Il girotondo delle muse


Da: Rai-Educational, 2002.


DOMANDA: Commentando un testo di Greimas di qualche anno fa, lei scriveva: “Il tratto essenziale di un’opera è di essere costitutiva per qualcuno; anche se nell’estetica c’è un esperire ludico e disinteressato, la manipolazione del gioco è, per il lettore, venire irretito dalle regole che lo ‘fanno stare al gioco’. […] Il gioco artistico inizia il lettore; ne trasmuta l’identità; lo include nella sua realtà e definisce realtà tutto quanto è stato così trasmutato”. Ma come intendere questa iniziazione? È unicamente l’opera a dettare le regole del gioco? Oppure, perché il soggetto venga irretito occorrono condizioni ulteriori, siano esse soggettive o storiche?

FABBRI: Prima di affrontare tale questione, sulla quale credo saremo di continuo costretti a ritornare, vorrei riprenderne alcuni punti impliciti, così da evitare ogni possibile fraintendimento. Anzitutto il richiamo alle regole: non sono, infatti, sicuro che quella della regola sia una buona metafora, in quanto generalmente il cambio delle regole modifica il tipo di gioco. Pensiamo al gioco degli scacchi, cui sovente si ricorre per raffigurare la pratica linguistica: si tratta di un sistema chiuso di regole, cosa che invece non vale per il linguaggio. E nemmeno per l’arte, che è in perenne evoluzione. Per questo, più che di regole, parlerei di massime, nel senso kantiano del termine, cioè di indicazioni di necessità concorrenti o, meglio, co-occorrenti. Se la regola è ciò senza di cui non si gioca, la massima è una sorta di norma non regolata che investe però la regola. Bisogna tacere quando si gioca a scacchi, ma se si parla, il gioco non cambia! Dalle regole e dalle massime va distinto il canone, che dice, per esempio, che la tragedia deve avere un’unità di misura di un giorno è canone (ma vi sono moltissime tragedie che non sono così). Il canone si misura nel conflitto, nell’epigramma, nel pamphlet, ecc. Non si trova mai nella lista delle norme date dall’esterno, ma è visitato di contino sui bordi di conflittualità che offre un nuovo strumento, un nuova possibilità. Quanto poi alla storicità e al contesto, credo che non si possa parlare di un valore intrinseco dell’oggetto artistico e per questo ritengo essenziale l’analisi delle relazioni che il soggetto instaura con esso. Tuttavia, anche in questo caso, più che di contesto, parlerei di co-testo. Il contesto è, infatti, tutto: per leggere un’opera dovremmo conoscere per intero la sua epoca, la storia dell’autore, dei lettori, ecc. Il problema è, dunque, la selezione pertinente del contesto, la decisione del punto di vista a partire da cui essa deve essere compiuta. Da parte mia, opto per quello testuale. Se vogliamo attraversare l’opera immediatamente e ci precipitiamo in tutto il contesto possibile per renderla significativa, riusciremo sempre a farlo, ma con un grado di arbitrarietà infinito. Ma possiamo anche partire dalla struttura interna dell’opera, quando essa ne abbia una. Vi sono opere piene di citazioni, per esempio. Pensiamo al Post Modern: opere del genere indicano verso il di fuori quali sono i criteri pertinenti della propria lettura, indicano il proprio co-testo. Naturalmente possono farlo per scherzo, per ironia, per parodia, oppure proprio perché non è pertinente. Ciononostante l’indicazione c’è. E anche là dove non è esplicita, può offrire la guida per una selezione di quei co-testi che rendono significativo il testo.

DOMANDA: Restando a Greimas, nell’analisi della cosiddetta “presa estetica” egli ne sottolinea l’aspetto epifanico che scaturirebbe da una sorta di frantumazione della percezione ordinaria, da esperienze di rottura e di deviazione rispetto al modo consueto di rapportarsi alle cose. Si ha però l’impressione che quella di Greimas sia una modalità di concepire la creazione artistica o l’esperienza estetica tipicamente moderna, riscontrabile in molta letteratura d’inizio Novecento…

FABBRI: Sono d’accordo. Greimas è modernista. Nel gergo post-modern non avrebbe alcun senso l’idea di epifania. Ma quello che mi ha sempre interessato in Greimas è l’enfasi posta sui momenti di de-regolamento (ed è chiaro che è implicita l’idea della sregolatezza di tutti i sensi à la Rimbaud) e sulla riorganizzazione dei momenti attenzionali imposta da ogni relazione estetica. L’idea di epifania, propria della nostra cultura, da Joyce a Elliot, ecc. indica in qualche modo una sorta di cortocircuito fulminante tra momenti de-regolativi e ri-regolativi dell’oggetto percepito, del soggetto, della dimensione del tempo: il momento epifanico è una strana organizzazione del tempo che ne dà una definizione puntuale e nel presente, un’intemporalità del presente, una puntualità della durata, ecc.; e lo stesso vale per lo spazio: si pensi alle pagine che Greimas dedica a Tournier e all’analisi della goccia, quando parla di una simulazione microspica e di un’inversione temporale che si opererebbe nello spazio, o al ritrarsi dello sguardo di Palomar in Calvino…

DOMANDA: Proprio quest’ultimo esempio sembra offrire il paradigma della presa estetica o, per usare il termine di Greimas, “estesica”. Essa avrebbe la funzione di una sospensione, in grado di condurre a una sorta di sublimazione. Tuttavia, c’è da chiedersi se ciò basti a spiegare l’evento stesso dell’arte, a rispondere a quella questione fondamentale che un autore come Goodman pone allorché domanda: “quando è arte”.

FABBRI: Con Goodman si compie uno spostamento dello sguardo decisivo. E non solo perché ponendo la questione non più nei termini di “che cosa è arte”, ma in quelli di “quando è arte” viene in primo piano il problema della natura di quegli oggetti che noi chiamiamo artistici, della loro differenza e della loro traducibilità. Il richiamo alla funzione simbolica dell’arte mostra chiaramente come non si possa prendere in considerazione unicamente l’insieme delle cose che tradizionalmente sono dette arte. Se così fosse, non avremmo alcun criterio simbolico, ma soltanto una lista di oggetti che entrano ed escono dalla storia dell’arte. Certo, i criteri, i “sintomi dell’estetico” indicati da Goodman non sono così chiari. Da parte mia, ne avanzerei un altro con prudenza: la poeticità, dove questo termine va inteso in un’accezione molto ampia. Essendo tradizionalista, ho grandi difficoltà a immaginare un’arte puramente stocastica e sento bisogno di pensare una forma di densità di relazioni provocata da scelte discrete. L’insieme caotico delle forze non mi interessa se non c’è un filtro di forma che permette alle sostanze del mondo di irrompere – forzandolo o meno. E la stessa semiotica, da cui provengo, non è una disciplina delle rappresentazioni concettuali, né può esserlo poiché il mondo delle rappresentazioni è un mondo di forze che in qualche modo si battono sui limiti delle forme. La densità di cui parla Goodman diventa così una densità di forme nella loro imposizione al mondo caotico delle forze che in qualche modo le definisce. Se non c’è un piano di consistenza che la forma crea sul mondo caotico delle forze non gli si riconosce alcun valore. Per questo l’indeterminazione pura, l’elogio dell’indeterminato, l’indefinito non mi commuovono. Quanto a Greimas, non c’è dubbio che nella sua analisi manchi un terzo momento, che riguarda appunto la differenza tra la relazione estesica con l’oggetto e quella artistica. Per relazione artistica intendo la relazione in cui viene compiuta una seconda operazione, quella di attribuire a un soggetto (qualunque esso sia, si tratti di Dio, della Natura o di un qualsivoglia artista) un intento – e non un’intenzionalità – che può corrispondere alla volontà del soggetto o può essere ricostruito nei termini di un’intenzione. È questo il livello della produzione dell’oggetto. Ora, la relazione estesica con l’oggetto non implica di per sé quella artistica, e anche quando parlo di soggetto non alludo unicamente a un individuo: può essere benissimo un soggetto collettivo, oppure un soggetto vuoto, il nulla, l’insensato, il caso, ecc. Quello che conta è che si tratta di un principio d’azione, di un fare che nella relazione estetica ricostruiamo e che in qualche modo lascia traccia nell’oggetto. Per questo sono necessarie un’ontologia degli oggetti artistici e un’analisi dei valori di esemplarità costruiti dal soggetto produttore o ricostruiti dall’eventuale ricettore. Per esempio, possiamo chiederci cosa accade quando si entra una seconda volta nel museo, dopo che con la prima l’oggetto da oggetto d’uso si è trasformato in oggetto attenzionale. L’oggetto diventa oggetto di una nuova attenzione, di un ripensamento, in grado di ricostruire la percezione, l’emozione? Può darsi, ma improvvisamente l’attenzione si sposta sull’intento artistico. E tutte le volte che si ritorna nel museo, si resta colpiti da esso. Al punto che non si ha più nemmeno bisogno dell’oggetto: esso perde d’importanza, diventa pre-testo che impone di pensare al testo. Si potrebbe obiettare che in tal modo si finisce per collocarsi dalla parte del soggetto ricevente, che l’instaurazione della relazione estesica prima e di quell’artistica poi riguarda unicamente il punto di vista del fruitore-consumatore. Ma questo è il mio punto di vista, di chi non è produttore d’arte e cerca di pensare filosoficamente l’arte. Tuttavia, una simile prospettiva non solo non è in conflitto con quella dell’artista, ma addirittura la coimplica, in quanto anche l’artista ha percezioni estesiche non creatrici, è insieme produttore e ricettore della propria opera, in un lavoro di rielaborazione continua. I pentimenti sono tutte costruzioni di questo genere.

DOMANDA: Di fronte alla molteplicità e varietà delle forme d’arte, il problema non riguarderebbe quindi tanto la possibilità di una definizione in grado di abbracciarle tutte, quanto piuttosto quella della loro traducibilità. Del resto, l’intera esperienza delle avanguardie si mostra irrispettosa delle differenze, rivelando un carattere per così sincretico…

FABBRI: La traducibilità delle arti rappresenta sicuramente una delle questioni fondamentali, inevitabili se vogliamo pensare l’arte. Tuttavia, essa è possibile solo si parte dal punto di vista delle forme e non da quello delle sostanze, solo se ci si rende conto che la struttura semantica, la forma del contenuto del linguaggio riprende le categorie della forma espressiva del mondo. Basta guardarsi intorno per vedere come il mondo e la semantica del linguaggio rivelino le medesime forme espressive: statico-dinamico, singolare-plurale, maschile-femminile, principale-dipendente, ecc. Il linguaggio contiene per così dire il mondo, e lo contiene sotto forma di forma. Le stesse categorie espressive del mondo sono formate; ciò non significa che non siano trasformabili o deformabili, né che la forma vada intesa in senso formale, come opposta al contenuto. Al contrario, io parlerei di una forma dell’espressione e di una forma del contenuto. Vi è poi una sostanza espressiva e una sostanza del contenuto. E il contenuto della lingua non è estraneo al mondo, ma è composto dalle medesime categorie. Di più: la sostanza espressiva ha a che fare con il corpo. Il linguaggio non è categorizzazione logica, bensì fiato, corpo, suono. Non vi è nulla di più corporeo del linguaggio. Si tratta, dunque, di riconoscere la mutua implicazione tra forma e sostanza da un lato, e l’organizzazione dei contenuti, il loro aspetto formato dall’altro. E questo è, a mio avviso, uno dei modi per uscire dall’opposizione che abbiamo ereditato e che vuole il segno da una parte e il reale dall’altra…

DOMANDA: Ora, se la traduzione è possibile solo sulla base di una grammatica che in qualche modo accomuna le arti al mondo, è proprio della dimensione estetica consentire una sorta di ritorno al precategoriale, al terreno primigenio dell’esperienza? Detto in altri termini, le traduzioni sono condizioni della scoperta di una precategorialità soggiacente? Oppure quest’ultima è la condizione del funzionamento della traduzione?

FABBRI: Da questo punto di vista mi schiero apertamente dalla parte della pratica artistica invece che da quella filosofica. Un filosofo non avrebbe dubbi: Merleau-Ponty direbbe, per esempio, che è la precategorialità che ci consente di pensare la traducibilità. Da parte mia tenderei a dire che questa precategorialità è sì postulata, ma è anche costruita dall’insieme delle attività di traduzione tra le pratiche artistiche. Per usare un’immagine, sono le muse che fanno girotondo. Detienne ha delineato una duplice classificazione delle muse di grande interesse. Le muse non sono sempre state nove – la classificazione arcaica ne prevedeva tre: Melethe, Mneme e Aoide. Melethe era la disciplina dell’apprendistato del mestiere dell’aedo: concentrati disciplinatamente, esercitati, suona, disegna, ripeti, medita. Mneme costituiva il presupposto della memoria. Aoide era il prodotto, il canto finito. L’aedo è quello che riesce a fornire l’aoido, il canto. Le muse non descrivevano diversi tipi di sostanze, ma la disciplina, la competenza virtuale e la realizzazione eventuale. Cicerone, cui dobbiamo la ricostruzione del mondo greco, ne elencava quattro: Arche, il principio, l’originario; Melethe, Aoide e l’ultima era Telxinoe ossia la seduzione dello spirito esercitato sugli altri (in compenso mancava Mneme). Nella classificazione greca era probabilmente presupposto che bastasse aver disciplina e memoria, e aver prodotto un canto finito. Ma già Cicerone comincia a preoccuparsi: ci vuole una musa apposta per la seduzione esercitata sugli altri. Credo che a tutte le diverse pratiche artistiche, alla pittura, al cinema, alla scultura, alla musica, alla performance, ecc. siano soggiacenti queste quattro muse che costituiscono il modo di apertura al mondo. Arche: da dove cominciamo a parlare; Melethe: quale esercizio ci vuole; Aoide: il testo che va visto come tale; Telxinoe: la seduzione; e a queste aggiungerei Mneme: come costituiamo la nostra memoria. Sono queste le muse che preferisco rispetto alle cameriere di Apollo…

DOMANDA: Se tali sono i presupposti di ogni possibile traduzione, quali sono i livelli nelle pratiche artistiche che consentono le massime di traducibilità?

FABBRI: Evidentemente, non lessico e immagine. L’immagine è un enunciato complesso, non paragonabile con una parola. A meno che non si creda che una parola sia un enunciato complesso. Si pensi, per esempio, a una definizione di ‘rispetto’: riconoscimento del valore che conduce una persona ad assegnare all’altro una considerazione ammirativa accompagnata da un comportamento di ritegno e di contegno liberamente assunto. Se spianiamo la parola dalla denominazione alla struttura di definizione, le cose allora cambiamo. Secondo punto: se prendiamo l’enunciato pittorico – pensiamo a un quadro tradizionale, giusto per aiutarci, perché certo l’arte è ben altro – e lo confrontiamo con alcune strutture grammaticali non ne viene nulla di interessante. Di contro, se consideriamo un tipo d’organizzazione del linguaggio, pensate alla disposizione poetica attraverso rime, assonanze, parallelismi, inversioni, ecc., il confronto diventa possibile, e riguarda certi livelli specifici d’organizzazione discorsiva del linguaggio (non quello grammaticale-lessicale) e certi tipi d’organizzazioni “testuali” dell’arte. È quello che fa Boulez quando guarda Klee e lo confronta, per esempio, con la musica di Ravel: non pone ingenuamente in relazione immagine e suono. Del resto, non vi è una grammatica, un lessico dell’immagine, nell’accezione propria del termine. Piuttosto, vi sono confronti tra configurazioni testuali. Un esempio. Spesso si dice che l’immagine sarebbe simultanea (anche se non tutte lo sono), mentre il linguaggio lineare: da qui la loro incompatibilità. In realtà, persino le immagini statiche hanno il loro modo di organizzazione interna che può simulare il tempo; ciò significa che un’immagine può proporre una temporalizzazione che può anche non essere immediatamente scorta. Ma vi è di più: probabilmente simultaneo è il linguaggio. Pensiamo a una rima, a un’assonanza: il primo verso di una poesia rimata non rima con nulla. Si può attendere parecchio finché arriva la rima: ma quando è letta, viene letta simultaneamente con il primo verso. La rima è un effetto di ritorno – di simultaneizzazione. Non c’è modo migliore di vincere il tempo irreversibile della ripetizione.

DOMANDA: La traducibilità non sarebbe, dunque, a priori, ma ogni disciplina dovrebbe lavorare al suo interno per ottenere quei livelli che la consentano. Questo ci porta alla problematica dell’oggetto artistico…

FABBRI: Quanto all’oggetto, parlerei d’oggetto attenzionale. Che cosa vuol dire? Dell’oggetto artistico può esservi percezione collettiva o individuale, e in ogni caso non si tratta semplicemente di un soggetto di fronte a un quadro, un’opera, ecc. La relazione estetica va intesa come dimensione d’atto complessa, che è insieme percettiva, cognitiva e soprattutto patemica. Per dirla con Deleuze: percetto, concetto, affetto. L’atto che instaura la relazione estesica è suscettibile di trasformare l’oggetto oppure di stabilizzare alcuni tratti percettivi, emotivi o cognitivi che altrimenti non verrebbero colti. Pensiamo al concetto di objet trouvé, di reade made: se prendete una ruota di bicicletta e la portate dentro un museo, improvvisamente la circolarità perfetta e il carattere stellare della ruota, che di solito passano inosservati, diventano pertinenti. Nulla impedisce di rovesciare la bicicletta e di cambiarne la percezione, come ha fatto Duchamp. Se la facciamo girare, acquista improvvisamente valore. Per questo non ha senso dire che egli si sia limitato a prendere un oggetto: dietro il gesto di Duchamp vi è la storia delle difficoltà della rappresentazione del movimento, vi è Velázquez; non solo, Duchamp ha firmato quella ruota con un falso nome ironico, e vi ha scritto sopra qualcosa. Con delle pratiche di iscrizione, di supporto, di firma, ha provocato sull’oggetto una selezione attenzionale di alcune proprietà che definirei “esemplari”.

DOMANDA: Come intendere, però, questa “esemplarità”?

FABBRI: Si pensi alla Laguna grigia del Guardi: possiede la qualità dell’esser grigia. Questa non è però una percezione estesica: semmai è lo storico dell’arte a dire che la laguna è grigia. La percezione estesica è quella per cui Guardi ha creato un oggetto in cui la grigezza è diventata esemplarmente attenzionale. Certo, è una proprietà dell’opera, ma anche un muro è grigio. L’operazione estesica è l’atto con cui intenzionalmente l’artista o anche il recettore compie un’operazione d’attribuzione esemplare che seleziona nell’opera alcuni tratti che possono essere il colore, la configurazione, un volto ecc. Un’operazione che ha il carattere di una vera e propria scoperta, analoga per certi versi a quella scientifica o filosofica. Nel nostro caso, non è il testo ad avere come referenza il grigio, semmai è la grigità che, in quanto selezione attenzionale, ha come riferimento il testo. Quest’ultimo diviene così la realizzazione di un’esemplarità che gli conferisce una forma d’orientamento. L’oggetto artistico indica e, a volte, impone a chi lo guarda il modo in cui vuole essere guardato. Guardare l’oggetto artistico significa guardare la serie di massime, di regole suggerite, affermate, imposte (si pensi alla prospettiva rovesciata, diritta, ecc.) che dicono al fruitore come deve guardarlo. Sotto questo aspetto ogni opera, così come ogni testo, è una proposta: presuppone quello che in semiotica si chiama un contratto di enunciazione. Come in un testo vi è una struttura proposizionale, così in un oggetto artistico vi è una luce, una riflessione, una dimensione cromatica, eidetico-configurativa, un ordinamento spaziale, una strutturazione del ritmo, ecc. che se da un lato appaiono come sue proprietà dall’altro si presentano come indicazioni per la lettura. Pensiamo alla pittura rinascimentale, che esibisce una serie di strategie, alcune esplicite, figurative (sovente troviamo personaggi che indicano con un dito, rivolgendosi spesso non a chi è dentro il quadro, ma a chi è potenzialmente di fronte), altre spaziali (la prospettiva, per esempio, che, come ben sapeva Shapiro, di fatto non è altro che un contratto enunciativo, in quanto propone un modo dello sguardo), altre ancora cromatiche che funzionano come inviti di focalizzazioni attenzionali. Di più: l’opera può contenere un simulacro delle emozioni che si dovrebbero provare guardandola, identificandosi, per esempio, con l’emozione che anima il personaggio che guarda all’interno del quadro la scena indicata. Siamo di fronte a un contratto passionale che viene proposto al fruitore, con l’intento che anche lui guardi la scena in quel modo. Ovviamente, quel contratto può non essere raccolto: ci si può limitare a osservare la scena, senza alcuna partecipazione. Ciò non significa che l’opera non abbia fatto la sua proposta, la quale potrebbe in seguito comportare una ristrutturazione informativa della storia dell’arte. In ogni caso, è a partire da qui che va posta la questione della verità dell’arte, nonché quella, affatto banale, della sua responsabilità etica. Ogni oggetto propone diversi contratti di verità che vanno compresi nelle loro differenti tipologie. Può essere che un oggetto altamente concettuale non proponga alcun contratto passionale che non sia la sorpresa. Può pure darsi che richieda, al limite, una perfetta indifferenza conoscitiva. Tuttavia, se è dalla proposta contenuta nell’oggetto che dipende la possibilità di una responsabilità etica, credo che questa sia pensabile unicamente accettando l’idea di un contratto passionale, poiché un contratto puramente cognitivo non sarebbe sufficiente.

DOMANDA: La dimensione passionale diventa così il luogo in cui si incontrano l’estesico, il concettuale e, soprattutto, l’etico?

FABBRI: Quando si dice desiderio, si pensa a qualcosa di vivo, quando si dice vendetta, si pensa a qualcosa di deliberato, di freddo, eppure caldo, a un’intensità della freddezza, ecc. Ho l’impressione che la dimensione percettiva si ritrovi costitutiva nella dimensione emotiva – e che quindi il cambiamento percettivo sia suscettibile di produrre insieme un cambiamento d’ordine emotivo. Se l’estesia è una delle componenti della dimensione passionale, questa viene modificata al mutare della dimensione estesica. Quanto al valore, bisogna distinguere tra il valore nel senso di elementi differenziali tra segni, il valore in quanto definito dall’oggetto con cui può essere scambiato e, infine, il valore dato dalla congiunzione con il progetto di un soggetto, dalla relazione tra un soggetto e un oggetto. Da questo punto di vista, l’atto di focalizzazione estesica implica una valorizzazione. Non solo, ma valore è anche quello che è definito dalla relazione a un altro soggetto, al desiderio dell’altro. L’atto estesico della percezione che costituisce l’oggetto è una selezione percettiva, emotiva ed è in funzione del proprio desiderio che presuppone una relazione con l’altro. La questione del valore si dispone su tutti questi parametri, e vi sono valori legati a un atto percettivo innovativo, valori costruiti dall’atto del desiderio, ecc. Non vi è un atto di valorizzazione unico, ma è sempre in funzione di diversi tipi di strategie di valore. A volte l’artista che commuta delle possibilità, per esempio cromatiche, scopre all’improvviso di essersi imbattuto in qualcosa che merita un’adesione di valore, benché non sia stato costruito intenzionalmente. A volte un artista può farlo contro un altro artista…

DOMANDA: Lei prima accennava alla possibilità di una coincidenza di intenti tra autore e fruitore dell’opera. Una simile adesione può essere assunta come una discriminante in grado di stabilire quando è arte e quando non lo è?

FABBRI: Prendiamo il caso dell’icona bizantina, che presuppone un consenso assoluto sul fatto che non rappresenti qualcosa di reale, manifestando piuttosto l’esistenza di un essere trascendente. Ciò spiega la struttura in prospettiva rovesciata: questa, a differenza di quella normale va verso chi guarda, e chi guarda è in realtà il guardato, il punto di fuga della prospettiva. In una cultura in cui vi è un consenso generale sul fatto che si è di fronte all’opera per essere osservati, l’identificazione è totale: in Russia devono essere successe cose straordinarie e la percezione estesica deve essere stata turbata completamente quando le icone sono state disegnate per la prima volta con la prospettiva normale. Lo stesso si può dire delle rappresentazioni vascolari greche, dove i personaggi sono di profilo, e soli pochissimi guardano “in camera”: che cosa è successo quando a un certo punto si sono voltati tutti? Nella storia dell’arte a periodi di contratto intenso sono spesso seguiti momenti di rottura percettiva, dovuti anche ai potenziali fruitori che cominciano a leggere in modo diverso l’opera o a negarle adesione estesica. Moltissimi sono i casi di intenti importanti cui non è stata data risposta. Perché questo accada è necessaria una rottura delle regole o, meglio, la posizione di nuove massime. Non solo. Perché un intento si stabilizzi occorre, una volta che la rottura si sia costituita come una proposta di massime nuove, l’intervento di più fattori: galleristi, direttori di musei, storici e critici d’arte, assessori della cultura, ecc., in una parola, consenso. D’altro canto, le difficoltà legate alla relazione sociale dell’arte possono essere comprese solo a partire dalla ricategorizziazione attenzionale di cui parlavo prima. L’oggetto artistico può essere spesso il pretesto per una ricategorizzazione emotiva, passionale, conscia, inconscia, ecc., che investe tanto la soggettività dell’artista (per esempio, il suicidio dell’artista), quanto la sua relazione con l’altro, sia questo il pubblico oppure quell’altro che l’artista stesso è.

DOMANDA: Non crede che una ricategorizzazione del genere sia oggi imposta dalle nuove tecnologie, dalle nuove pratiche di scrittura che hanno modificato radicalmente il medium espressivo e la natura dell’oggetto artistico?

FABBRI: Confesso di non aver al riguardo qualche buon esempio su cui pensare. Negli anni ’70 si era convinti della chiarezza e trasparenza complete dell’attività di programmazione, che avrebbe consentito di comprendere le forme della ragione. Ma cosa è accaduto in seguito? Ci si è trovati di fronte a una superficie di icone, giocabili l’una rispetto all’altra: non si è pensato più nella profondità delle produzioni logiche di un programma, nella prospettiva dell’Intelligenza Artificiale, ma nella superficie del bricolage di immagini, dove sovente il tipo di segno è funzione del fruitore, dando luogo a un “racconto” sempre più complesso nelle sue regole… Ho l’impressione che non si tratti di nuove pratiche d’arte, bensì di nuovi livelli di estesia, di un nuovo approccio estetico, in cui per certi versi viene meno la linearità narrativa. Tuttavia, anche su questo punto non occorre drammatizzare, sopravvalutando eccessivamente l’idea per cui la narrazione sarebbe sempre lineare. Infatti, non è impossibile immaginare una narratività circolare. Basti solo pensare alla struttura a ritornello della favola, dove ogni favole segue a un’altra e in ogni punto della favola se ne possono trovare molte altre. Sovente i motivi che si iscrivono in una storia sono tali da poter dar vita, se estratti, a una nuova storia, mentre se condensati possono essere inseriti in altre storie. Credo che l’ipertestualità offra a queste possibilità una libertà immensa. Più dell’idea di un’arte creativa è decisiva per la nostra sensibilità quella di un’opera che assume sempre più la forma di una proposta modificabile da parte del fruitore. Non solo: là dove la sostanza dell’espressione vien meno, sparisce pure il pathos della creazione, della materia. E tutto ciò non deve essere necessariamente pensato nei termini di una perdita, di un impoverimento. Con l’immagine numerizzata non si raggiunge la banalità della copia donata. Al contrario, si perviene a un insieme di diversità sensibili straordinarie, ottenute tramite l’approfondimento della materia, la trasformazione della sostanza del mondo in un lavoro continuo di stabilizzazione che costringe il gioco caotico delle forme, dei colori, ecc. nelle mura di un millimetro quadrato…

DOMANDA: Tutto ciò rende comunque quanto mai urgente la questione della diversa tipologia degli oggetti artistici e della loro ontologia pratica…

FABBRI: Anche in questo caso partirei da una distinzione molto semplice tracciata da Goodman, relativa a quello che egli chiama il problema dell’immanenza o della trascendenza dell’opera rispetto al suo oggetto. Se muoviamo, al pari di Goodman, dall’esame del concetto di “falso”, vediamo immediatamente che è cosa ben diversa falsificare un sonetto di Leopardi o la Gioconda. E questo perché i due oggetti hanno un differente statuto ontologico. Il sonetto di Leopardi può essere copiato a mano o a macchina, con grafie e colori differenti, e più persone possono ciascuna scrivere un verso. L’oggetto è indubbiamente diverso, ma il sonetto è sempre il medesimo. L’opera trascende le sue realizzazioni. Nel caso della Gioconda, questo non vale: se la si copia, si ha un’altra cosa. Una copia, sia pure eccellente, non è la Gioconda. Lo stesso esempio può esser fatto con la musica: comunque lo si legga, Leopardi resta sempre lo stesso, mentre uno spartito musicale, pur restando il medesimo, viene eseguito ogni volta in modo diverso (può essere eseguito a tre strumenti, a uno strumento solo, si può farne un trattamento, ecc.). Se vogliamo che le muse facciano girotondo, siamo obbligati a pensare tanto allo loro traducibilità quanto alla loro diversità, che è anzitutto diversità di statuto ontologico. Se la comprendiamo appieno, non possiamo non vedere come appartengano alla cultura occidentale cose che pretendiamo succedere solo oggi. È la nostra mitologia dell’originalità che vuole che i greci abbiano fatto un solo esemplare in bronzo e che poi questo sia stato copiato dai latini. In realtà, già i greci facevano copie. Ora, cos’è quella Venere alla collana copiata in molti modi? Un oggetto mentale che s’incarna in tutte le realizzazioni: in questo caso la forma concettuale è trascendente rispetto agli oggetti, mentre per la pittura questo non vale. Che dire però di uno spartito mai suonato? Si tratta di un oggetto mentale? Certo, anche se solo scritto e mai udito. Chi l’ha scritto non l’ha udito? Forse, ma solo in maniera virtuale. Si comprende così l’importanza della distinzione operata da Goodman tra arte autografa e allografa. L’arte autografa per eccellenza è la pittura, ma autografa è pure l’incisione, sia pure a oggetti multipli. Lo stesso vale per la performance – anche se c’è da chiedersi, per esempio nel caso del jazz, come vada intesa una seconda esecuzione. Forse, oltre lo spartito che costituisce il pretesto, si sta già stabilizzando virtualmente un qualcosa di mentale.

DOMANDA: In questo senso l’allografia renderebbe pertinente la domanda se l’arte non sia in fondo quasi interamente concettuale, se cioè in ogni pratica artistica non sia possibile ritrovare un che di trascendente, un principio di riconoscibilità che individui l’opera…

FABBRI: Non c’è dubbio, anche se ciò richiede una qualche precisazione: vi sono opere che hanno quale loro istruzione quella di stimolo e opere che hanno invece dell’esecuzione. Non si può non tenere conto di questa differenza. È noto che i registi attendano e disattendano di continuo le indicazioni di regia. Si tratta sempre della stessa opera? Forse, ma perché porre la questione nei termini dell’intentio operis? Quando si ripete drammaticamente con Benjamin che viviamo nell’epoca della riproducibilità tecnica, ho l’impressione che si dimentichi che questa non è una cosa stupefacente per l’arte. Come ho appena detto, i bronzi greci non erano in senso proprio degli “originali”. In fondo, tutto questo dramma non è che il frutto dell’ideologia romantica dell’autore, del creatore, per cui l’atto artistico sarebbe il tratto unico di Raffaello, il suo gesto iniziale… Ma la realtà dell’arte è molto più complessa, e non solo per quella distinzione di arte autografa e allografa di cui parlavo prima. Prendiamo, per esempio, gli schizzi in cui l’autore riporta tutta una serie d’indicazioni. Bisogna tenere presente quel momento bizzarro nella storia dell’arte in cui cominciano le notazioni. L’arte contemporanea trova finalmente nel computer un luogo dove le notazioni sono per così dire prescritte. Lo fa con soddisfazione e dolore: dolore, perché si sente costretta; soddisfazione, perché vi è già una buona teoria delle notazioni. Vi sono allora casi in cui vi è soltanto il creatore. Vi è il caso della preparazione delle sinopie, delle indicazioni, ecc. Ma vi sono poi anche casi in cui c’è la notazione pura e semplice: il balletto, il circo ecc. Per questo non bisogna restare vittime della distinzione tra creatore e interprete. Piuttosto, dobbiamo varcarla e riflettere sui tipi diversi di oggetti che rivelano tipologie molto sottili di fare artistico. Da questo punto di vista, dobbiamo chiederci se la riproduzione ammazzi veramente le auree o se piuttosto la tecnologia non si è in grado di rimettere le auree là dove erano scomparse. Pensiamo, per esempio, a certi rituali di Beuys di cui disponiamo solo di alcune tracce di riproduzione. Vi è qualche differenza rispetto al teatro del Cinquecento che era privo di istruzioni di regia e di cui abbiamo unicamente dei resoconti? Più che preoccuparci delle registrazioni, non dovremmo chiederci se le fotografie o le immagini delle opere di Beuys sono costitutive dell’opera stessa, partecipano al suo evento? Anche questo non sarebbe poi così nuovo: si pensi alla musica di una volta, dove gli spartiti erano alquanto approssimativi ed erano notati solo gli strumenti principali. Ogni esecuzione appare così inesorabilmente ricostituire quell’evento, che non è se non nelle sue attualizzazioni. Oggi, paradossalmente, il solo conservatore di un minimo di originalità sembra proprio il riproduttivo, in quanto appare ancor più “originale” di quelle esecuzioni che in passato poggiavano unicamente su indicazioni molto imprecise…

DOMANDA: Dalla riproduzione va poi distinta l’esperienza del remake dove l’originale cessa di essere il primo, diventando piuttosto una sorta di forma trascendente rispetto a tutte le sue varianti, ciascuna delle quali si presenta come opera…

FABBRI: Certo, ma con delle proposte diverse e con dei cambiamenti nel contratto di attenzionalità. Pensiamo, per esempio, a Lolita di Nabokov. La storia è identica, ma il film di Kubrick comincia dall’omicidio che nel romanzo è alla fine. Nel film la prima parte è in terza persona, è obiettiva, dall’omicidio in poi è l’assassino a raccontare. Mentre il romanzo è tutto in prima persona, è un racconto autobiografico. Si tratta di una trasformazione decisiva. Sul contratto d’enunciazione Kubrick propone di credere alla prima scena come a una scena obiettiva, accaduta realmente. Nel caso di Nabokov tutto è raccontato dal punto di vista del protagonista. La trasformazione è radicale. Ciononostante si sente che è la stessa Lolita. Il punto è allora quello di comprendere quale sia il sottile momento di trasformazione. L’arte contemporanea non ha fatto che lavorare su ciò: basta mettere un baffo, ritoccare un punto. In tutto questo vi è una grandissima capacità di ironia: l’arte contemporanea pratica in maniera sottile l’ironia. Anche in questo caso, però, occorre procedere con maggiore cautela. Vi sono opere d’arte al cui interno sono iscritti quadri reali, autentici, mentre in altre i quadri vengono ricopiati; altre ancora sono ricche di citazioni implicite, indirette, se non addirittura nascoste, e tuttavia ricostruibili; infine, pur non essendo presenti nell’opera, alcune citazioni possono essere introdotte dal fruitore, ecc. La tipologia sottile degli effetti è uno dei grandi piaceri dell’estesia. Nella ricostruzione della molteplicità testuale vi è, infatti, un piacere che non è solamente cognitivo.

DOMANDA: Forse il problema dell’identità diventa ancor più “esemplare” quando è l’opera stessa a mettere in scena il dramma della sua decadenza e della sua caducità. Si pensi, per esempio, ai lavori di un artista come Titus Scarmel…

FABBRI: Sono sempre rimasto ammirato di fronte alla sottigliezza dell’opera di Titus Scarmel. Il suo è un discorso sulla replica, sulla simulazione, sulla sostanza, sulla relazione tra il reale e il segno, sul fatto che la realtà non dura, è destinata marcire. Qui l’arte rivela fino in fondo il suo carattere di Gedankenexperiment, e questo possiede una natura parabolica. L’arte pensa in maniera parabolica e, dunque, argomentativa. Per ragioni misteriose la retorica della nostra cultura ha distinto tra argomentazione e sillogismo da un lato, e metafora e tropi dall’altro. Ora, è innegabile che la metafora contenga valori referenziali, argomentativi e che possieda qualità di scoperta: non è semplicemente esornativa, ma costitutiva, ha valore conoscitivo. Questo la filosofia l’ha sempre detto. Quello che non ha mai detto, però, è che metafora e argomentazione sono reversibili, nel senso che non è solo la scienza a pensare e l’arte a rappresentare. Piuttosto, vi sono figure pensanti, cariche di potere speculativo, così come argomentazioni che sovente racchiudono in sé immagini e metafore, questioni di ritmo e di simmetria. Molta dell’arte contemporanea, ma non solo questa, deve essere considerata una vera e propria pratica concettuale. Non per riscattarla, ma perché pensa. Semmai siamo noi a non comprendere come pensi, a dover tradurre il suo pensare.

DOMANDA: Ma se tale traduzione impone di pensare la relazione tra arte e filosofia non nei termini in cui la pone l’estetica tradizionale che assume sovente l’arte come una categoria di cui è noto il contenuto, l’approccio semiotico da lei proposto non finisce per rivelarsi unilaterale, riducendo l’opera d’arte, e più in generale al testo, alla dimensione del textum, perdendo così, tra l’altro, quella del testis, del testimone?

FABBRI: Sì, è uno dei miei limiti, la traccia della mia provenienza. Il testis mi interessa non in quanto soggetto dell’enunciazione, ma in quanto enunciato interno al testo stesso. E credo che l’apporto della pratica semiotica sia quello di aiutare a pensare come la testualità porti iscritte le proposte di testimonianza. Il textum come luogo in è cui è iscritto il testis. E questo perché insistendo sul fatto che è l’arte che pensa e formula le ipotesi teoriche che è capace di fare, dico che la maggior parte dei contratti estetici sono in qualche modo proposti dal testo stesso e voglio guardare come il testo li propone, poiché il testo è molto sottile nell’indicare strategie estremamente diverse. Nella Logica della sensazione, analizzando le opere di Bacon, Deleuze mostra, per esempio, come vi sia una struttura costrittiva, una sorta di compressione sulla figura che è costantemente esposta a forze che la deformano. La figura può restare o essere dissolta da queste forze di liquefazione, che generalmente avvengono sotto la pressione di un’inquadratura molto rigorosa che agirebbe come un’azione di deformazione sulla figura centrale. La figura che nasce da questa deformazione potrebbe produrre a sua volta altre figure, oppure potrebbe darsi l’informe, l’informale o il rigoroso realismo descrittivo, ecc. Per Deleuze, comunque, la pittura non rappresenterebbe stati, ma trasformazioni: non segni, bensì forze, passioni, ossia il modo in cui la figura subisce trasformazioni passionali e accusa le trasformazioni delle forze. Se in alcuni casi la deformazione può essere informe, dove questa è in realtà quasi lo specchio della figura, in altri essa appare come un operatore di metamorfosi, di un divenire altro. Il mondo sarebbe così forma caotica delle sostanze delle sostanze espressive, e non è certo casuale che Deleuze stesso si sia definito un espressionista in filosofia…

DOMANDA: È noto, però, che Bacon abbia rifiutato la lettura deleuziana, e c’è da chiedersi se Deleuze non si sia limitata a raffigurare la propria filosofia…

FABBRI: Se dessimo ragione a Bacon cancelleremmo l’operazione di Deleuze che appare quella di pensare la propria filosofia a partire dall’opera di Bacon. Nella relazione estetico-speculativa instaurata da Deleuze vi è, a ben guardare, reciprocità di traduzioni, ed è proprio della buona traduzione essere capace di arricchire la lingua di partenza e quella d’arrivo. Si tratta, dunque, di creare un luogo intermedio, in cui pratica filosofica e attività artistica si scambino i ruoli, e insieme con essi sia la dimensione teoretica sia l’intensità passionale, senza ergersi in un metalinguaggio descrittivo che si arroghi il diritto di giudicare cosa sia arte e filosofia. Per questo Deleuze poteva affermare di non essere un filosofo, ma un intercessore. Io direi, un traduttore. Intercede, traduce chi si pone tra sedi diverse e opera passaggi di trasformazione, chi è in grado di rimettere in gioco quelle tradizioni di testi che sono la filosofia e l’arte, inscrivendole l’una nell’altra. Perché dovremmo darci utopie così complicate restando all’interno delle nostre tradizioni? Credo che si debba avere il coraggio di pensare fin in fondo l’arte, e di pensare a partire dall’arte. E questo vuol dire avere il coraggio di avvicinare l’oggetto artistico tentando non già di mostrare cosa la filosofia abbia da dire sull’arte, bensì di dis-implicare del discorso artistico qualcosa che il discorso artistico non ha da dire e che forse non era nell’intenzione dell’autore dire, e del discorso filosofico qualcosa che esso non sapeva di sapere prima di aver incontrato l’opera d’arte.

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