Linguaggi e globalizzazione


Intervista con Lello Voce, L’Unità, 15 settembre 2005.


Com’è nata l’idea l’idea di organizzare un convegno sullo stato dei linguaggi e sui loro rapporti e funzioni nella cosiddetta società “globalizzata”? Quali sono i suoi obbiettivi?

Ci sono progetti che crescono come l’erba: dal mezzo. Quello di architettare Babele è cresciuto nel dialogo tra un semiologo che ha scritto un Elogio di Babele e Pasquale Gagliardi, segretario della Fondazione Cini, che ha trasformato i dialoghi d’alta cultura in dialoghi alti sulle culture. Dialogo che si concludeva spesso con un punto interrogativo: la babele dei linguaggi contemporanei è una catastrofe o una risorsa? Nella confusione attuale dei discorsi va ricercata la perduta lingua unica, una lingua franca se non edenica? Che fare delle altre lingue e delle culture di cui sono parte e modello?
Si trattava poi di decidere chi, come e dove. Venezia è il posto giusto per interrogare il rischio che corre tutta l’Europa: la tentazione di ripiegamento e ripetizione del proprio discorso. Poi: una tavola rotonda e plurilingue di specialisti con accenti diversi e non sempre accademici. E un situazione comunicativa che somiglia ad una reciproca traduzione simultanea: niente conferenze, brevi esposizioni e discussioni pubbliche. Mi sarà più facile fare l’introduzione che tirare le fila.

Il titolo prescelto è fortemente evocativo delle ambivalenze del linguaggio. il linguaggio è ciò che ci chiarisce, ma anche ciò che ci confonde…

Infatti: la parola Babele, che significa confusione è l’ultima parola pronunciata nella lingua unica, ma fa già parte delle lingue moltiplicate! La lingua è cristallo e fumo: codice condiviso di comunicazione dentro cui si nasce e luogo della negoziazione di nuove forme e significati. Quando parliamo eseguiamo uno spartito e improvvisiamo! Siccome il linguaggio è elastico, le ambiguità le creiamo e le risolviamo. Possiamo persino farne la lista dato che parlando, parliamo sempre del fatto che parliamo.
Ma poiché gli uomini parlano migliaia di lingue vive e tante ne hanno parlate, l’insieme il tutto si presentacome un garbuglio. Non è l’indistinto – le lingue sono sistemi di differenze – è un caos con regole da ritracciare. Altro che filo d’Arianna: ci vuole tutta una treccia per batterne il labirinto. Che non è un luogo ameno: si rischia di perdersi, di scontrare diversi Minotauri o di rimanere impiccati al filo.

Mi pare che alle spalle di questo incontro ci sia l’idea del linguaggio come di qualcosa in continuo movimento, in perenne mutazione…

Se c’è una metafora o un modello fuorviante è quella, ancora familiare tra i filosofi, che la lingua è come un gioco di scacchi. I linguisti ci hanno aiutati in più modi a uscirne: intanto ci hanno liberato, comparativamente, dall’idea che le lingue e le culture classiche avessero il monopolio della bellezza e della conoscenza. Ci hanno spiegato poi che non c’è lingua, per quanto complicata, che la mente umana non possa apprendere o tradurre. Che ogni lingua però è un modo originale ed evolutivo di guardare tutto il mondo naturale e sociale. E che la stessa lingua serve a produrre discorsi e generi diversi:scienze, letterature o religioni.
A Venezia si parlerà delle lingue e non del linguaggio, delle culture e non delle macchine, del cervello, dei geni. La prospettiva è più antropologica che logica o biologica, anche se il problema della funzione simbolica e delle domande che pone agli adattamenti selettivi dell’uomo resta comunque sullo sfondo. Nell’evoluzione la natura e la lingua ne fanno di salti!

Tutto oggi è codice. Qual è la funzione che i linguaggi assumono nelle loro connessioni con la vita sociale organizzata?

Per deformazione professionale direi che tutto è segno e che le lingue sono solo una parte, fondamentale del repertorio semiotico che include suoni, gesti, immagini. Gli specialisti invitati condividono un atteggiamento sincretico: si comunica con tutte le sostanze espressive e su molti piani. Le unità ultime delle lingue sono i discorsi e i loro contesti culturali ed ecologici, non le parole e le frasi. Discorsi che non servono solo ad rappresentare o ad esprimere. Si trasmette il significato per trasformarlo. E per intendersi si racconta e si conversa, si organizza narrativamente la propria esperienza e la si trasmette aspettandosi dagli altri l’assenso o il dissenso. Ciò che si dice dipende certamente dai contesti ma serve anche a modificarli. Come dovrebbe accadere nell’educazione e nell’insegnamento.

I linguaggi scientifici stessi sembramo aver perso quella capacità di inventare la lingua, che è stata, sin dal Saggiatore galileiano, una loro spiccata caratteristica.

Il Saggiatore appartiene al genere dialogico e polemico. E pone in effetti il problema dei generi e il loro modo di connessione al mondo dei significati e della cultura. Generi interni ad una stessa lingua – il genere religioso e quello scientifico, quello politico e quello giuridico – più difficili a tradurre tra loro di due lingue diverse.
C’è una tendenza oggi a ridurre il discorso scientifico alla tecnica per il suo incalcolabile impatto sulla natura e sull’uomo. E magari a limitarlo alle tecniche di conservazione delle conoscenze, come se il problema stesse nella accumulazione e non nella strutturazione e valorizzazione dei saperi. Le scienze invece coi loro “linguaggi” – parola, grafici, fotografie, ecc. – hanno il compito fondamentale di dare voce in capitolo agli attori non umani che fanno comunità con noi: animali e batteri, atomi e macchine. Il discorso scientifico ci aiuta a fare eleggere un “parlamento” di uomini e cose. Che poi sia in crisi questo discorso – penso alla fisica già regina dell’epistemologia – dipende proprio dalla complessità della sua rilevanza. Ci vorrebbe, per i testi scientifici, una critica come quella letteraria, ma è questa passa il tempo a dirsi in crisi…

Mi pare che riflettere sul ruolo e sulla condizione dei linguaggi nelle società contemporanee possa aiutarci anche ad affrontare questioni nodali, pratiche, politiche, come ad esempio quella delle convivenze interetniche ed interreligiose, che sono prima di tutto legate a problemi di comunicazione.

Le lingue sono un buon modello, fatte come sono di differenze che si somigliano. Ma sarebbe irenico fingere che non ci sono language wars. Le lingue sono mezzi privilegiati anche se non unici di identità e di autodefinizione. E oggi i conflitti portano meno sui mezzi di produzione che sulle definizioni conrastanti dei problemi e delle soluzioni. Il nazionalismo, grande manipolatori di segni, sa bene che le lingue possono costruire le alterità più radicali e votarsi ad ucciderne altre. O convivere nella più proficua commutazione di codice, come è stato il caso del latino e del greco e oggi delle lingue indiane e dell’inglese.
Si parlerà del discorso politico alla Cini e della relazione tra sistemi di segni e discorso religioso, con la loro comune radice simbolica. Anche delle divergenze riguardo all’immagine nel mondo cristiano ed islamico: dell’orientalismo dell’Occidente, ma anche dell’occidentalismo orientale.
Ti anticipo intanto una considerazione storica rilevante per l’oggi: nella diffusione delle lingue ha sempre contato l’emigrante che il soldato, il mercante e il missionario.
Fedi, commerci ed armi non bastano.

Si parla spesso di impoverimento dei linguaggi, di morte di una serie lingue locali, da noi i dialetti, ecc. fatto salvo il fatto che a volte le grida si alzano per lo scandalo del melting, che invece è arricchimento, indubbiamente qualche ragione d’allarme c’è. La biodiversità della lingua, sembra a volte essere messa in serio pericolo…

Con Derrida, preferisco il termine “mondializzazione” – che caratterizza la portata del fenomeno – a globalizzazione che implica la uniformità. Comunque è certo che le prospettive mondializzate e i buchi neri delle identità integriste sono legate alle nuove migrazioni di uomini, d’informazioni e di oggetti: capitali, saperi, tecniche. E questi flussi dipendono dalle condizioni tecno-comunicative, come le lingue e i mezzi di informazione. Per quello che riguarda le lingue, c’è oggi una spinta verso l’integrazione – l’inglese come lingua franca – ma anche una certa valorizzazione delle diversità.
E vero poi che ci sono lingue morenti. Pare che siano ancora vivi gli ultimi locutori di metà delle 6500 madrelingue parlate sulla madre terra. E che i due quinti degli uomini parlino solo una dozzina di lingue.
Ma tra questo e l’estinzione di massa (si favoleggia del 90%!?) ci corre. Le lingue vive si difendono – la morte annunciata del basco non è mai avvenuta – quelle morte possono resuscitare – come l’ebraico. E soprattutto, per alcune che s’impoveriscono – i pidgin – ce ne sono altre che nascono – i creoli. Insomma chinarsi sul capezzale delle lingue, con l’estrema unzione giuridica non ci porta lontano. Anzi: sembra che più cresce la coscienza degli idiomi in pericolo minore è la volontà di far qualcosa per loro. Chi se la sente invece di aiutare la comunità dei locutori ad un livello di sviluppo sostenibile quanto all’habitat e ai livelli di vita e di cultura?
E intanto perché non trascriverle in rete queste lingue? La maggior parte è soltanto parlata.

Quanto decisivo sarà lo scontro, che anche sul terreno del linguaggio sta avvenendo, tra lingua del mercante e lingua dell’individuo, valore di scambio e valore d’uso, nel determinare le sorti della battaglia più generale che tenta di opporsi al dilagare del pensiero unico e alla lingua monodimensionale dell’homo economicus?

A questa domanda dovrà rispondere il convegno. Posso solo dire che se per “lingua monodimensionale dell’homo economicus” intendi l’inglese, questo non prevarrà. Per disparate ragioni: il numero dei parlanti, la sua natura di registro bilingue; la differenziazione interna nel contatto con altri idiomi; la limitazione ad alcuni registri della comunicazione; le resistenze ideologiche. Certo le tecniche di trasmissione, dalla scrittura all’immagine, dalla stampa a internet sono dalla sua parte e contano. Senza le tecniche la cultura è solo ideologia. Ma la tecnica da sola non è decisiva: per vivere, sopravvivere e diffondersi una lingua deve creare una comunità immaginaria di valori e di relazioni a cui colui che parla abbia voglia di identificarsi. Ecco perché l’inglese non prevarrà e se così fosse sarebbe una catastrofe!
L’alternativa alla lingua unica è già in atto e segue la consegna positiva della Babele biblica. La varietà delle lingue è un passo ulteriore della creazione che parte dall’indistinto originario verso una crescente diversificazione del mondo e della vita.
Questa alternativa è il comparatismo e la traduzione. Un comparatismo sperimentale, senza lasciare privilegi ad alcune lingue o culture neanche di quelle europee classiche. E la traduzione che non è un modo di dire la stessa cosa, ma di dare
senso là dove la chiusura delle forme linguistiche lo fa sembrare impossibile. La traduzione, che va sempre rifatta, perché cambiano le lingua in gioco, non sopprime le lingue. Le arricchisce invece: quando riesce a trovare le buone equivalenze introduce in quella di partenza e in quella d’arrivo le innovazione introdotte in entrambe. Insomma i traduttori sono quasi dei Pentecostali: continuiamo a parlare la nostra lingua e a farla discorrere con le altre.

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