Le fabbriche dell’identità


Intervista con Leopoldo Fabiani, Repubblica, Giovedì 23 Settembre 2010, p. 49.


«Viviamo in un’epoca afflitta da “asimbolia”, diceva Roland Barthes. Pensava che l’edonismo materialista che domina la società ci rendesse insensibili al linguaggio dei simboli. E invece questi riemergono in continuazione, religiosi, politici o nazionalisti che siano». Per un semiologo come Paolo Fabbri (insegna Semiotica delle arti allo Iuav di Venezia) i simboli sono ferri del mestiere, eppure sostiene che per comprenderli occorre andare oltre le tecniche della sua disciplina. «Il simbolo – spiega – non è questione di forma, ma di forza».

Come nasce un simbolo? Cos’è che trasforma un semplice segno in qualcosa di molto potente che agisce sulle menti individuali e collettive?

«L’efficacia. Pensiamo alla visione di Costantino, la croce con la scritta “In hoc signo vinces”. Una interpretazione semiotica banale comincerebbe a elencare: la croce rimanda al cristianesimo, che è una religione, ecc. Invece dobbiamo concentrare la nostra attenzione sul “vincerai”, che è comando e profezia allo stesso tempo».

Ma da dove proviene questa efficacia? Perché un simbolo è efficace e un altro non lo è?

«Il ragionamento va rovesciato. È simbolo ciò che è efficace, che attiva energie, che funziona. Che fa “tremare il corpo”. Comprendiamo tutta la forza simbolica di una bandiera, quando c’è qualcuno che la brucia, e qualcun altro che si indigna per questo gesto, altrimenti sarebbe solo un semplice pezzo di stoffa colorata».

Attorno al simbolo si genera un’identità.È qualcosa che unisce.

«Unisce e perciò divide. Distingue e aggrega la comunità, permette di dire un “noi” contro un “voi”, e agisce proprio con questo scopo. Non per niente i più grandi inventori di simboli nella modernità sono stati i nazionalismi. Questi hanno prodotto bandiere, divise, inni, francobolli, monete. Tutti elementi che creano identità attraverso il meccanismo della differenziazione. Lo vediamo all’opera anche nel caso dei leghisti. Che sostituiscono il Sole delle Alpi al Tricolore per dire: siamo leghisti, non siamo italiani».

I miti, antichi e moderni, fanno parte dell’universo simbolico?

«No. Per comprendere il fenomeno bisogna piuttosto ricorrere alla categoria del rito. Il simbolo si può definire come un enunciato inserito in una sequenza rituale, in un cerimoniale, dove assume il massimo della potenza. E poi il centro del problema non è “cosa è”, ma “quando”. Se ci capita di sentire la Marsigliese come musica di sottofondo in un aeroporto, restiamo indifferenti. Ma nella famosa scena del film Casablanca, quando tutti nel locale la cantano davanti ai nazisti infuriati e impotenti, ci provoca ogni volta un brivido di commozione».

I marchi commerciali appartengono in qualche modo alla categoria dei simboli?

«In genere, no. Direi piuttosto che equivalgono a una firma. Anche questa, certo, ha un valore. Ma è un’altra cosa. A volte i marchi assurgono a simboli, quando si attribuisce loro un significato più ampio. A lungo la Coca-Cola è stata l’emblema dell’imperialismo americano, non solo commerciale. Oggi il suo posto è stato preso dal McDonald, marchio di fast-food bersaglio di tutti i movimenti no global. E per contro il fenomeno dello Slow food diventa simbolo di un’identità alternativa, di un modo diverso di consumare il cibo».

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