi. In teoria della letteratura secondo me lascerà il segno la raccolta su Sade, Fourier, Loyola (1971), più dello studio su Racine (1963). Sade, Fourier, Loyola, benché inattuale, poco citato, è un contributo alla comprensione del modo con cui le immagini agiscono: l’organizzazione combinatoria dell’erotismo sadiano, le caratteristiche erotiche e utopiche del pensiero di Charles Fourier, le visioni estatiche di Ignazio di Loyola fanno emergere una potenza della “figura” trasversale al linguaggio verbale e al linguaggio visivo. E che dunque resta come insegnamento, sul piano pratico nell’applicazione alla scrittura, sul lato teorico nell’analisi della testualità. Per altro Sade, Fourier, Loyola sono tre autori marginali e trasgressivi. Pensatori fuori canone, come lo era Barthes che nei Frammenti di un discorso amoroso non esita a far ricorso alle dottrine buddhiste del Tao e dello Zen giapponese e alle visioni dei mistici: v. J. van Ruysbroeck, fiammingo trecentesco , ha tante citazioni quanto Proust. Chissà se Ferraris ha avuto il tempo di leggere tutti questi “scritti accademici”.
T.M. “Struttura” e “storia” sono considerati antonimi. Il 23 marzo coordinerai con Gianfranco Marrone un convegno a Urbino dal titolo Storie di Barthes. Qual è stato l’atteggiamento di Barthes nei confronti della storia?
P.F. Decisivo, le ricerche di Barthes cominciano e restano immerse nella storia, come chiarisce la notevole recente biografia di Tiphaine Samoyault. Su incarico di Algirdas J. Greimas e Georges Matoré, Barthes ha lavorato due anni, 1951 e 1952, negli archivi della Biblioteca Nazionale di Parigi, per stilare un Vocabolario dei rapporti fra lo Stato, i padroni e gli operai dal 1827 al 1834, su testi legislativi, amministrativi e accademici. Costanti sono poi le riflessioni sul fondatore della Storia di Francia, Jules Michelet, che vanno oltre lo studio a lui dedicato (Michelet 1954) e alla sua antropologia del sangue e degli altri umori. Con un approccio innovativo Michelet aveva unito due generi in uno – la propria autobiografia al racconto storico. Barthes è interessato a distinguere questi due aspetti e a capire come si intrecciano. Attingeva all’ipotesi di Lucien Febvre, per cui il concetto stesso di “Rinascimento” è un’invenzione di Michelet, scaturita dallo strettissimo legame fra vicende personali e rigetto della nozione di Medioevo come secolo buio.
Barthes dà inoltre precise indicazioni di metodo nel suo Le discours de l’histoire (1967), dove procede ad un esame dettagliato del discorso storico, delle sue strategie enunciative e dei suoi “effetti di realtà”. Non esistono fatti che parlano da sé; la storia è un problema di organizzazione di significati. Sono gli anni in cui Barthes elabora le teorie della narratività, da intendere non come fenomeno opposto al dato o alla prova, ma come costruzione intelligibile e significativa. Similmente procede Jacques Le Goff, nel porsi questioni di nominazione e periodizzazione: c’è una fase storica che non chiamiamo Medioevo: fino a quando dura? fino alla metà del diciottesimo secolo. E il Rinascimento è un episodio tra gli altri.
Oggi, dopo vigorosi dibattiti, è ormai ovvio che la storia è un’organizzazione semantica argomentativa e narrativa (H. White, P. Ricoeur) . Fanno eccezione le insinuazioni di Carlo Ginzburg, in primis, secondo cui frasi fuori contesto attribuite a Barthes, che “le fait n’a jamais qu’une existence linguistique”, conducono al negazionismo dell’Olocausto. Qui, però, bisognerebbe spiegare Ginzburg, almeno quello di Rapporti di forza (2000), e non Barthes.
T.M. Hai tradotto per Bompiani, nel 1961, il saggio su La retorica antica. Il progetto di Barthes era quello di “un serbatoio di figure a uso dei creativi”, com’è stato letto di recente (Massarenti, Il Sole24Ore)? O che cosa lo accomuna e lo distanzia dalla teoria dell’argomentazione di Chaïm Perelman?
P.F. Perelman e Olbrechts-Tyteca pubblicano, nel 1956, un trattato sull’argomentazione. Il lavoro di Barthes sulla retorica antica, successivo, è il resoconto di un corso universitario, con un obiettivo diverso: insistere sulla possibilità di una teoria del discorso al di là della frase, a cui si ferma la grammatica. Questa teoria, e il suo insieme di operazioni, si richiama alla retorica al di là della rottura positivista tra letteratura e pensiero del linguaggio; ma al tempo di Barthes e forse ancora oggi, era una tradizione così complicata, contesa dalla sofistica, dalla logica e dalla grammatica coi rispettivi punti di vista, da esser stata ridotta a una ambigua e ridondante lessicologia. Barthes ne rivendica l’efficacia attuale entro una semiotica del discorso. Dunque i suoi “tropi decorativi” non vanno opposti alle “argomentazioni civili” di Perelman, come opina Massarenti. Lo dimostra il ruolo che si riconosce oggi alle figure, ai cosiddetti tropi nelle scienze dure. Sono luoghi d’ invenzione ed elaborazione del pensiero: “tutte le metafore sono vere, se regolate” (René Thom). Proprio il contrario di un pensiero relativista e “liquido”
T.M. Che non si tratta di una concezione estetica è evidente dalle riflessioni sul discorso pedagogico, sull’insegnare come ricercare, sullo spazio del seminario. Ti sei occupato anche di questo.
P.F. Barthes ha lungamente riflettuto, da un lato, sulla reversibilità tra lettura e scrittura intesa come atto pratico, dall’altro sul modo di insegnare e di fare ricerca. Distingueva tra il Professore – orale, l’Intellettuale – professore che scrive e lo Scrittore, che lavora nel corpo della lingua. Pensava il seminario in forma di falansterio, aderendo alle teorie di Fourier della non opposizione fra piacere e dovere, dell’attività scientifica condivisa come “mondo amoroso”. Una prospettiva utopica, ma felicemente lontana da quella psicanalitica, edipica, che va per la maggiore oggi: l’idea che insegnare è ritrovare il padre…
T.M. Particolarmente intrigante è come Barthes ha giocato nella contemporaneità il concetto di mito…
P.F. Barthes intende per “mitologia” la retorica che nella vita sociale articola aspetti del quotidiano con valenze simboliche. Avversa quindi l'”asimbolia”, la naturalizzazione della dimensione segnica, i continui tentativi dell’ideologia borghese di reificarne e semplificarne l’arbitrario. Una prassi che prosegue oggi che tutta la società si può definire borghese. Gli interessa rispecificare lo spessore simbolico delle forme di vita del quotidiano. Detto ciò, Samoyault spiega che Lévi-Strauss non aveva preso sul serio la visione di “mito” di Barthes, che ha sorpreso la cultura marxista allora dominante in Italia, che era rigidamente asimbolica nella sua autodefinizione e percezione della cosiddetta “sovrastruttura”.
T.M. Il noto proclama della “morte dell’autore” si spiega con l’opposizione opera/testo. Il testo, a differenza dell’opera – dice Barthes – “non occupa spazio in una libreria, ma è un campo metodologico, il prodotto di un’attività, trasformazione dell’autore in un effetto di iscrizione”. È stata compresa questa valenza del “testo” nella cultura occidentale?
P.F. No. La nozione di “testo” ha incontrato vive resistenze nelle discipline psicosociali, dedite all’interiorità psicologica o alla rappresentazione cognitiva. Nell’orizzonte di Barthes non era la morte dell’autore a contare, quanto la vitalità del testo nella sua esistenza – non essenza – plurale. Di qui lo sforzo per uscire dall’accezione occidentale attraverso l’etimologia araba o la pratica orientale dell’haiku, del teatro kabuki, i viaggi in Giappone e in Cina. Si rimprovera a Barthes di essersi occupato esclusivamente di prosa e non di poesia. Gli studi su di un generepoetico per antonomasia, sull’haiku, con gli esempi che costellano i Frammenti di un discorso amoroso insieme agli gli aneddoti zen, mostrano il contrario.
T.M. In Barthes gli studi sull’immagine incrociano spesso le ricerche sulla scrittura. Perché, secondo te?
P.F. È un semiologo “multipolare”. Con Saussure approdiamo a una nozione di segno liberata dallo specifico delle sostanze espressive – letterarie, visive, gestuali… – e che consente traducibilità nuove, il confronto regolato e pertinente su problemi di senso. Barthes l’ha colto subito, applicando lo strumento semiotico che si prestava meglio: la teoria dell’enunciazione di Émile Benveniste. Secondo i suoi gusti: non gli piaceva il cinema e amava le immagini ferme: fotografia, pittura, fumetti, fotoromanzi, illustrazioni dell’Encyclopedie, ecc. . Riteneva che il potere immaginario del cinema fosse tale da travolgere l’analisi, mentre le descrizioni “da fermo” permettevano approfondimenti non sommersi dal movimento irreversibile del girato e del montaggio.
T.M. Quali tratti rendono inconfondibile ed esemplare la sua attività di ricercatore? Cosa, del suo lascito, ritieni irrinunciabile e che cosa invece lasceresti cadere?
P.F. Di irrinunciabile c’è proprio l’apertura straordinaria della testualità, all’interno della quale sono possibili traduzioni e ibridazioni e di discorsività. Rinuncerei invece al concetto non sistematico di connotazione, che ha permesso a Barthes una grande libertà di associazione – spargerne “la polvere d’oro” v. S/Z – ma ha tolto ogni tipo di delimitazione al concetto. Col risultato che poi, per bloccare la fuga degli interpretanti, Barthes ha dovuto servirsi di codici. Il modello ideale rimane S/Z, che moltiplica la paradigmatica dei codici, a supporto delle singolarità connotative.
Vorrei concludere dicendo che questo centenario, se permetterà una rilettura di Barthes, anche solo parziale, sarà l’occasione per ristabilire continuità e rotture, ricollocare adesioni e rifiuti e da ultimo tacitare le banalità che continuano a tediarci. L’elogio e il biasimo, le figure retoriche dell’epidittica – come sapeva Perelman – sono mosse tattiche della polemica: indicano – deissi – e implicitamente sostengono o contestano.