Di Sara Fiadone, Blumm ICS Mag, Roma, dicembre 2016.
Diceva Juri Lotman, grande studioso della cultura, che l’arte, come forma di comunicazione capace di dare ordine al caos, possiede un potere “modellizzante” rispetto agli schemi di pensiero della società, una capacità di creare “linguaggi di secondo livello” in grado di mostrare fenomeni e aspetti del mondo – segrete corrispondenze, contrasti ricchi di senso – che il linguaggio naturale da solo non è in grado di cogliere e comunicare.
Se l’arte è dunque, in qualche modo. un indicatore del presente, la parabola dei suoi cambiamenti può essere vista come un segnale del cambiamento a venire, non sempre definito nella forma, ma già capace, in una qualche forma emergente e sotterranea, di dispiegare i suoi effetti.
Così mentre la postmodernità, golem incontrastato della teoria culturale del tardo Novecento, aveva segnato l’apoteosi del “già-detto”, oggi, nell’epoca che molti chiamano iper-moderna, l’arte sembra essere entrata nell’era del ri-prodotto. Se in campo musicale (e non solo) si è passati dal trionfo del remix a quello del mash-up, altrettanto sembra accadere nel più ampio panorama culturale contemporaneo: sempre più spesso, al fenomeno della ricombinazione di elementi preesistenti si affianca la tendenza ad ibridare e dunque “amalgamare” forme espressive differenti, fino ad aprire la strada alla nascita di veri e propri linguaggi inediti, precursori di nuove sensibilità.
Ma in che modo queste dinamiche possono generare reale innovazione? E come può l’arte agire ancora da laboratorio privilegiato per lo sviluppo di questi processi? La parola al semiologo Paolo Fabbri, che riflette su un possibile “futuro in nuce” già inscritto nel sostrato della nostra memoria. E allo stesso tempo avverte: non basta fare di nuovo per fare il nuovo.
A lungo, nei secoli passati, l’arte è stata uno strumento per parlare ai popoli, per esprimere valori collettivi in modo esteticamente efficace. L’arte contemporanea assolve ancora a questa funzione sociale?
Vasta questione. Generalizzando mi pare che rispetto alla dimensione pubblica dell’arte siamo oggi di fronte a una situazione paradossale. Da una parte i musei, ovvero i luoghi istituzionalmente dedicati a diffondere l’arte, ne sono diventati anche i maggiori promotori. Dall’altro il pubblico destinatario dell’arte contemporanea tende sempre più a criticarla, perché fatica a riconoscersi in essa. E non si riconosce nell’arte perché non riesce a leggerla, a causa di una comunicazione istituzionale inadeguata: crisi del discorso critico e difficoltà ermeneutiche. Il problema quindi non è l’autoreferenzialità dell’arte, ma una disfunzionalità della comunicazione.
L’arte contemporanea in effetti è sempre più “meta”, capace non solo di usare i linguaggi, ma di riflettere sugli stessi. In questo senso può essere considerata ancora più che in passato un formidabile laboratorio di sperimentazione dei linguaggi. Che ne pensa?
Bisogna qui recuperare la distinzione tra funzione transitiva e riflessiva della comunicazione, ovvero tra la capacità di un messaggio di parlare d’altro o di parlare di se stesso. Non c’è dubbio che l’arte contemporanea abbia una funzione transitiva, misurabile in termini di attività estetiche, politiche, umanitarie ed è stimabile nella quantità smodata degli investimenti . Allo stesso tempo, però, “carica” il proprio discorso di una componente saliente di tipo metalinguistico.
Si tratta di una caratteristica che appartiene da sempre all’arte – trattati, citazioni, pastiches, ecc. – ma che in quella contemporanea è particolarmente marcata. Ad esempio attraverso l’ironia, esercitata non solo verso la collettività e il sistema stesso dell’arte, ma rispetto alle altre attività artistiche: un aspetto che acuisce il problema di leggibilità Ad es. molti artisti si riferiscono all’operato di altri artisti, ma per un pubblico generalista non addetto ai lavori, è improbabile accorgersene. Per questo anche il critico diventa sempre più “embedded” nell’opera di un solo artista: per comprendere l’opera è costretto a interpellare l’autore in modo che i riferimenti ironici vengano esplicitati. Proliferano le interviste, decrescono i saggi.
A questo proposito, uno degli argomenti ripetuti più spesso è che “non è più tempo d’avanguardie”. Non sono d’accordo: credo invece che le avanguardie abbiano anticipato fenomeni che oggi sono molti significativi.
In effetti alcune tendenze espressive oggi mainstream, penso al mash-up e in generale all’estetica del “già detto”, un tempo erano appannaggio delle avanguardie, in particolare del postmodernismo. Come cambia il concetto di creatività nel passaggio dalla sfera artistica in senso stretto a quella del “consumo produttivo”?
Posto che per lo stesso Lyotard il postmoderno non era un concetto annalistico quanto un ripensamento analitico del moderno, delle radici della modernità e del suo paradigma, è indubbio che l’estetica del “già detto” sia inestricabilmente legata ai nostri tempi.
A rigore, se ragioniamo in termini di lessico, ogni messaggio è sempre in qualche misura una citazione: a partire da queste considerazione un artista wittgensteiniano come J. Kosuth ha scritto un libro Purloined. A Novel (1990), interamente composto di materiali linguistici pre-scritti. Ma se ragioniamo in termini di quella che Saussure chiamava parole, di esercizio concreto, enunciativo della parola, si aprono grandi possibilità creative. La differenza è quella, come ha ben detto Chomsky, tra “esecuzioni secondo le regole” e “creazioni contro le regole”, ma è uno scarto non sempre facile da verificare.
Prendiamo appunto l’es. del mash-up, una dimensione con una carica sperimentale, almeno potenziale. Bisogna verificare però quanto effettivamente consenta di riscrivere le regole. Molte pratiche di mash-up che si dichiarano innovative in realtà sono solo nuova esecuzione di uno spartito esistente. Insomma: non basta avere un computer e mescolare testi per essere creativi. Bisogna che emergano davvero nuove grammatiche e l’esito va verificato caso per caso.
A volte, in effetti, i rimescolamenti concessi dalle nuove tecnologie sono casuali, puri esercizi, non sempre capaci di generare “nuovo senso”.
È vero. Ma non è detto che questo sia negativo. Le avanguardie hanno cominciato a sperimentare questo tipo di effetti parecchio tempo fa. Penso al “cut and paste” – quello che risale a T. Tzara, poi a Burroughs-Gysin – e che pratica Nanni Balestrini, quando dice “non ho mai inventato una parola che non sia un montaggio di discorsi altrui”. Le combinatorie danno a volte dei risultati di notevole leggibilià.
Il punto è che, senza questo genere di laboratori, non potremmo immaginare l’esplorazione di nuove regole. Ma come tutti i laboratori, può accadere che cerchino per non trovare nulla, o per “scoprire l’ombrello”. Non siamo tutti creativi!
Rispetto all’estetica postmoderna, fondata sul concetto di ricombinazione, oggi sembra però prevalere una logica di rimescolamento e ibridazione: una differenza non banale.
Certamente. Non bisogna dimenticare che l’ibrido non è solo montaggio di pezzi: è la possibilità di “montare” sistemi espressivi diversi, che però siano in grado permettere un qualche principio di reciproca traducibilità.
Prendiamo musica e immagini: si pensa che tra questi due linguaggi non ci sia alcuna traducibilità, perché uno si sviluppa nel tempo, l’altro nello spazio. Ma non è così: la musica può “spazializzare” e la pittura può “temporalizzare”. La traducibilità è possibile, se in entrambi i linguaggi si arriva a un livello di astrazione sufficiente per renderli compatibili, a livello della loro composizione. Che non a caso è un termine che vale in entrambi i campi. Penso al memorabile intervento di Boulez su Klee, Il paese fertile (1989).
Viviamo in un momento di estrema smaterializzazione della comunicazione. Dall’altro e forse anche per reazione c’è una fortissima reviviscenza della dimensione sensibile. Come si riflette tutto questo nella comunicazione artistica?
Senza dubbio l’attenzione alla dimensione sensibile è marcata e non è limitata ai cinque sensi canonici. Come diceva Deleuze, il compito dell’arte è riuscire a “trapiantare nuovi sensi” nello spettatore, organi per una nuova sensibilità e affettività per modificare le nostre “memorie somatiche e semantiche” attraverso l’immaginazione. È l’esito più interessante della tradizione fenomenologica.
Ancor più delle arti del sensibile, però, stimoli molto interessanti possono arrivare dall’arte concettuale, perché anche nella sua originalità talvolta estrema costringe a rivedere alcune organizzazioni di senso. Il concettuale prevede infatti una tra(ns)ducibilità tra linguaggi molto promettente nell’epoca della multimedialità e delle ibridazioni. Vanno però riconosciute le semplici trovate che dovrebbero esser fatte per essere perdute.
L’arte concettuale è insomma riuscita a realizzare quanto affermava uno studioso della semiosfera come Lotman: far pensare a partire dai propri dispositivi pensieri ancora impensati. In questo senso l’arte, grazie alla sua articolazione strutturale, riesce a essere “a futura memoria”.
Tornando alla reviviscenza della dimensione sensibile: secondo Gilles Lipovetsky può essere letta come un sintomo o una causa della progressiva centralità della dimensione estetica nei consumi. Che ne pensa del concetto di capitalismo artista e, in generale, della commercializzazione dell’estetico?
Prendiamo un caso fin troppo noto: la cucina, esempio di sofisticazione estetica legata al sensibile. Oggi il mercato globalizzato si è largamente appropriato di tradizioni culturalmente specifiche attraverso la modalità detta fusion.
Un altro esempio è la moda, che non riguarda solo l’abbigliamento – pensiamo solo alla scelta dei nomi dei figli, spesso legati a precise tendenze (letteratura, teatro, televisione., musica, ecc.). Le mode sono processi di creazione di nuove estetiche ed estesie. E così anche le “belle” maniere – dare del “tu”, le varie forme di contatto fisico: oggi ci sono veri e propri corsi di buone maniere – altro non sono che forme di sofisticazione – lo stile – delle relazioni interpersonali.
Ecco: il capitalismo mondializzato ha generalizzato il fenomeno, ma non è riuscito a controllarne per intero processi di significazione. Le “tendenze”, i fad e i craze, emergono ancora dal collettivo in maniera talvolta inattesa e spesso critica (v. i tatuaggi). Ripensare questi luoghi di creazione del valore semiotico è una sfida in cui l’arte ha ancora un suo ruolo. Penso alle attività artistiche in una società che esercitano il controllo comunicativo, in particolare attraverso l’imposizione della trasparenza. L’arte può difendere il segreto.
Ma se l’arte è avanguardia e invenzione, riconfigurazione delle modalità di “dire” la realtà e, tramite questa, delle modalità di “pensare” la realtà, questa capitalizzazione dell’estetica non porta a una consunzione e una stasi creativa generale? In queste condizioni, come può l’arte dire ancora qualcosa di nuovo se quello dell’artisticità diventa un parametro funzionale ed economico?
Non c’è dubbio: il diffuso processo, molto attuale e in corso, di Artificazione (Heinich). Dal cinema alla fotografia, fino alla danza hip-hop, le pratiche semiotiche vanno irreversibilmente verso il loro divenire arti. A ben guardare, non c’è nessuna disciplina estesica e comunicativa che non vada in tal senso. Un processo che segue peraltro criteri specifici: collezionisti, musei, gallerie, mostre, riviste, critici, ecc. Per esempio, mi chiedo come mai la magia non sia ancora diventata arte. E il calcio? Perché non è stato ancora “artificato”, mentre il circo da tempo ha le sue arti? Insomma, il processo esiste e si svolge in modo meno così banale come sembrerebbe.
Nella comunicazione odierna uno dei trend più forti è quello dell’infografica: una modalità con una forte componente artistica, che mette insieme la funzionalità dei dati con un criterio di sensibilità estetica. Cosa ne pensa?
È una tendenza che poggia le basi sull’attuale predominanza della dimensione del visibile, con l’idea, a mio parere opinabile, che la parola da sola non è sufficiente, che ha bisogno di essere accompagnata, sempre, dall’immagine. Su questo “mito del nostro tempo”, l’idea un po’ naif che “l’immagine vale più di mille parole”, io ho qualche riserva: ci sono parole giuste dette al momento giusto che valgono più di mille immagini televisive.
Questa idea produce anche fraintendimenti come per esempio nella percezione della scienza, uno dei campi in cui il successo dell’infografica è più evidente. Fino al secolo scorso la scienza – come del resto l’arte – era molto astratta, usava pochissime immagini analogiche e mimetiche: preferiva i diagrammi (v. Venn). Oggi grazie alle tecniche di manipolazione iconografica, la scienza produce e divulga una quantità di immagini stupefacenti per “falsi” colori e forme, bellissime sul piano estetico (v. i frattali), talvolta sconfinanti in una sorta di “kitsch infografico”, adatto a pubblicizzare prodotti di laboratorio. Ma non sono immagini scientificamente fondate, nel senso che hanno poco a che vedere con le svariate visualizzazioni quali si iscrivono all’interno dei procedimenti scientifici di ricerca e scoperta. Sono mezzi di divulgazione, forme d’indubbia utilità con cui la scienza “si fa pubblicità”; ma che, a causa dell’idea naif di cui sopra, possono dare la percezione, errata di avere accesso ai laboratori della scienza. La quale richiede ben altre forme complesse di saper fare, sia visivo che verbale. L’aggettivo derivato dal sostantivo /scienza/ non è “scienziale”, ma “scientifico”: la scienza si fa, come l’arte si opera.