Nuovi media e nuovi linguaggi


Da: Il Grillo, programma televisivo di RAI Educational, puntata del 05/05/1998.


Fabbri: Sono professore qui a Bologna, all’Università, alla Facoltà di Lettere e Filosofia, e, per la precisione, al DAMS, che voi conoscete, un settore della facoltà, un corso di laurea di discipline dell’arte, musica e spettacolo. Io insegno Semiotica. Che cos’è la Semiotica? È una disciplina che si interessa dei problemi della significazione, cioè che studia come noi creiamo dei significati, dei segni, per trasmetterli e li comunichiamo. Ecco questo è il punto, e ovviamente ci interessiamo del modo con cui trasmettiamo significati in via linguistica. Nella maggior parte dei casi noi parliamo fra noi, però ci sono altri modi per farlo: corpo, gesti, vestiti, tecniche, strumenti, mille modi per costruire il senso e trasmetterlo. Questa è la mia specialità. Nel caso del mondo giovanile può essere utile.

INTRODUZIONE: Il mondo giovanile è una galassia di idiomi diversi. Come dei traduttori dispettosi e curiosi dobbiamo cercare di cogliere il segreto dei loro linguaggi e delle loro trasformazioni. Questo accade non solo perché i giovani hanno una diversa relazione con gli adulti e una vita più prolungata in casa con i genitori, ma soprattutto perché hanno un diverso rapporto con la tecnica, dal motorino a Internet, passando per la macchina e la televisione. Questo è il punto: il mondo giovanile è formato da soggetti collettivi, l’uomo-macchina, diversi dai nostri, come dimostra il cyberpunk. Esiste un gergo nuovo, che velocemente si trasforma, uno stile di comunicazione nuovo, fatto di nuove forme di cortesia, nuove parolacce, nuovi sistemi di segni. Anche il ruolo dell’immagine cambia e si sta imponendo un uso dell’immaginario, originale e creativo, di cui si trovano esempi anche nel modo di vestire e in altre pratiche del corpo, ispirate ad una nuova artificialità. Si pensi all’uso diffuso di occhiali neri e queste mode del mondo giovanile continuano a proporsi nel mondo degli adulti: il nero punk ormai è diffuso tra i maggiori stilisti. Ma è soprattutto la musica il luogo in cui, da mezzo secolo, si operano trasformazioni di sensibilità e di emozioni, ma anche di rappresentazioni sociali e politiche. Eppure fenomeni recenti, come il Concerto degli U2 nel Convegno del PDS e il Pavarotti di Bologna con Bob Dylan pongono un interrogativo: stiamo assistendo alla fine della diversità giovanile in termini di musica? Una cosa è certa: si sta imponendo una diversa percezione del ritmo della vita comune, che impone una riflessione attenta. Nei luoghi di ritrovo del sabato sera, effervescenza collettiva e rallentamento mistico sono compresenti, droga e new age si contaminano, schiudendo orizzonti nuovi e imprevedibili.

Ma il fatto che sia così facile per gli stilisti, per i cantanti influenzare i giovani, non è un po’ preoccupante? Cioè io vedo, anche una volta non mi sembrava così facile. Adesso anche i telefonini: all’inizio li avevano in pochi, adesso ce li hanno tutti, anche quelli che magari non lo usano.

Fabbri: Sì, è vero. Il fenomeno dei leader d’opinione, come si diceva una volta, cioè delle persone a cui ci si identifica o in cui ci si proietta. Perché ci son due meccanismi: il primo è la persona con cui ti puoi identificare, quindi hai tendenza a fare un po’ quello che fa lui, e poi ci sono le persone verso cui tu ti proietti, li ammiri da lontano, insomma. Diana, la principessa Diana, è un bellissimo esempio di proiezione globale verso qualcuno che noi non potremo mai essere, ma che ammiriamo molto.
Ci sono gli altri per cui ci identifichiamo, e portiamo per esempio gli occhiali neri perché li portano loro o usiamo il telefonino per quello. Ecco, questo fenomeno di contagio: io, secondo me, era molto forte anche una volta. Ricordo un’attrice, che forse conoscete, avete visto, Brigitte Bardot, dopo un certo periodo le ragazze per la strada avevano tutte i capelli come lei. Quindi questo fenomeno di influenza è un vecchio fenomeno ed è sostenuto, evidentemente, dall’industria, dai media e così via.
Naturalmente c’è da domandarsi se è un’imposizione. No, non è un’imposizione, però, nello stesso tempo, anche se ci piace farlo, quindi non è che ce lo impongono il vestirsi in un certo modo o di comprare telefonini, c’è certamente un aspetto di pressione generale a essere un po’ simili l’uno all’altro. Come mai? Perché abbiamo questo? Sapete che in psicologia pensavano addirittura che avessimo “l’impulso gregario”, che fossimo tutti gregari. Io non credo che sia così.
Io credo che funzionino due fenomeni. In ogni fenomeno di significato ci sono due movimenti: nel primo il fatto che noi vogliamo somigliare agli altri per poter comunicare con loro, ma nello stesso tempo vogliamo essere abbastanza diversi per essere noi stessi. Quindi nella moda, ma in generale nei comportamenti, c’è contemporaneamente questi due momenti: io sono come te, ma sono diverso da te, simultaneamente.

Ma anche chi si differenzia dalle mode lo fa comunque per farsi notare, voglio dire.

Certamente, certamente, hai ragione: non c’è “fuori moda”. Cioè quando si dice che un cosa è “fuori moda” è un errore. Il “fuori moda” è definito dalla moda, e tutto quello che va “fuori moda” fra un po’ ritornerà alla moda. Per questo la moda è un sistema molto forte, nel senso che non c’è una posizione esteriore da cui guardare, appunto quello che si mette fuori, perché anche quello che si mette fuori è generalmente la moda futura.

Questo fenomeno della massificazione della cultura, che io associo un po’ all’era della televisione, della radio, in che misura cambierà o sparirà con l’avvento di Internet come mezzo di comunicazione di massa?

Sì, questo è vero, che una volta non c’era un mercato di parole, d’immagini, di musica così massiccio e soprattutto, diciamo, all’inizio del secolo, perché la radio è già molto vecchia e poi la televisione, che nonostante tutto è degli anni Quaranta, Cinquanta, tra l’America e noi, e così via. Cioè hanno creato quella situazione bizzarra, in cui stavamo tutti insieme davanti allo stesso messaggio. Questo sta cambiando molto già adesso, perché prima di tutto abbiamo la possibilità di spostare, di cambiare canale con uno strumento efficace, secondo, abbiamo una disponibilità di messaggi enorme. Ecco, la domanda però – e sarebbe giusto porsela – è: tutti questi messaggi, apparentemente diversi, non sono poi molto somiglianti gli uni con gli altri? Ecco io ho l’impressione di sì, cioè che nonostante l’apparente diversificazione, che oggi certamente non è più simile alla massificazione di una volta, ci sia, in fondo in fondo, un comune atteggiamento, un comune tipo di percezione del mondo. Questo però, secondo me, è più vero a livello delle rappresentazioni concettuali, che della realtà percettiva. Per esempio ho l’impressione che – è stato detto anche nella presentazione -, che ci sono delle forme – la musica, il contatto con il vestire, le cose che si mangiano e si bevono, eccetera -, c’è, sì, una standardizzazione, ma ci sono anche delle differenziazioni considerevoli.
Ho un po’ l’impressione che in fenomeni, compreso la droga, purtroppo, ci sia un tentativo di uscire da una standardizzazione del gusto, per accedere a delle forme di sensibilità diversa. Quando dico sensibilità non vuol dire i contenuti, le immagini, le informazioni, ma di avere diverse sensazioni. Lo avete visto, anche sempre nella presentazione, quella pratica degli sport estremi oggi, che diventa sempre più spettacolare e che è veramente il tentativo di avere nuovi tipi di sensibilità, nuovi tipi di sensazioni personali.

Non pensa che questa virtualizzazione di tutti i comportamenti, il fatto di navigare, di poter parlare con persone a distanze enormi, senza vedersi, senza potersi toccare, potrebbe portare a una specie di dissociazione fra la mente e il corpo? Il fatto di poter stare magari tutto il giorno, seduti in poltrona, con una specie di casco in testa, fare milioni di cose senza muovere un muscolo?

Sì, questo è un problema che è stato posto e che, secondo me, è un problema che va affrontato, nel futuro, anche nei nostri comportamenti. Indubbiamente la possibilità di avere esperienze virtuali, vicarie, è recente, però non dobbiamo dire che è così recente, perché la lettura è così. Lei può immaginare qualcuno che sta sempre in casa a leggere, si immagina mondi meravigliosi e poi nella realtà c’entra poco. Internet non fa che moltiplicare a dismisura questa possibilità che noi abbiamo di avere informazioni, contatti, eccetera, di cui il medium tenta invece di sostituire le proprie, le proprie qualità. Do un esempio preciso. Con Internet di solito ci si comunica meno: ci si può parlare anche naturalmente, ma si scrive, si scrive molto. È la vittoria di Gutenberg, è il ritorno di Gutenberg, per cui noi scriviamo moltissimo. Però noi non abbiamo la possibilità, che abbiamo nel discorso quotidiano, di cambiare intonazione e di far capire prima come la pensiamo, se siamo arrabbiati, se siamo seccati, se siamo di buon umore, e così via. Allora hanno introdotto dentro Internet delle figurine molto carine che si chiamano emoticons, che sono delle faccine, sorridenti o arrabbiate, per cui si capisce che tu stai dicendo una cosa e sei arrabbiato o sorridente.
Quindi da una parte Internet sta cercando di introdurre al suo interno delle occasioni di manifestazione delle nostre sensazioni e emozioni – questa è una cosa -, dall’altra parte io ho l’impressione che una gran parte dei comportamenti fisici, e dicevo quello che dicevamo prima: ballo, sport estremi, modi di vestire, il piercing, il tatuaggio, sono invece dei modi in cui si ripropone in maniera drammatica la corporeità proprio perché questa corporeità non viene più praticata. Meno si pratica la corporeità da un certo punto, più se ne fanno degli usi estremi da un altro punto di vista.
Ecco perché il ballo è così importante oggi. Il ballo è in qualche modo, nonostante tutto, nonostante la standardizzazione dei gesti, il ballo è comunque una messa in causa del proprio corpo. Funky, non so se vi ricordate la musica funky, vuol dire sudare prima di tutto: il corpo rientra in gioco.

È proprio vero che soltanto noi giovani parliamo una nuova lingua? Voglio dire, non è possibile che anche voi adulti non riusciate a comprenderci? Magari io parlo con determinati modi di dire, modi di vestire, insomma, mi esprimo attraverso un linguaggio giovanile appunto, e magari Lei non mi capisce o perché parla o un’altra “lingua”, cioè, proprio volevo chiedere questo nuovo linguaggio non interessa solo noi, interessa anche voi.

Ma certamente. No, io una delle cose con cui cominciavamo il filmato era quest’idea che in qualche modo la relazione tra generazioni, che oggi si fa sempre più forte a causa dell’accelerazione tecnologica, è una comunicazione difficile, ma che impone costantemente un’attività di traduzione. Il problema non è: lei deve parlare come noi, noi dobbiamo parlare come lei. È bene che ciascuno parli a modo proprio, e assuma le proprie responsabilità e di età e di cultura e di differenza, ma è bene che si ponga con un’attenzione di traduzione. Ora, quando dico tradurre, voglio dire che, proprio come nel caso di una lingua straniera, è cercare di capire l’altro, tradurlo nella propria lingua e lasciare l’altro essere com’è, non c’è bisogno di sopprimerlo per questo. L’attività di traduttore è molto difficile, perché esige per una generazione di mantenersi, se non informata di tutto, in qualche modo capace o suscettibile di tradurre la generazione precedente. Questo è stato per un lungo periodo già molto difficile. No? Ogni storia, ogni generazione della propria vita. Ma l’arrivo di nuove tecnologie, l’arrivo del fatto che abbiamo a che fare con degli individui differenti, perché usano tecniche differenti, ha accelerato la differenza tra le generazioni. E credo che questa differenza – la musica è un esempio spettacolare – sia difficilmente riducibile, per cui, per esempio, le persone che vanno a ballare, vanno a ballare ciascuno in posti dove c’è la propria musica. E questa è una differenza che renderà la traduzione molto complicata.

È vero che le mode cambiano e ritornano, in base a quelli che sono i gusti delle persone, che, a volta si adeguano, a volta si estraniano, ma ritengo che ci sia un pilotaggio delle mode da parte di chi le produce, da parte di chi le vende, di chi ci guadagna, perché da esempi come il successo cinematografico di Jurassic Park, che è venuto fuori insieme a non so quante riviste che parlavano di dinosauri, fino a Titanic, che è uscito, preceduto da un’accuratissima indagine di mercato su qual’era il film che doveva sfondare.

Certo. Dunque, allora, sì, è vero. Come sempre sfumiamo l’affermazione. Ci sono alcune industrie che hanno provato a fare delle buonissime indagini di mercato, poi hanno fatto il prodotto e non ha funzionato. Quindi non funziona sempre. Certe volte non funziona. Ma prendiamo i casi delle mode: prendiamo il colore nero.
Per un certo periodo tutti quanti – me compreso in questo momento – siamo vestiti di nero e, se andiamo fuori alla sera, ci vestiamo di nero. Nel Seicento, o alla fine del Cinquecento, erano tutti vestiti di nero, il nostro Rinascimento è nero, tutto sommato, e diranno, a un certo periodo, che la fine del nostro secolo era vestita di nero.
Chi l’ha inventato? I punk, a Londra, a un certo punto, reagendo contro gli hippies, con la loro passione per la natura, con le loro dolcezze, con i loro vestiti colorati, pieni di collane, col loro gusto per un passato bucolico di campagna, i punk sono arrivati e hanno detto: “Basta coi colori, neutralizziamo tutti i colori. Il nero. Basta con gli ornamenti e le collanine, usiamo – allora usavano addirittura mettersi, attraversarsi la faccia con delle, con delle spille da balia -, basta con la luce, il sole, eccetera. Viva la città, viva gli occhiali neri. Andiamo verso l’artificio”. E quella è stata un’invenzione, Quella è stata una generazione che s’è inventata davvero uno stile.
Dopo però è arrivata l’industria. L’industria è arrivata e ha proposto il nero per tutti. Sono arrivati i fabbricanti di tessuti. Guardate che l’industria del disegno cambia molto rapidamente. Quello che cambia meno sono i tessuti, quelli che hanno bisogno di parecchi anni di lancio. Sono arrivati e hanno cominciato a dire: “Nero per i prossimi dieci anni”. Poi hanno tentano a volte di fare delle operazioni che non funzionano. Facciamo un esempio: il jeans. Moltissimi di voi avete i jeans. Sono anni che i fabbricanti di moda, di tessuto tentano di eliminare il jeans, perché vorrebbero vendere altre cose, e la gente resiste. I jeans continuano a funzionare. Quindi grande potere della moda, ma non sono onnipotenti, e, secondo l’immaginazione, riesce ancora a gestire, nonostante tutto, il significato.

Lei ha affermato che piercing e tatuaggi sono un’espressione “drammatica” della nostra esteriorità. Perché? Io la vedo come una cosa piacevole. In che senso Lei la definisce drammatica?

Perché è drammatico? Perché io per dramma dico una cosa molto semplice: è la cosa che viene rappresentata, messa fuori. Una volta i corpi erano .., non era necessario che fossero molto belli, perché i vestiti erano molto costringenti. Vi ricordate, non lo so, l’Ottocento, ma anche gli anni Cinquanta, in cui tutti portavano dei corsetti straordinari. Poi a un certo punto tutto questo è stato buttato. È stato un periodo storico celebre, in cui le donne hanno gettato via i reggiseni – oggi non è più così – e hanno gettato via in ogni caso il corsetto. Cosa succede quando invece il bello deve essere il corpo? Vuol dire che il vestito gioca un ruolo sempre meno importante, perché la pelle ha preso il ruolo del vestito. Se il corpo è già molto ben formato, non è necessario mettergli delle cose molto costrittive. Allora bisogna costringere il corpo prima. Bisogna fare ginnastica, bisogna fare dieta, bisogna depilarsi eccetera, eccetera. Quindi dico drammatico nel senso che il corpo si mette in evidenza, si mostra la pelle, come non era mai capitato.
Un’attrice può rispondere benissimo: la pelle è il mio vestito di scena. Ecco, credo che siamo qui nel caso del tatuaggio. Allora a questo punto non sono più i disegni sulla maglietta, sono i disegni direttamente sulla pelle. Allora non è più la collana che sta fuori, per così dire, è l’orecchino che va dentro.
Il corpo è diventato lui stesso il vestito. È questo che volevo dire. In questo senso parlavo di drammaticità. Avrei dovuto dire meglio, avrei dovuto dire la teatralità.

Quando noi abbiamo parlato ed accennato a Internet si è messo in evidenza come l’uomo abbia bisogno di partecipare all’attività stessa che ha scelto in Internet. Eppure questo bisogno non esiste nella televisione, perché come dice Virilio la comunicazione è comunque vincolata e veicolata in televisione. Lei pensa che in futuro, quando Internet sarà maggiormente diffuso, accadrà lo stesso anche sulla rete, cioè quindi un messaggio veicolato, e comunque la rete solo una fonte di informazioni, che si inseriscono su un sostrato culturale, oppure è possibile anche una comunicazione diretta, che preveda la partecipazione attiva di chi accede al sito?

Dunque è chiaro che, rispetto alla televisione, qui siamo in casi di reversibilità. Cioè la comunicazione televisiva non è reversibile, è irreversibile, per quanto noi possiamo manipolarla e giocarci. Mentre nel caso di Internet, certo, una certa utopia, anche generosa, anche politica, era quella di formare delle comunità su Internet dove in qualche modo tutti siamo finalmente in grado di comunicare, di scambiarci. Nello stesso tempo la vastità, la possibilità di accedere a distanze assolutamente inverosimili a costi irrisori – a volte, no, non ancora del tutto -, potrebbe far sperare e ha fatto sperare una specie di democrazia virtuale. Cioè il fatto che io non ho mai l’ultima parola – che è il caso della televisione -, io, perché l’ultima parola ce l’ha sempre quell’altro. La parola “penultima” sarebbe la caratteristica della democrazia di Internet. Qui però ci sono dei problemi seri. Primo sono gli interessi. Ci sono grossi interessi che fanno sì che evidentemente, quando andate su Internet, ci sono dei, diciamo così, vi vengono venduti dei pacchetti preformati. Perché? C’è tanta roba che a un certo punto uno dice: “Ma con chi, dove mi rivolgo, da chi vado?”. Allora, o si sa molto bene: e allora sono le persone che sanno già molto bene dove andare, che vanno ad incontrare le persone che sapevano già dove andare, si allarga un po’ e diventa una comunicazione settaria. È possibile, uno dei sistemi possibili. Oppure l’altro, è quello veramente della bottiglia in mare: vado lì, il messaggio nella bottiglia, lo tiro, speriamo che qualcuno risponda e non necessariamente risponde una persona per bene. Qualche volta capita di telefonare, costa meno telefonare attraverso Internet. Poi però si incontrano delle persone che non sempre sono gradevoli da frequentare. Allora l’altra possibilità effettivamente è di qualcuno che arriva e ti garantisce un pacco di informazioni, a cui tu avrai accesso. E allora però lì siamo già a livello televisione: cioè c’è qualcuno che ti ha già offerto. Quindi, come sempre, la libertà a gesti è difficile da gestire e negli anni prossimi la scommessa sarà su questo. È un po’ come quando sono nate le radio libere, le televisioni private, eccetera. Gli esiti sono stati molto sgradevoli, per me. Tuttavia si sono create delle possibilità di apertura e di cambiamento di linguaggio notevoli ed è su questa possibilità che bisogna scommettere.

Molti affermano che i media elettronici stanno distruggendo i libri e la stampa in genere. Ma non è invece vero, come ad esempio afferma anche Walter Ong, che stanno rafforzandoli e trasformandoli , rafforzando i vecchi media, come la scrittura, e trasformandoli come avviene col libro parlato?

Sì, questo è un problema di cui ancora una volta deciderà il futuro e il mercato chiaramente. Per esempio, i CD Rom, che erano stati lanciati con immenso entusiasmo, poi si è scoperto che è un mercato che non tira. Quindi evidentemente tutti ci aspettavamo che invece il piacere di potere guardare delle cose scritte, ma anche immagini, anche musica, cioè qualcosa di multimediale, dovesse funzionare. Invece non funziona. Ora il problema della scrittura è un problema molto delicato, perché noi abbiamo la tendenza a stratificare i media e a trovarli sempre più belli, mano mano che sono più vecchi. Sembra strano, ma è così. Per esempio, la scrittura è vecchia, dunque è bella. Quindi, va bene. La fotografia è vecchia, prima metà dell’Ottocento e quindi va bene, la fotografia va bene. Poi anche la radio va bene, perché è un po’ meno. Poi più ci avviciniamo ai nuovi media più c’è un atteggiamento di sospetto e di difficoltà e più c’è quest’idea di distruzione dei media precedenti. Ecco, io trovo prima di tutto che non sia vero – dicevo prima, scherzando -, che Internet è la vittoria di Gutenberg. Finalmente la gente legge e poi non legge più libri, legge rotoli, come si leggeva all’epoca dei Latini, in cui leggevano, scrivevano su un rotolo, e quello che noi svolgiamo davanti a uno schermo sono dei veri e propri rotoli. Io credo che ci saranno ovviamente delle cose che funzioneranno e altre meno. È possibile che brevi testi modulari, corti, associati alle immagini, siano il grande, nuovo medium futuro. Ci saranno delle immagini molto ricche e testi molto brevi. Questo è, a mio avviso, il nostro futuro. Quindi spariranno generalmente dalle nostre librerie le enciclopedie, cioè i testi più lunghi, i testi più larghi. Ho l’impressione che l’enciclopedia, quando potremo portarcela dietro, come già il caso, in un formato di questo genere, le enciclopedie spariranno. E mi dispiace molto, perché le enciclopedie sono molto divertenti da maneggiare. Sfortunatamente sono però un po’ pesanti da portarsi dietro. Quindi ci saranno alcune cose che resisteranno, nella scrittura, e alcune altre che scompariranno. Ma sa cosa succederà? Succederà che la scrittura sarà obbligata sempre di più a farsi immagine interna. Voglio dire che, come oggi gli scrittori non scrivono più, come nell’Ottocento perché c’è il cinema, scrivono come se avessero assorbito la lezione del cinema, ho l’impressione che ben presto la scrittura si trasformerà anch’essa. Il fatto che oggi sempre di più ci sono forme brevi di scrittura, secondo me mi sembra già un indice che i nuovi media stanno influenzando il modo di scrivere.

Lei parlava di “brevi testi modulari”: questi saranno il futuro della comunicazione. Non si verificherà uno “spappolamento” dell’informazione, una riduzione dello spessore del contenuto?

Noi siamo obbligati dal mezzo a parlare in maniera breve e certe volte parliamo troppo. Quindi siamo obbligati a condensare l’informazione. Ora condensare l’informazione ha dei difetti, senza dubbio. Non si può argomentare, come se spiegare vuol dire sviluppare, no?, dispiegare. Ecco, spiegare è difficile in termini brevi. Tuttavia il vantaggio delle forme molto condensate è che uno è obbligato a dire delle cose che potrebbe dire brevemente e anziché tirarla troppo di lunga. Io quindi sono favorevole all’idea che siamo obbligati a condensare. Ecco, cosa perdiamo? Perdiamo effettivamente la possibilità dello sviluppo e dell’approfondimento. Però non bisogna buttar via l’importanza dell’immagine. Cioè l’immagine è molto ricca. Cioè se noi ci mettessimo con una cartolina davanti e provassimo a descrivere tutta la cartolina ci vorrebbe un libro per farlo. Questo significa che le giovani generazioni, lungi da, come si dice spesso, essere poco ragionative, poco razionali, poco argomentative, in realtà sono abituate dall’immagine a un notevole approfondimento dell’osservazione. Io trovo che la giovane generazione è molto osservativa. Effettivamente l’accusa è di essere meno argomentativa di prima. Ma è vero: è cambiato in meglio e la brevità della formula modulare, della fotografia, permette degli approfondimenti, ma interdice degli sviluppi. Ecco perché, per esempio, è necessario tradurre, come dicevamo prima.

Io vedo Internet come un enorme libro aperto, pieno di miliardi di informazioni. Dunque, una persona magari non pronta, non informata o che ci va, che ci guarda solo per curiosità, non è un pericolo per una persona trovarsi di fronte a delle informazioni che magari o non conosce o per lo meno sono pericolose?

Sì, sì certo. È il problema della pedofilia e della pornografia su Internet. No, questo è un problema serio. Ma c’è ancora di più. Sa che generalmente a scuola non ci raccontano mai le cose divertenti della filosofia. Il caso palese: i filosofi megarici, che avevano un paradosso che si chiamava della ragione pigra. Il paradosso della ragione pigra era questo: quello che so, so, quello che non so, non so dove andarlo a cercare. E quindi io non saprò mai più di quello che so, che era un ragionamento molto evidente davanti a Internet. Cioè se io non so dove andare a cercare le cose, allora non saprò mai, non mi serve a niente. Ecco, c’è però un fatto importante. Internet non è una somma di informazioni e basta. C’è della gente che risponde dall’altra parte e questo è importante. Si ricevono degli stimoli bene o male. Alcuni di questi stimoli sono pericolosi. Ti do un esempio abbastanza divertente. Ho un amico che cercava su Internet TV. Si è trovato transvestyt, cercava Televisione e ha ricevuto tutti i siti dei travestiti. Lo stesso amico si è messo a cercare CD. Cioè cosa? CD Rom, disco eccetera, compatto, compact disk. Risposta: cross dressing, cioè ancora una volta i travestiti. Allora lui ha detto: “Oh, mio Dio!”. Allora questo rischio esiste, c’è, senza dubbio, e pone il problema della censura, problema enorme nella nostra cultura, perché nello stesso tempo, come aveva detto benissimo, dobbiamo lasciare il massimo di libertà di poter fare degli incontri impreveduti che ci arricchiscono, ma nello stesso tempo dobbiamo cercare di limitare degli incontri a cui non siamo né preparati e in alcuni casi che non desideriamo o che ci potrebbero scioccare. Questo è un grande problema. Però, lo sappiamo tutti: quando andiamo al chiosco la mattina, nei chioschi ci sono: giornali, fumetti innocenti, CD Rom e pornografia. Sta a noi di scegliere. Io immagino che la maggior parte di voi non saccheggia la zona pornografica e conosco delle persone che comprano soltanto giornali sportivi, ma non saccheggiano la zona pornografica. Segno che quindi l’Internet va trattato come un chiosco, dove ciascuno sa che può prendere le cose e tocca a lui scegliere quello che non deve prendere.

Mi hanno colpito quegli occhiali da sole che avete appoggiato lì, sul tavolino. Vorrei chiederLe: non è proprio uno fra i tantissimi esempi del fatto che questa generazione, magari le generazioni future, si stiano magari chiudendo in un mondo tutto loro, magari facciano, non so, fatica a guardare in faccia la realtà, come è effettivamente la realtà e si chiudano in una loro realtà? Questo avviene, ad esempio, in con gli occhiali da sole, il walkman, il computer.

Sì, questo è vero. È una specie, noi la chiamiamo riflessività, come nei verbi riflessivi, cioè qualcosa che in qualche modo riferisce prima a se stesso che all’altro. Ho un amico che è uno psicanalista che dice che “siamo passati dall’epoca del complesso di Edipo all’epoca del complesso di Narciso”. In fondo lei quello che sta dicendo – faccio come i professori, che ridefiniscono sempre le domande -, ma quello che lei sta dicendo, è che c’è un narcisismo molto forte nelle generazioni attuali. È probabile. Io credo che abbia ragione. La mia risposta sarebbe sì. Adesso naturalmente bisognerebbe dare una spiegazione. Ho una spiegazione abbastanza chiara, ed è curiosamente ancora una volta una spiegazione sulla tecnologia. Cioè ho l’impressione che la tecnologia viene utilizzata a scopi “narcisistici”, o riflessivi, se lei preferisce, ma nello stesso tempo che la tecnica ha un suo carattere che ci trasforma in questa maniera. Le faccio un esempio molto semplice. Il motorino o la macchina: quando andiamo in giro in motorino o in macchina, spesso con il walkman – e sarebbe rigorosamente vietato -, ci accorgiamo che i sistemi di comunicazione con gli altri son molto poveri. A parte qualche urlo, insulti, generalmente, minacce, e così via, e qualche sgommata e un po’ di clacson, non è che abbiamo molto da dire agli altri, perché lo strumento ha molto da dire. Cioè, il ragazzo sul motorino, col walkman, con quei mezzi di comunicazione che ha, cosa vuoi che sia educato e gentile? La stessa persona che scende dal motorino e incontra per strada un’altra persona è educato e gentile. Cioè ho un po’ l’impressione che ci sia un condizionamento forte nei modi di comunicazione, che ci è imposto dai mezzi a cui siamo, per così dire, avvitati, con cui siamo connessi.

Lei non pensa che Internet sia un po’ contro il corpo umano? Nel senso: uno viaggia su Internet, ma cosa fa? Scrive, legge. Ma per esempio l’olfatto, l’udito non si utilizzano. E questo cosa porterà, secondo Lei, cioè, a un abbandono di Internet o a un adattamento dell’uomo a questa…

Questo ce lo siamo sempre posti, cioè l’idea: siamo noi che ci abituiamo ai mezzi o sono i mezzi che vengono abituati a noi? Ora ci sono due spiegazioni: una è di tipo sociologico, cioè si spiega, si spiega la tecnica con la società. È la società che spiega la tecnica. Un’altra tecnica, un altro modo di spiegare è di tipo tecnologistico: sono ormai i media che ci condizionano e ci trasformano. Io penso che non c’è alternativa, che dobbiamo vedere come giochiamo, che c’è molta libertà e molta costrizione, ecco. Cosa succede con Internet? Ha ragione: ci sono dei sensi che vengono amputati. L’odore per esempio. L’odore è un senso amputato nella televisione e in Internet. Hanno provato a fare il cinema profumato, ma non ha funzionato come lei può immaginare. Quindi i mezzi tecnici per certi versi sono dei prolungamenti della nostra sensibilità: sentiamo delle cose che non potevamo sentire, vediamo cose che non potevamo vedere prima, però la stessa tecnica prolunga il corpo e lo amputa di certe possibilità. Di qui la necessità, secondo me, del ritorno – insisto a dire: le droghe sono in qualche modo il ritorno in maniera, a mio avviso pericolosissima, di alcune forme di sensibilità, che erano state amputate dalle tecniche.

Secondo me queste tecnologie nuove, col succedersi delle generazioni, ci stanno cambiando profondamente, anche a livello fisico. Dove ci potrebbe portare questo cambiamento?

Certo, ci sono due tipi di utopie, lei lo sa. Una si chiama, sono le utopie benevole, cioè le cose andranno sempre bene, poi ci sono, vengono chiamate tecnicamente delle distopie, cioè le utopie del mondo peggiore. Ora proviamo a immaginare l’utopia migliore. L’utopia migliore, che noi abbiamo, la possibilità di un accesso al mondo imprevedibile rispetto al passato. Pensi ai nostri nonni che vivevano in luoghi da cui non si muovevano, vivevano in piccoli paesi. Ricordo mia nonna: il grande viaggio della sua vita è stato perché è andata a un santuario, dopo la guerra, a portare un voto, un oggetto votivo, se la sua famiglia sopravviveva. Ecco. Ora, invece, oggi la possibilità di movimento – Charter, Internet -, cioè, è straordinaria, ecco. Ci sono veramente dei cambiamenti radicali. Quale sarà il futuro? Sarà quello di persone che possono andare da per tutto, felicemente e così via, avere accesso al vasto mondo, o, al contrario, ci sarà una diminuzione radicale dell’informazione e della sensibilità reciproca? Do un esempio chiarissimo. Diciamo tutti che i nostri nonni, i nostri bisnonni vivevano in piccoli luoghi dove si conoscevano tutti, sapevano tutti l’uno dell’altro, c’era un’immensa solidarietà, e così via. Ecco, possiamo immaginarci un mondo senza solidarietà, contro un mondo dotato di grande solidarietà. Queste sono le due sceneggiature. Può capitare esattamente una cosa mista, cioè capiti che ci siano un mondo di accesso planetario pieno di sette, cioè di buchi neri, di persone che vivono fra loro soltanto, in maniera ossessiva, uno addosso all’altro, formando delle vere e proprie paranoie suicide. Anche questa è un’altra possibilità, che sarebbe un po’ la combinazione delle due: piccoli luoghi pericolosissimi, piccoli luoghi settari e suicidari, da una parte, e fanatici, e dall’altra parte invece la possibilità straordinaria, è vero, di prendere qui a Bologna un aereo e prendendo una coincidenza di essere in otto ore dall’altra parte del pianeta, cosa che soltanto cinquant’anni fa poteva sembrare un sogno.

Parlando di Internet: non tutti possono permetterselo, perché oltre ai mezzi economici, ci vuole anche una preparazione e una cultura. Questi new media, che stanno invadendo praticamente tutto il mondo, quelli che non li sanno usare e non possono permetterseli che fine faranno?

Dunque, sì, è vero. In realtà non sono così complicati e la generazione, la vostra generazione, che è in grado molto facilmente di far funzionare un videoregistratore, cosa che voi sapete molto bene, avete in casa persone di famiglia, che sono incapaci di farlo assolutamente funzionare, quindi non credo che ci siano limiti tecnici, poi c’è l’idea dell’industria. L’industria è interessata che voi abbiate accesso immediato a queste cose. Quindi quello che si chiama “user friendly”, cioè “l’atteggiamento amichevole” sarà certamente la prima cosa. L’altra cosa che lei ha ragione a dire sono i costi. I costi sono notevoli ed effettivamente pongono dei limiti notevoli. Però tutti si stanno spingendo in questa direzione. Ho viaggiato di recente in India, che è un paese che noi ci immaginiamo profondamente illetterato. Nello stesso paese, in India, c’erano dei ragazzini che venivano istruiti per televisione e new media, perché il governo indiano sta scommettendo su questa possibilità, che effettivamente è tanto più efficace quanto più si vive isolati o in condizioni lontane dall’accesso. Mentre qui, se uscite, avete tutti i giornali e qui intorno avete la maggior parte dei libri, a Bologna non avete nessuna esitazione sulla vostra disponibilità, tocca a voi sapere se avete voglia o no di usarli, immaginate qualcuno che viva in un continente come l’Africa o l’America del Sud o l’India o la Cina, in condizione di grande isolamento, questo mezzo dà delle possibilità assolutamente straordinarie. E in questo caso la gente studierà seriamente. Il problema dell’accesso è un problema che dipende in parte dall’industria, ma soprattutto dallo Stato. In Francia c’è in questo momento un impegno dello Stato a mettere in ogni scuola questo tipo di accesso, di possibilità. Dopo verrà un altro problema. Troppe – l’abbiam detto prima -, troppe informazioni, allora? E allora ci sarà il problema della selezione delle informazioni. Per cui i professori, che a volte non servono assolutamente a niente – lo dico pensando a me stesso, eh! Certe volte uno dice: “Un buon libro, meglio studiare un buon libro che ascoltare un cattivo professore”, e forse hanno ragione -, ma i professori torneranno di moda, – lo dico un po’ scherzando, eh? -, torneranno di moda perché davanti alla massa enorme delle informazioni il problema sarà la selezione. Quindi i professori torneranno utili non prima, per dire cosa devi fare, cosa devi studiare, ma dopo, che cosa è interessante o che cosa non è interessante. Quindi il professore sarà meno, in futuro, un informatore, perché probabilmente molte delle cose che sappiamo si troveranno anche su Internet, ma aiuterà a fare la selezione su che cosa è pertinente o non pertinente.

È giusto accedere ad Internet per informarsi riguardo a qualcosa in particolare. Ma non pensa che Internet ci distacchi fin troppo dalla realtà in cui viviamo?

Sì, se intende la realtà il mondo un po’ ristretto dentro cui si campa, ma in un altro senso è un allargamento della prospettiva e della realtà. Le faccio un esempio, altrimenti ha l’aria un po’ astratta. Noi stiamo lavorando in Semiotica su rumors, cioè sulle voci, su quelle voci incontrollate, che girano nelle città, ma anche, per esempio, anche qua, anche nei licei, ci sono voci, aneddoti, su ciascuno e sull’altro. Allora vogliamo sapere come funzionano. Allora io ho aperto un sito, si chiama: www.urbanlegends.com, e mi son trovato divisi per temi – macchina, tecnologia, sesso, cinema, eccetera, eccetera -, mi son trovato una quantità straordinaria di informazioni su tutte le leggende urbane che circolano e che vengono iscritte nella televisione. Allora, per curiosità, sono andato a vedere Lady Diana. Mi sono fermato di botto, perché c’era scritto in alto: “Entrate – cioè “entrate informative” – 15.001″. Quindi, per sapere che cosa sia stato raccontato su Lady Diana, bisognava consultare 15.000 informazioni. Ovviamente ho chiuso subito.

Ritiene valido o comunque veritiero il concetto di “villaggio globale”, che mi ha molto colpito?

Sì. È la grande formula di McLuhan, che ha impressionato tutta una generazione. Secondo me, l’idea del “villaggio globale” è un’utopia, è un’utopia perché mettere insieme delle informazioni non vuol dire mettere insieme dei valori. Per esempio: io presumo che molti di voi siano interessati a quello che c’è sul giornale, ma alcuni non ci credono, oppure che leggiate delle notizie che non vi piacciono. Quindi un vero “villaggio globale” sarebbe quello in cui tutti dovremmo avere non solo tutti le stesse informazioni, ma dovremmo avere tutti lo stesso atteggiamento rispetto alle stesse informazioni. Ora questo non è il caso. Quindi io credo che resteremo in un mondo dove avremo forse informazioni in numero maggiore, ma in cui poi ci sarà il problema di decidere che cosa vale o cosa non vale, cosa è pertinente o cosa non pertinente, a cosa serve la nostra vita e quello che non ci serve. E a questo punto scopriremo che delle persone che hanno le stesse informazioni nostre, però non credono alle stesse cose. Quindi ci sarà un “villaggio globale”, sarà un villaggio diviso in tanti villaggi. Un “villaggio globale” delle informazioni sì, ma un “villaggio globale” dei valori non credo.

Lei prima ha parlato di queste voci che vengono messe in giro, ma non pensa che su Internet sia più facile metterle? Voglio dire: è meno controllabile che la TV che la radio. Cioè è un mezzo più pericoloso rispetto a quelli precedenti.

No, quello che ha ragione è la difficoltà del controllo. Ecco, questo è un problema che abbiamo posto anche prima, che è la questione della censura, per esempio. Cioè chi c’è che ci garantisce che l’informazione è una buona informazione, ora che i giornali oggi cadono vittime delle informazioni su Internet molto più di prima? Perché sembra che siano notizie verosimili e poi non lo sono. Ecco, io ho l’impressione che il problema della moltiplicazione delle informazioni domanderà quello che dicevo prima? Diciamo, alcune persone, dotate di competenza, che abbiano la capacità di intervenire per dare la pertinenza e il valore. Fino ad allora la moltiplicazione delle chiacchiere è enorme.
Questa è una cosa che forse varrebbe la pena di dire: i new media non sono soltanto il luogo delle informazioni, sono un grande luogo di chiacchiere, sono una piazza globale. La maggiore parte dei dibattiti dei new media cadono, per esempio, il giorno dopo le partite di calcio. Quindi è un luogo di informazione, ma un grande luogo di chiacchiere.

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