Colloquio con Andrea Porcheddu, Teatro/Pubblico, n. 4/5, luglio-settembre, Torino, 2005.
Paolo Fabbri, semiologo tra i più insigni e “curioso” per passione, avverte: anche i flussi hanno bisogno di fermarsi. E chiarisce una possibile funzione dell’estetica contemporanea: dare rinnovata fluidità alle forme stereotipate. Affidando un preciso compito agli artisti…
Andrea Porcheddu: Partiamo da una prima considerazione: il “flusso” non è necessariamente fluido…
Paolo Fabbri: Per un lungo periodo c’è stata forte attenzione alla problematica della struttura, ma oggi ci si interessa più ai “processi”, che hanno naturalmente una loro qualità. Si ha la tendenza, infatti, a vederne le caratteristiche di fluidità, di flusso, ma si è dimenticato l’effetto che fa la “rottura” su questo processo. La rottura produce la stabilizzazione delle Forme. C’è la tendenza, dunque, a mettere in evidenza le Forze, a scapito delle Forme: e quindi i processi vengono pensati come flussi attivi. Ecco, dunque, che l’idea teorica che sta dietro i flussi – qualsiasi tipo, come quelli di informazione, eccetera – non è qualcosa che si propaga, cola, ma qualcosa che attiene alle Forze.
Ma come le forze diventano Forme?
Deleuze, quando guarda la pittura, dice “basta” alla pittura delle forme, e afferma che la pittura deve essere delle forze. Ma occorre distinguere: se i flussi sono intesi come forze sono d’accordo, ma se i flussi vengono visti come propagazione, connessione, non sono d’accordo, e mi sembra, anzi che non si capisca quanto sta accadendo.
A.P.: E cosa sta accadendo?
P.F.: Ci sono due modi di pensare alla problematica dell’opposizione struttura-fluidità, forma-flusso, e l’ho trovata ben espressa nella “teoria delle catastrofi” di René Thom. Thom sapeva che ci sono dei “punti catastrofici”, di rottura, al di là dei quali i flussi si rompono e appaiono come configurazioni, morfologie. Ho l’impressione che insistere solo sui fluidi faccia perdere di vista il “punto di rottura”, ovvero la forma configurata. pronta anch’essa a ridiventare fluido.
Thom traduceva l’opposizione “forme-forze” nel binomio, forse più calzante, di “Pregnanza-Salienza”. Afferma, infatti, che le Pregnanze sono i desideri – la fame, il sesso… – che contano profondamente per noi, che toccano profondamente il nostro corpo, e si propagano come fluidi nel mondo, ma che per diventare intellegibili non possono non investire delle Salienze.
A.P.: Cosa sono, allora, le Salienze?
P.F.: Le Salienze sono, per René Thom, delle geometrie, morfologie delle forme. Ad esempio le parole: le parole sono morfologia, non sono fluidi. Ma il desiderio che investe le parole è come un fluido che investe la forma e gli dà un carico di valore. Le parole non hanno senso in sé, se non vengono investite dai fluidi delle forze, dei desideri di attrazione e repulsione. Quando la Salienza è investita dal fluido del desiderio tende a sterotiparsi in quella forma, quindi certe parole portano forme fisse di desiderio
A.P.: E dunque l’unica possibile intelligenza dei fluidi si ha nella salienza?
P.F.: Si ha nei punti di focalizzazione, mentre la pregnanza si propaga. La propagazione si ferma sulla Salienza per diventare intelligenza. Il ruolo dell’Estetica, allora, è quello di fare il percorso inverso, a partire dalle Salienze investite e diventate “stereotipo”. Ossia, si tratta di partire dallo stereotipo e destabilizzare il linguaggio, le forme, per inventare nuove forme. Dunque, ri-fare il fluido, ri-propagare… E il meccanismo, così illuminato, mi sembra estremamente chiaro. È il contrario del linguaggio, che si ha quando noi riusciamo a stabilizzare le pregnanze fluide, a stabilizzarle in certe forme: la stabilizzazione, infatti, può significare, ovvero dire cose salienti, precise. Se questa è la procedura del linguaggio, la procedura dell’Estetica è anche linguistica, in quantomuove da linguaggi espressivi e fa loro ritrovare la fluidità propagante…
A.P.: Ma come?
P.F.: L’invenzione, la creatività è qui. Risiede in questo meccanismo. Ci sono due creatività: la prima consiste nel trovare le forme entro cui investire le pregnanze. E poi c’e una creatività “al contrario”, che parte dalle forme stabilite e stereotipate e rimette in moto i flussi. La prima creatività va verso il linguaggio, la seconda lo scuote e lo abbandona.
A.P.: La tensione, comunque, è sempre verso un movimento…
P.F.: Come dicevamo, la nostra epoca, dopo il periodo strutturale, ha ridato privilegio alle forze. Ma ci sono, come sempre, due strategie: Eraclito e Platone. Eraclito che afferma Panta Rei: siamo immersi in un divenire, non c’è morfologia possibile. E Platone che dice “c’è un Logos”: ossia individua delle configurazioni. In qualche modo, la risposta a queste due tensioni opposte è il “Ritmo”. Il ritmo è la configurazione della forma del processo. Le forme del processo: ecco il nodo. Quindi oggi non dobbiamo opporre forme e forze, ma pensare ai ritmi. Questo vuol dire ripensare, ad esempio, la ritualità. Che differenza c’è tra Apollineo e Dionisiaco? Il ritmo: il ritmo sfrenato del dionisiaco che è anche eracliteo e il ritmo compassato, a prevalenza platonica, dell’apollineo. Sono sicuro che qui risiedano le due grandi modalità del fare teatro: l’apollineo e il dionisiaco, in teatro, sono questioni di ritmo.
A.P.: Chi è, allora, l’artista?
P.F.: Penso a Calvino, quando raccontava dell’uomo davanti allo specchio, che non smette mai di fare smorfie per impedire al viso di diventare “io”. E, la sua, è una bella idea teatrale. Come impedire la consistenza della soggettività, sottoponendo il viso ad un incessante lavoro di forze diverse?
Ecco, questo è il punto. L’artista non deve mai sottostare all’ “io sono io”, non deve mai guardarsi nello specchio se non attraverso una serie illimitata di smorfie. Non deve mai avere tic: il tic è il momento in cui la libertà della smorfia viene bloccata dall’ordine. Ci sono invece artisti che prendono tic. Ci sono quelli che diventano maschere, e ci sono quelli in cui il morbido prendere forma del viso viene bloccato dall’identificazione del tic. Preferisco le maschere al tic. Ma ci vuole il coraggio infinito per sottoporre continuamente la faccia alla “fuga”: e questo è il teatro.
La Commedia dell’Arte, allora, è preferibile al birignao, di qualsiasi tipo esso sia. La maschera è tutta forma, e mai fluido, ma è più interessante del tic. Certo, è una sfida difficile, forse impossibile. Ma pensiamo, invece, al lavoro che fa Bill Viola, al suo sottoporre i quadri ai piccolissimi e infiniti movimenti: non serve violenza per far uscire il viso dall’ordine, a volte bastano piccole messe in processo, piccole forze, piccole vibrazioni minuziose.
A.P.: Oltre Viola, quali altri artisti ritiene attivi in questo senso?
P.F.: Il mio amico Kossuth sa cogliere dei movimenti, delle vibrazioni che non siano surplace, sul posto: lui riesce, comunque sia, per qualche incantesimo, ad imprimere una vibrazione interna importante alle sue opere. E mi piace molto la danza: qui si esprime, in maniera veramente piena, la dialettica Pregnanza-Salienza…