Intervista con Cinzia Fiori, Corriere della Sera, 6 maggio 1997.
Il prossimo libro di Eco sarà un saggio in difesa di una disciplina che sembrava al tramonto. Ma il suo allievo Paolo Fabbri dice: Umberto, ormai sei un romanziere.
Già è difficile, come per le signorine di una volta, stabilirne l’età. Ha trentatré anni? Cioè è nata con la discussione italiana sul saggio di Roland Barthes Elements de semiologie oppure ha visto la luce nel 1967 con la pubblicazione della rivista “Strumenti critici”? O non è forse sempre esistita, visto che fin dai tempi di Aristotele l’uomo riflette sui segni? Per fermarsi all’ufficialità, si potrebbe dire che in Italia la disciplina che studia la letteratura e la comunicazione di massa come sistema di segni è apparsa nel 1971 con l’Associazione degli studiosi di semiotica, fondata fra gli altri da Silvio D’Arco Avalle, Maria Corti, Umberto Eco, Giovanni Nencioni e Cesare Segre. Certo è che la prima cattedra italiana di Semiotica fu istituita al Dams di Bologna nel 1975, titolare Umberto Eco. E proprio il professore, il Semiologo per eccellenza secondo le definizioni in uso nella società delle comunicazioni di massa, ora annuncia un saggio filosofico – autobiografico, Kant e l’ornitorinco, che uscirà a settembre per Bompiani. Ma già ora l’editore dichiara: “Non escludo che fra i bersagli di Eco figurino coloro che hanno decretato la morte della semiologia”. Ecco, questo è il punto, passati gli anni di gloria, quando addirittura si denunciava l’imperialismo della semiotica, ora e da più parti se ne decreta la fine. Allarmi. Tanto da scomodare in sua difesa Umberto Eco, il Semiologo, appunto. Facile prevedere che fra i suoi bersagli, numerosi saranno gli italianisti, da sempre scettici sulla materia. “Diciamo che fra gli italianisti non ci sono stati casi clamorosi di conversioni, di trasmigrazioni alla semiotica – spiega Edoardo Sanguineti – per chi fa analisi di tipo storico, nel solco di una importante tradizione italiana, passare armi e bagagli alla semiologia avrebbe significato dirigersi in un ambito filosofico. Perciò gli italianisti sono rimasti tali ma, è vero, ci sono stati anni di accese dispute. Non si potevano quasi azzardare critiche perché ormai si era giunti alla metafisica del segno: tutto era linguaggio e tutti navigavamo in una specie di semiosfera dove venivano meno la sostanza delle cose, la loro fisicità, la storicità. E, devo dire, questo fu imbarazzante fin dagli inizi. Ma erano tempi, come sempre quando nascono nuove discipline, di accesi entusiasmi e grandi speranze, si pensava di aver risolto una volta per tutte il problema della decifrazione di un testo. Questo in fondo è il bello della ricerca. Ma se ora il bilancio risulta deludente di fronte a risultati parziali e a volte contestabili, la causa sta tutta in quell’eccesso di illusioni: un elefante, raccontava Brecht, cresce più di un gatto ma mai più di quanto possa crescere un elefante”. Sanguineti guarda ora alla semiotica in una luce più pacata, storicizza, insomma. “L’elemento descrittivo prevalente in semiotica, che pure ha avuto molti meriti, col tempo ha mostrato i suoi limiti: leggere Barthes oggi è senz’altro stimolante, ma alla fine la sensazione è quella di arrestarsi sempre sulla soglia dei problemi. La semiotica ha dato tutto quello che le era possibile dare, ora è un deposito acquisito. Ma i tempi in cui con la semiotica si studiava lo “specifico Tv”, con la blobbizzazione globale, sono alle nostre spalle. Ormai viviamo in un’era post – semiologica”. Le novità venute dalla Russia a contraddire nei fatti Sanguineti è Maria Corti. Bompiani ristampa in questi giorni per la sesta volta il suo Principi della comunicazione letteraria con un testo aggiunto: sette voci scritte a distanza di vent’anni. No, per Maria Corti, la semiotica non è certo morta e neppure in crisi. “I grandi e importanti fenomeni culturali non sono soggetti a mode. È vero, per la semiotica c’è stato un periodo di straordinaria vivacità negli anni Settanta, che fu alimentata da due influenze: quella russa, importantissima in ambito letterario, quando, oltre ai saggi degli studiosi francesi, si incominciarono a tradurre i testi di Lotman e Uspenskij. L’altra novità venne dall’America e, in particolare, gli studiosi di Peirce molto influirono sul gruppo di semiologi della comunicazione che con Eco lavoravano alla rivista “Versus”. Una semiotica, la loro, che, a differenza di quanto facevamo noi di “Strumenti critici”, affrontava il problema del segno in una prospettiva globale. “Fu un lungo periodo di importanti elaborazioni teoriche per entrambi i gruppi – ricorda Maria Corti – poi, con gli anni Ottanta, approfondito tutto ciò che si poteva, noi semiologi letterari abbiamo smesso di fare nuova teoria per prendere ad applicare i metodi teorizzati ai testi: eccoci allora scrivere di Boccaccio, Ariosto, Leonardo, Pessoa e poi di tanti altri scrittori come Gadda e Calvino, per scoprire magari che i racconti di Marcovaldo sono costruiti con la teoria semiotica ma, certo, non sta scritto in copertina. Così io ho dato alle stampe Il viaggio testuale (Einaudi) e un importante lavoro di Segre s’intitola Avviamento all’analisi del testo letterario (Einaudi). Questo per dire che passando dall’elaborazione teorica all’applicazione, la parola semiotica è sparita, ma non per questo è scomparsa la semiotica”. Insomma è tutto oro anche se non riluce? “No, non dico questo. La semiotica influenzata dal pensiero americano ha spesso dato risultati disastrosi, se con Opera aperta Umberto Eco ha introdotto una nozione importante nella cultura, chi l’ha seguito di frequente ha affrontato questa disciplina in modo dilettantesco e superficiale. Il risultato è che della semiologia della comunicazione salverei davvero poco, anche perché è fatta da allievi di filosofi che, a differenza dei filologi, dimostrano troppo poco rispetto per il testo: non gli si può far dire ciò che non dice”. E allora diamo voce a questa parte “avversa”, nata sotto l’influenza del pensiero americano e fiorita nelle aule del Dams all’ombra di Umberto Eco. L’anno prossimo sulla sua cattedra siederà Paolo Fabbri, che fin d’ora annuncia di considerare “tutt’altro che utopica l’ambizione che la semiologia diventi una metodologia generale per tutte le conoscenze”. Di crisi neanche a parlarne: “Basti vedere – dice – quante applicazioni ha trovato in questi anni: dalla pubblicità, alla moda e persino nell’analisi politica”. Certo, ammette, qualche errore è stato fatto, e persino Umberto Eco ha delle responsabilità: “La distinzione che lui ha operato tra disciplina pura e applicata, ponendo da un lato la semiotica generale, teorica, ridotta in pratica a filosofia del linguaggio, e dall’altro la semiotica con le unghie sporche di pubblicità o altro, non solo è una separazione puramente retorica, che nessuno scienziato farebbe mai, ma soprattutto è un errore, perché così l’intera disciplina ha perso forza e influenza”. Del resto, continua Fabbri, “ormai Umberto Eco la miglior semiotica la fa nei suoi romanzi, è un uomo molto impegnato, divenuto un grande filosofo, ma non è più un semiologo, i suoi lavori in questo ambito sono sempre meno interessanti”. Altre responsabilità invece, secondo Fabbri vanno cercate fuori, nel clima culturale di questa fine secolo: romantico, lo definisce. “C’è un rientro nei ranghi di tutte le discipline: i filosofi fra i filosofi, i linguisti fra i linguisti e così via. Tornano insomma gli steccati accademici, quelli che negli anni Settanta erano stati abbattuti, aprendo un fruttuoso scambio. Perciò in questa atmosfera da 8 settembre, a patirne, ma solo in Italia, è la semiotica, che per vocazione sta seduta fra due sedie, quella della filologia e quella della filosofia”. Gli epigoni del Professore ammette inoltre, Paolo Fabbri, che molte approssimazioni sono state compiute; e a pagarne lo scotto, ancora una volta è stato il buon nome della disciplina: “Tutte le volte che un nuovo campo di sapere si apre, prima ci sono gli iniziatori, poi s’apre la seconda fase, quando dai campi di sapere limitrofi irrompono nella disciplina quelli troppo intelligenti o troppo stupidi per il loro ambito. Perciò è vero, agli inizi, sulla semiotica hanno lavorato persone di gran talento accanto a veri scemi”. Per la verità, anche dopo gli inizi, le cose non sono andate tutte per il meglio. Tanto per essere espliciti: gli allievi di Eco non sembrano godere di gran fama. “Intanto – spiega Paolo Fabbri – siccome Eco è ormai inattaccabile da qualsiasi critica, spesso si maltrattano i suoi allievi pensando di colpire lui. Ma d’altro canto è vero, Eco si nasce, non si diventa e cercare di imitarlo senza possederne il talento è una follia: porta al dilettantismo. Non si può essere allievi di Eco, solo epigoni”. Ma torniamo alla semiotica di Paolo Fabbri, quella che ha un grande futuro. La definisce: “Una disciplina a vocazione scientifica che si interessa dei sistemi e dei processi di significazione”. La parola “segno” scompare. E non è affatto un caso: “Bisognerebbe buttar via il concetto di segno per incominciare a occuparsi di efficacia. Quando noi guardiamo un film non facciamo distinzioni fra segno iconico, musicale o teatrale. I significati non sono la somma dei segni e soprattutto non sono neutri. Gran parte del linguaggio, inteso in senso ampio, ha la forza di trasformare la gente. Trascurare questo aspetto ci porta per esempio a perseverare nella favoletta di un sistema delle comunicazioni di massa in cui non si fa altro che passarsi semplici e neutre informazioni. Ma la realtà non è così innocente”.