Da: Immagini del pensiero, programma televisivo di RAI Educational, puntata del 19/08/1998.
Tratto dall’intervista: “Semiotica e narratività” – Parigi, Istituto Italiano di Cultura, 17 maggio 1994.
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Nella narratività ci si è accorti, a partire dal fatto che un racconto non è una semplice combinazione di frasi, che le frasi, combinandosi, obbedivano ad una logica specifica. Per esempio, sarebbe molto difficile raccontare che “un giovanotto fuggì, una signora lo picchiò con l’ombrello, un giovanotto offese una signora”; il fatto è che semanticamente soltanto “un giovanotto offese una signora, la signora lo picchiò con l’ombrello e il giovanotto fuggì” acquisisce un senso. In altri termini, esiste a livello macrolinguistico, cioè al di là di una organizzazione di frase, una organizzazione semantica, noi diremmo sintattica, che fa sì che la narrazione abbia un senso proprio. Ancora una volta, la narrazione non è riducibile alla somma delle frasi né delle parole che vi sono impiegate, ha una specifica organizzazione propria; ed è questo che la semiotica ha intrapreso a studiare. Per farlo, la semiotica è partita da “corpus” organizzati e concettuali di largo impiego popolare e folklorico, quale è stato quello studiato da Vladimir Propp sulle favole russe di magia. L’idea di Propp era uno studio focalizzato di un certo tipo di organizzazione discorsiva, molto specifica e storicamente determinata. Lo studio dello strutturalismo prima, la semiotica poi, ha tentato di disimplicare, come si dice, da questo studio occasionale ma di larga organizzazione, alcuni modelli previsionali che si potevano in qualche misura generalizzare a forme narrative più complesse. Questo ha significato un incremento dei modelli di elaborazione, che sono diventati generalizzabili e quindi estrapolabili ad altre strutture narrative elementari. A qualunque tipo di racconto che abbia forma minimale, cioè organizzazione narrativa, per esempio. Molto chiaramente è possibile, disimplicando da una teoria dell’immaginario delle favole, rappresentare una organizzazione narrativa del tipo: apertura del racconto con qualificazione dell’eroe, compimento di un’operazione fondamentale di trasformazione della realtà e successivamente riconoscimento della qualità e della competenza dell’eroe; cioè in altri termini, due segmenti comunicativi, in cui l’eroe riceve una competenza e alla fine il riconoscimento della sua esecuzione, inquadrano un segmento centrale di operazione e di trasformazione.
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Uno dei più conosciuti è quello di Pinocchio. Pinocchio è un bambino che dovrà essere riconosciuto come bambino, ma che nasce come burattino. Nasce come burattino e deve in qualche misura trasformarsi in un bambino. Per farlo deve compiere un certo numero di operazioni: essere ubbidiente, andare a scuola, eccetera eccetera, per le quali va in qualche misura qualificato, perché all’inizio è disubbidiente, non va a scuola, si integra sempre con i cattivi amici e così via. Una volta qualificato dalla sofferenza, dall’avventura e anche da alcuni meriti personali, per giungere a questa qualità compirà l’azione fondamentale, che è quella di rendere al padre quello che il padre gli ha dato, ricordate che alla fine della storia Pinocchio porta in giro Geppetto, ormai paralizzato, lo libera dalla balena e poi lo gestisce lui, diventa lui il padre di questo padre diventato bambino; e in questo momento c’è il riconoscimento, il bambino si sveglia, il burattino si sveglia e diventa un bambino. Questa inquadratura delle due grandi sequenze di comunicazione: la formazione, il “Bildungsroman”, il romanzo di formazione iniziale, il compimento dell’operazione fondamentale e il riconoscimento, sono ugualmente riscontrabili, per esempio, nella pubblicità, dove costantemente chi non riesce a compiere un’azione, prima fallisce, fallisce la propria competenza, non è in grado di deciderne, successivamente compie l’operazione esecutiva, una volta che ha ricevuto quello che noi chiamiamo un “adiuvante magico”, cioè lo strumento che è il prodotto, e successivamente, molto importante, viene riconosciuto da tutti. L’idea di base è che esiste uno schema di comportamenti e ovviamente la realizzazione superficiale, come si dice, rispetto a questo schema che è più profondo, può mancare, dn ciscuno di questi. Per esempio, è possibile insistere moltissimo sull’aspetto preliminare, cioè il momento di formazione, che è il caso di Pinocchio: in Pinocchio la durata della formazione, non a caso è lo specchio stesso della vita del bambino, è enorme, il compimento dell’operazione fondamentale, rendere al padre, salvare il padre dalla balena e, quando è vecchio, sostituirsi a lui eccetera, è una parte molto ristretta della storia, e il riconsocimento finale è molto semplice.
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L'”adiuvante magico” è venuto fuori dall’idea che quasi in ogni racconto, ad un certo punto l’eroe è insufficiente all’azione e le sue incapacità sul sapere, sul potere, sul desiderio, vengono sostituite da strumenti, o da persone, o da animali o altre entità, le quali arrivano porgendo, a chi deve compiere l’azione, una parte della sua competenza mancante, cioè, per esempio, il sapere, saper fare, uno strumento che gli mancava e così via. Il prodotto pubblicitario si pone molto spesso nella nostra cultura, come nelle favole, come quell’oggetto che viene a completare, o addirittura a sostituirsi, alla competenza del soggetto che deve compiere l’azione. D’altra parte l’adiuvante può anche incorporare una funzione di sanzione, per esempio quella in alcuni casi di impedire di compiere certe operazioni piuttosto che altre. Adiuvante non ènecessariamente qualcuno che aiuta sempre, può essere qualcuno che aiuta o qualcuno che si oppone alle azioni sbagliate; in ogni caso aiuta ugualmente. Sono opponenti, cioè sono contro gli adiuvanti, tutti coloro che lo aiutano non a trasformarsi in bambino, ma a rimanere o a diventare natura o animalità. Per esempio, Lucignolo, l’amico cattivo, evidentemente aiuta, cioè è un falso adiuvante, Pinocchio ad andare sì nel Paese dei balocchi e della felicità, però nello stesso tempo è quello che lo aiuta a ritornare a diventare un somaro. Questo problema è tipico ed è molto fortemente posto all’interno della storia; aiuta, per così dire, un’identificazione del bambino, e spinge la trasformazione verso l’uomo, ma nello stesso crea un’immagine della natura in cui l’uomo non sta affatto adeguato, se oso dire, a una natura come un pericolo costante di reversione e di ricaduta. Cioè Pinocchio nello stesso tempo è un operatore di violenta trasformazione e di estrazione dell’uomo da una natura che gli è in qualche misura sempre minacciosamente troppo prossima.
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Pinocchio è un burattino che è intermediario tra il mondo degli animali della natura e il mondo degli uomini. Ha alcune qualità, il fatto di essere di legno, che lo mettono nella parte degli animali e della natura, e ha altre qualità che lo mettono dalla parte degli uomini, è fatto come un adulto. Costantemente in questa operazione di trasformazione, che fa sì che lui diventerà da burattino a uomo, ci sono costanti ricadute: ci sono dei momenti in cui lo mettono come un cane a guardare una casa, altri momenti in cui stanno per bruciarlo come se fosse un pezzo di legno, altri momenti in cui si trasforma in un somaro e molte altre storie, che noi conosciamo molto bene. Se è vero che la narrazione è nello stesso tempo la posizione di un certo numero di contenuti immaginari e la loro trasformazione, riuscita o non riuscita, Pinocchio è proprio questo: è il tentativo di un essere intermedio, creato come una specie di piccolo centauro, che mescola due nature diverse, e il fatto che ogni volta che fallisce l’operazione di traformazione, a causa dei suoi cattivi comportamenti, evidentemente ricade ad una natura animale o ad una natura naturale. Tuttavia, la cosa che volevo sottolineare nel caso di Pinocchio, e mi sembrava assolutamente fondamentale, è che oltre a questa grande opposizione natura-cultura, animalità-umanità, c’è un’altra parte che deve essere considerata fondamentale, su cui lo studio delle strutture narrative aiuta a riflettere in maniera decisiva: il problema della circolazione e del dono. Pinocchio si comporta generalmente acquisendo tutto ciò che gli viene donato, per esempio dal padre, dalla fata, eccetera, e consumandolo senza mai rendere: mangia pere, vuole mangiare soltanto la buona parte, eccetera eccetera, si presenta come un consumatore vorace senza restituzione. È assolutamente fondamentale per Pinocchio mettersi nella posizione della restituzione al padre, cioè di dare quello che gli è stato dato. La madre, in Pinocchio, in maniera paradossale, è, non tanto una vera e propria educatrice, quanto colei che aiuta il figlio, pseudo-figlio, la Fata Turchina non è veramente una madre. La figura ambigua della Fata è più destinata alla sua qualificazione e al riconoscimento che la relazione fondamentale è quella col padre, che parte alla sua ricerca, fino a quel momento di inversione straordinario che avviene dentro al ventre della balena, all’interno del quale il padre non può più cercare, è bloccato nella ricerca, ed è il figlio a sostituirsi al padre e a cominciare lui a salvare il padre e a rendere quello che gli è stato dato. Se lo vediamo dal punto di vista della struttura della comunicazione, ci accorgiamo che esiste in questa favola toscana, molto ottocentesca, una struttura simbolica molto forte, che mette al centro non già la relazione alla madre, come si poteva immaginare da una favola italiana, ma la relazione alla paternità.
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Pinocchio, bene o male, nasce all’interno di una società che si potrebbe chiamare del mondo finito, cioè nella società toscana, e probabilmente in moltissime società primitive, il mondo è diviso in parti e chiunque improvvisamente si arricchisca è qualcuno che ha rubato all’altro. Il mondo finito, il mondo agricolo, per esempio, con uno sviluppo regolato, a differenza del mondo industriale, dove la produzione dell’industria turba completamente questo tipo di equilibri, nel mondo agricolo, dicevo, chiunque si arricchisca ha rubato; l’invidia evidentemente, è la sanzione a chi cresce. Questa forma di controllo, che è anche una forma molto forte di controllo sociale, può essere rotta in due modi: o il dono ottenuto da qualcuno che sta fuori del sistema, il miracolo, la grazia, o il tesoro. Il tesoro è un modo di togliere da sotto la terra qualche cosa che si costituisce come una rottura degli equilibri tradizionali. L’idea fondamentale di Pinocchio di tentare di uscire dal mondo del “il padre ti ha dato e tu glielo renderai” è quello di seminare il denaro; seminare il denaro per Pinocchio significa avere l’accesso a un tesoro che renderà possibile l’uscita di un mondo di balocchi, e un altro modo per uscire in un mondo di balocchi dove ci si divertirà sempre e non si dovrà rendere in qualche misura quello che si è ottenuto. Ora voi sapete la storia ironica, cioè il denaro si configura come il tesoro, ma come tesoro della terra, cioè tesoro agricolo, che può essere in qualche misura innaffiato, e a questo punto dovrebbe spuntare. Questo naturalmente non accade e chi ha seminato denaro, chi ha sperato di uscire dalla reciprocità, viene in qualche misura punito.
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Un ultimo punto che vorrei toccare, e qui Pinocchio ci servirà, è la questione dell’enunciazione all’interno del racconto. I racconti non sono soltanto organizzazioni di contenuti, sono sempre un modo con cui un soggetto viene iscritto nella storia in quanto punto di vista sulla storia stessa. In altri termini, ogni racconto, anche se raccontato in terza persona, presuppone una persona che racconta per qualcuno che la riceve. Questo significa che chi riceve questa storia, lo spettatore, viene spostato gradualmente in diversi punti di vista. Il punto di vista di un enunciatore si trova in condizione di essere dentro la storia, personaggio, o di essere fuori della storia in posizione del tutto obiettiva. Questo passaggio sistematico tra posizioni in cui il soggetto è lui stesso che controlla la storia e posizioni in cui in qualche modo racconta la storia in terza persona, sono, a mio avviso, una serie di montaggi interni ai testi, da cui poi lo spettatore alla fine trae delle conclusioni nella sua propria posizione. Mi pare che ciò sia molto importante per capire l’effetto finale che un racconto fa su chi lo riceve concretamente: chi riceve concretamente un racconto, oltre ad avere un’informazione sul suo enunciato, come diciamo, cioè sui suoi contenuti, in realtà riceve tutte insieme delle posizioni di osservazione in cui è stato invitato a porsi – invitato, obbligato, per così dire, a porsi – all’interno del racconto. Quindi, la problematica molto comune, molto pinocchiesca, di quali sono gli effetti che i racconti fanno per esempio sui bambini, non può non tenere conto, prima della organizzazione della storia interna e successivamente dell’insieme di posizioni e di punti di vista, che sono nello stesso tempo cognitivi ma anche morali, che il bambino è invitato ad assumere mano mano che la storia si svolge.
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Quando c’è una relazione tra un soggetto e un oggetto, il soggetto diventa un soggetto desiderante l’oggetto, ma l’oggetto diventa un oggetto desiderato; ora, tra gli oggetti che circolano in un racconto, circolano anche dei valori, cioè delle attribuzioni di desiderio ai soggetti e agli oggetti, o anche circolano dei doveri all’interno della storia. Continuamente nella storia di Pinocchio circola un contrasto tra gli obblighi e i doveri che egli deve avere da una parte e i desideri che egli esprime dall’altra. Alla fine, l’arresto della storia si attua con una organizzazione dei doveri, io deve dare quello che mi è stato dato, e l’arresto del volere, io non devo più volere quello che è la mia individualità, la mia libertà. È l’entrata in un circuito di obblighi, che in qualche misura è fondamentale in Pinocchio. Ecco perché nelle storie circolano tanto i sapere e le informazioni, quanto le altre modalità, come il dovere e il potere. Ci sono storie che sono storie di circolazione di potere. Quello che è interessante però, da questo punto di vista, non è tanto la generalizzabilità di questi modelli per dimostrare che in fondo l’immaginario umano è in realtà molto più regolato di quanto noi pensiamo, anche se questo tipo di regole consentono una produzione illimitata di racconti, ma quello di una generalizzabilità del concetto di narratività. La narrazione, essendo questo principio di organizzazione semantica soggiacente alle diverse realizzazioni narrative, che possono essere o linguistiche o non linguistiche, si ritrova anche in tipi di racconti che hanno altre funzioni o addirittura si trova soggiacente a discorsi che narrativi non sembrano. Il primo esempio probabilmente è quello che si chiama “esperimento mentale”, che è utilizzato fondamentalmente, a scopi quasi sperimentali o con lo stesso valore della sperimentazione, nella scienza. Le esperienze di Galileo sono in parte esperienze fisiche, reali, come il piano inclinato, altri esempi invece sono esperimenti puramente concettuali. L’idea che quando si è su una nave, la mosca che sta sul ponte vola via, per il movimento della nave, mentre la mosca che gira nella cabina, gira in tondo come se la cabina fosse assolutamente immobile, è un esperimento di puro racconto, di connessione narrativa. L’idea di Einstein che esistono delle relazioni di velocità diverse e che è espressa nell’idea di un uomo che cade dal quarantesimo piano e mentre cade lancia delle chiavi, e ci si interroga sulla velocità relativa tra le chiavi e la persona, non è un esperimento realizzabile su uomini, grazie a Dio, è un esperimento concettuale e mentale, che ha valore narrativo, ma che ha conclusioni di tipo, appunto, speculativo. Questo fenomeno mi pare molto importante, perché toglie all’idea di narratività l’idea naturalmente di favola e di immaginario, introduce la narratività come una operatività specifica concettuale e le dà una valenza di scoperta, che noi chiamiamo euristica, cioè la capacità di raccontare una storia che scopra delle configurazioni della realtà che non avevamo previsto. Si può narrare per scoprire, non narrare soltanto per rappresentare.