Da: Juan Alonso Aldama, E|C, rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici on-line, pubblicato in rete il 25 luglio 2019.
Juan Alonso: in genere, quali sono le relazioni tra i “mezzi” per conoscere e trasformare il mondo e la percezione e la significazione che questo ha per noi?
Paolo Fabbri: i mezzi sono i metodi. E le metodologie cambiano la percezione del mondo e quindi lo trasformano e ci trasformano. I mezzi tecnologici hanno cambiato la nostra testa perché cambiano l’epistemologia. Se non lo diciamo c’è il rischio di non riconoscere un’idea di cui abbiamo le prove provate: è difficile cambiare la testa della gente ed è più semplice e diretto cambiare i mezzi.
J. A.: e in questo senso, in quale modo i ”mezzi politici” influiscono nello svolgimento della politica?
P.F.: Diamo un esempio di “pratica teorica”, un ossimoro che congiunge gli opposti termini greci: /acuto/ e /ottuso/. Nel Settantasette ho partecipato a Bologna all’ultima grande manifestazione unitaria della sinistra italiana, dopo il Sessantotto. La parola “manifestazione” per me ha il senso semiotico di “manifestante”, dispositivo espressivo di un significato. C’era una folla organizzata in corteo, un grande attante collettivo nel suo essere ma eterogeneo nel fare, cioè nel processo del suo procedere. C’erano gli anarchici che camminavano separatamente – individualisti, non volevano “marciare”; c’erano i marxisti-leninisti che avanzavano compatti come una milizia; c’erano i democratici che procedevano come i cortei tradizionali, secondo il modello inveterato delle processioni cattoliche; c’erano i militanti di Lotta Continua, che si muovevano col “passo della pantera” oppure saltellavano sul posto – per differenziarsi dal modo processionale. Il corteo era articolato in attori separati nella loro manifestazione somatica collettiva e in altre forme di comunicazione: manifesti scritti e immagini fotografiche, cori, slogan, canzoni, musiche, acconciature, ecc. Insomma un enunciatore collettivo che si esprimeva semioticamente di formati diversi contro un antisoggetto comune: il governo, il potere, ecc.
Il corteo esibiva tra l’altro i programmi d’un virtuale confronto con le forze dell’ordine, esercito e polizia; per esempio i gruppi di estrema sinistra che esibivano segni particolari come bastoni (grossi) con affisse banderuole (piccole). Uno scenario foggiato sugli scontri che hanno luogo all’occasione delle partite di calcio: anche i tifosi d’altronde hanno ripreso le sembianze delle loro azioni a partire dagli urti politici di piazza. Nanni Balestrini, nel libro I Furiosi, l’ha narrato in modo epico.
J.A.: quale ti sembra che sia oggi la forma di “espressione politica” più significativa?
P.F.: è quello che oggi si è concretizzato in una maniera originale: i Black Block. All’interno di cortei manifestanti, come quelli dei gilets jaunes – ma ci sono precedenti a livello internazionale – si situa ed agisce un gruppo autonomo con una propria strategia conflittuale e distruttiva. I cortei hanno una loro collocazione topologica e sintagmatica. Dapprima i BB erano alla coda dei cortei che erano inquadrato da un proprio servizio d’ordine, il quale oggi non difende l’integrità spaziale e la coesione degli intenti collettivi della manifestazione da agenti esterni, ma dai BB stessi che del corteo fanno parte. È una problematica significativa della comunicazione politica trascurata o ridotta a problemi d’ordine pubblico. La maggior parte dei BB non ha niente a che fare con l’intento rivendicativo delle manifestazioni (miglior condizione di lavoro, salari più alti, qualità della vita, ecc.). I gesti di radicalità distruttiva o di appropriazione indebita sono rivolti ad antisoggetti codificati: denaro-banche, consumi- negozi, autorità-arredi urbani, ecc. Ma la prova principale è il conflitto con le (contro) forze dell’ordine. Questa dimensione semiotica è ormai parte integrale dello scontro sociale. I BB sono un vero attore politico contemporaneo, transnazionale e globalizzato.
J.A.: In questo caso, questo significa che più che i contenuti politici, quello che è pertinente sono le forme espressive del politico?
P.F.: I BB oggi si collocano davanti al corteo manifestante, anche per segnalare l’impotenza delle forze dell’ordine a controllarli. E sembrano alla lunga bene accetti da parte degli altri manifestanti. I BB operano quindi in spazi urbani salienti; per i luoghi scelti, presentano una relazione molto interessante con la città e fanno pensare, nei termini di P. Virilio, alla guerrilla urbana: blitz puntuali che mirano degradazione di beni pubblici, interruzione di servizi, porto d’armi improprie, ecc.
I BB sono vestiti di nero, mascherati e talora stranieri: una mise diventata esemplare e produttiva – alcuni gilets jaunes sono diventati infatti dei gilets noirs! È la manifestazione cromatica della dimensione manichea che articola le valenze politiche. I BB hanno una loro dialettica abbreviata: dalla tesi all’antitesi, senza passare alla sintesi. Vogliono incarnare l’antitesi e dare spazio a una conflittualità intensificata ed estremista, ad una rabbia che era prima depositata e conservata nelle banche passionali dei sindacati. Questo spiega gli interventi della polizia, la quale interviene contro i BB come metonimia dell’intero corteo i cui componenti vengono trattati come fossero tutti BB. Di qui le denunce di “violenze poliziesche”, mentre i pretesi terroristi urbani arrestati si rivelano comuni cittadini. Con il risultato inatteso che gli operatori dell’informazione, prima osteggiati dai manifestanti, diventato degli alleati perché coinvolti nello stesso meccanismo repressivo.
J.A.: Secondo te, la manifestazione è un fenomeno politico di massima pertinenza semiotica?
P.F.: Infatti. Non si tratta di un approccio sociologico – composizioni di classe o urbanistico – rotonde autostradali o centri urbani, ma di rilevare il senso di queste nuove forme dell’azione comunicative. La loro generazione, trasmissione, ricezione, interpretazione. I formanti attoriali, le loro rappresentazioni e il loro vigore “performativo”. Le manifestazioni sindacali erano valutate estensivamente sul numero dei partecipanti su cui governo e sindacati davano versioni contrastanti per diversi criteri di calcolo. Una sorta di presenza elettorale in cui può accadere che partecipino gli stessi attori politici contro i quali la manifestazione è rivolta (in politica nessuno è mai morto di contraddizione).
La strategia dei BB per contro è intensiva, non ha a che fare con l’apprezzamento numerico ex post della volontà dei partecipanti, ma con un’iconoclastia anti-istituzionale.
Studiare questo fenomeno ci permette di sfuggire all’affermazione banale e i luoghi comuni sul ruolo politico determinante dei social-media. Non abbiamo a che fare con presenze virtuali e fake news: si “decostruiscono” banche e negozi e si incendiano auto!
Insomma, I BB rimettono conflittualità al centro la questione politica e ci fanno ripensare a un attore politico tradizionale , ben studiato dalle scienze sociali: la folla con i suoi moti e le sue imprevedibili manifestazioni espressive. Ricordo la distinzione di Sartre nella Critica della ragion dialettica, tra il “sensoforza” della parola improvvisata della folla: “A’ la Bastille” e quella codificata dal giuramento della Pallacorda. Nonostante le comunicazioni disincarnate dei social media, le folle persistono nei loro modi acentrici di esistenza: il maggio ‘68, la marcia a Londra contro i Brexit, le primavere arabe, Hong Kong, ecc.
J. A. : Prima parlavi di quelli che portavano nelle manifestazioni dei bastoni. Volevo chiederti, quale il ruolo della “cultura materiale della politica”. Questi oggetti, come funzionano in quanto oggetto politico?
P. F.: Come abbiamo detto, la manifestazione è una bandiera, un semioforo portatore di segno nel politico. Ho appena finito l’introduzione all’ottimo articolo di Umberto Eco sul simbolo, per cui la bandiera è un simbolo fisso che significa un messaggio dato. Per Hjelmslev e Greimas invece in questo segno i piani del significante e del significato sono entrambi interpretabili e quindi si può far dire molto, se non di tutto, a una bandiera. Ecco, prendiamo la bandiera spagnola: in Catalogna, è chiaro che connota tutt’altro che a Madrid; forse significa la barbarie imperiale della Castiglia! O quella turca: il rosso dello sfondo significherebbe il sangue versato dai turchi nelle loro guerre nazionali! O il tricolore francese dove la Convenzione rivoluzionaria assegnò al rosso il compito di sventolare liberamente nell’aria, mentre il verde era fissato all’asta (che questo abbia resistito al nero anarchico e al bianco legittimista?).
Ancora. La bandiera, simbolo privilegiato di identità collettive, è sottoposta a forme canoniche d’iconoclastie: calpestata, stracciata, insozzata e bruciata. Nelle proteste nel mondo musulmano contro le caricature di Maometto si bruciava frequentemente la bandiera danese; strano per noi che non vedevamo altro che il simbolo nazionale; invece i musulmani ne “pertinentizzavano”, per dirla con L. Prieto, la croce.
La costruzione e la scelta del testo “bandiera”, l’inserimento nelle sue molteplici famiglie, sono l’esito di strategie politiche complicate. Alcune pagine del Mein Kampf di Hitler raccontano l’invenzione della bandiera nazista. Ci si ricorda della croce a svastica ma si dimentica il colore rosso. Hitler decide di adottarlo per togliere questo colore ai socialisti. Quindi il rosso non è solo esposizione ideologica ma anche sottrazione polemica.
Infine, per esemplificare quanto di competitivo c’è nella costruzione collettiva di un simbolo, vanno ricordati gli anni di dibattito che sono stati necessari, per scegliere – il 25 ottobre 1955 – il formato, il colore e le icone della la bandiera della Unione europea. Molti sono stati i criteri semiotici per “cambiare bandiera” e ci fu più di una volta il rischio di issare “bandiera bianca”. Alla fine la scelta ricadde sul fondo blu con dodici stelle che secondo la descrizione ufficiale sono “disposte verticalmente, cioè con una punta rivolta verso l’alto e due punte appoggiate direttamente su una linea retta immaginaria perpendicolare all’asta. Le stelle sono disposte come le ore sul quadrante di un orologio e il loro numero è invariabile”. Un “emblema” che è ufficialmente “simbolo di perfezione e unità”.
Quanto alle pseudo bandiere del Settantasette bolognese erano mazze camuffate, così come gli slogan sono etimologicamente parole di guerra. Quando la polizia chiedeva di consegnarle si sentiva rispondere che non erano armi contundenti ma bandiere sventolanti. Ricordo un film USA degli anni Cinquanta, Rock around the clock: in un’aula scolastica dove c’è sempre una bandiera americana, nel corso di uno scontro tra buoni e cattivi alunni, al momento topico il maestro afferra la bandiera e pertinentizza l’asta come una lancia contro il malvagio.
Quello che è interessante, si è detto, sui simboli politici è che la coalescenza tra significante e significato non impedisce che sia interpretabile. Ma tornando alla nostra isotopia, ripeto che la politica non è solo un fatto di rappresentazione e comunicazione. È una branca della trasformazione sociale che esige forze che operano su controforze. Implica quindi tattiche e strategie e non un “dialogismo” molliccio. Sul piano della ripresentazione, genera segni, e sul piano della trasformazione, opera con forze in contrasto, programmi narrativi di scontro per rendere i simboli reinterpretabili.
Un esempio di rappresentazione: quando la sinistra italiana, dopo l’89, ha creato il proprio logo postcomunista ha dapprima collocato alla base d’una solida quercia la falce e il martello, poi li ha abbandonati per il pacifico Ulivo. Qui tutto era verde nell’immagine e il colore rosso della sinistra era assente. Ha trovato allora rifugio nella scritta: P.D., Partito Democratico: la “P” è verde e la “D”, rossa. È stato un semiologo a suggerire la soluzione!
Gli esempi sono a iosa, ma raffigurare la politica come sola produzione di segni presentativi o rappresentativi è distoglierne i meccanismi e l’efficacia.
J. A. : Pensi che ci possa parla di “stile” nella politica?
P.F.: Greimas era riservato sulla questione di stile e di approssimazioni come “stilema,” termine liquido quanto lo è oggi il cd. “meme”. Se lo si ricomprende e ridefinisce nel concetto di “forma di vita”, intermedio tra la semiosfera e le configurazioni discorsive, si può dire ad esempio che c’è stata una forma politica “democristiana“ di vita negli anni del dopoguerra e fino alla elezione di Berlusconi. Era il modo cattolico di esistenza che mascherava il conflitto e avvalorava il simulacro di una mite temperanza. Un regime enunciativo del Noi inclusivo che camuffava i conflitti in atto senza risolverli. Le cerimonie di massa del totalitarismo durante il periodo fascista (le adunate), nazista, staliniano con il loro andamento sacralizzante – cerimonie, divise, stendardi, ecc. – imponevano invece una forma di vita e un’estetica rituale per valorizzare il Noi esclusivo dell’Altro.
Quanto ai BB, possiamo ripetere che loro hanno una maniera manichea di esclusione d’ogni sintesi conciliante.
J. A.: Che pensi della distinzione che fa Michel de Certeau, riprendendo le idee di Michel Foucault, fra ideologie e procedura?
P. F.: Io utilizzerei criteri semiotici. Cioè l’assiologia, che è la paradigmatica dei valori, e poi c’è l’ideologia, che ne è la sintagmatica regolata. Allora la trasformazione dei codici assiologici, per es. /sovranismo/ vs. /mondializzazione/, corrisponde al concetto di “assiologia” mentre “procedura” descrive la messa in sequenza discorsiva, la conversione dei valori in processi ideologici.
Ritengo infine che una delle caratteristiche incessanti della politica sia di ricominciare sempre da capo, riprendendo le stesse forme e proponendo nuove interpretazioni. Il fare politico non è mai concludente perché tutte le forme e le azioni sono riprese: nuovi problemi sono trattati con vecchie forme d’espressione e di contenuto. C’è un fare politico che utilizza i simboli classici i quali hanno una influenza durevole sullo svolgimento e l’interpretazione riflessiva degli avvenimenti. Bruno Latour ha ben studiato come la politica ritorni sempre sulla stessa problematica, creando però nuove relazioni tra espressione e contenuto (la semiosi) e nuovi iter di trasformazione. La politica ,che si presenta come una branca della trasformazione sociale, si serve di miti ricorrenti e assiologie codificate. Un esempio: quando è arrivato Berlusconi al governo le caricature politiche lo rappresentavano come un fascista stereotipo, con stivali, camicia nera, orbace, ecc. Era un “rassicurante” ritorno del fascismo?! Gradualmente ci si è accorti che il nuovo leader non credeva alla terra, al sangue, alla patria. Credeva invece al denaro, agli interessi privati e al consenso mediatizzato. Eppure hanno continuato a cantare, contro di lui il ritornello rituale della Resistenza: “Bella, ciao”! Un surplace durato vent’anni, almeno quanto il fascismo.