Intervista a Paolo Fabbri su Il giuoco dell’Oca e l’Orologio astronomico di Edoardo Sanguineti


Intervista con Mili Graffi, Il Verri, Milano, n. 29, ottobre 2005.


Graffi. – Cominciamo con il Giuoco dell’oca, il romanzo costituito da 111 tessere che segnano il percorso del gioco. È il romanzo nel quale Guido Guglielmi ha visto una contrapposizione «tra il visibile e il sensibile»1, definendo le immagini al suo interno come pop e new dada. Ora, a quasi 40 anni dall’uscita del libro, ti pare che possiamo considerarlo un romanzo pop?

Fabbri. – Baudrillard, nella sua analisi sugli oggetti pop2 che è ancora validissima, ci può aiutare in questo. Parla del rischio del pop, e dice esplicitamente che se non ha il rigore dei codici, è soltanto impressionismo della società dei consumi. Il vero grande pop c’è, quando c’è rigore nella costruzione, e cita Jasper Jones. Il rischio del pop è di diventare un semplice impressionismo, e di essere esso stesso consumabile. Sanguineti è ben altro.

G. – Come affrontiamo il discorso sulle immagini contenute in questo libro? Nel suo ultimo romanzo, L’orologio astronomico, Sanguineti sembra affrontare lui stesso l’argomento e parla di iconologia.

F. – Lì, c’è una cosa che dovrebbe piacerci: l’espressione «comportamentismo iconografico». Si trova in un momento centrale del libro. Il protagonista aveva detto preventivamente di avere avuto tre conversioni (come vedremo poi), una delle quali è quella iconografica. E qui spiega in cosa consiste, infatti comincia il capitolo così: «Qui si ricuce tutta la mia avventura». Si è accorto che dentro l’orologio di Strasburgo ci sono delle statue che mimano la Caduta, il peccato originale. Cosa fa, allora? «Mi sono portato A. in camera, e l’ho messa a letto, e l’ho costretta a mettersi in posa, tanto da ricostruirmi tutta quella figura là della ‘Chute’, come la spiega qualunque dépliant turistico. Ho creato un bel caso di comportamentismo iconografico, se così posso dire. Se si fa bene la ‘Chute’, mi sono detto, quella, allora mi cade, quella, per me. Mi cade tra le braccia». C’è trasposizione dal visivo al narrativo: ha sistematicamente utilizzato le immagini per farne un’operazione narrativa. Lo dichiara: «comportamentismo iconografico».
Crearsi una iconografia e su quella costruirsi una storia narrativa, è un’idea che ha in comune con Calvino, ed è alla base del parallelismo forte che vorrei stabilire, qui, tra i due scrittori.

G. – È un’idea inconsueta. Sono autori così diversi. Sanguineti ha scritto una poesia su Calvino.

F. – È un testo singolare “in mortem” di Calvino3 che si conclude con un impegnativo «e credimi, qui tra una prova e l’altra, tuo per sempre / vivente inesistente:». Cosa li tiene insieme, Calvino e Sanguineti, nei limiti di questo testo? una passione comune per il «barbuglio», per la dimensione labirintica dell’esistere. Sanguineti, comincia col descrivere una interiezione caratteristica dell’ultimo Calvino: “eh” e un suo gesto degli occhi e delle mani (Sono testimone!), che legge come il segno di «un’inarrestabile inconcludenza, un distanziato ignorabo (abimus-), una cosmi- / cità riservata» ed anche come «perfezionamento progressivo di un’accorta / e accorata adozione di un antico pseudobarbuglio». Dopo essersi dichiarato «imbarbugliato davvero in un luttuoso barbuglio, di questi giorni, / anche io, per te» afferma «assaggio pure io il tuo / “eh”: (ma non l’ho ancora azzeccata, senti, la nota giustacon i giusti gesti):». Per Sanguineti si tratta di apprendere a morire: del «mio autodidattico impararmi /a fare il morto:», ma anche di un comune viaggio attraverso il barbuglio del linguaggio e il garbuglio del senso e del mondo. Un percorso labirintico – perché non dirlo – attraverso il ribollire della parola e le circonvoluzioni del mondo. Battere insieme il labirinto che prevarrà.

G. – Puoi dirci qualcosa su come se la rappresenta la morte, Sanguineti?

F. – Come un’entropia testuale; come il passaggio dalla tensione binaria delle cose e del linguaggio alla perdita d’informazione e di senso del termine unico, privato di relazioni. Il prevalere del labirinto è quando non c’è più ordine da imporgli né energia per batterlo: l’impiccagione di Arianna al suo filo, direbbe Foucault. Così vanno letti quei versi del 1981 che gli sono più cari: «nella mia vita ho già visto»4. Nelle prime quattro strofe, che cominciano tutte con «ho già visto», i termini sono ordinati binariamente: da «già […] giacche» fino al «mascarpio (lat.) a *manus- / carpere:» (Si capiscono così le ragioni consonantiche per cui a Sanguineti piacciono Paola Pitagora e Patti Pravo!). Le stesse scansioni sono opposte grammaticalmente: nella seconda strofa sono segnate dai diminutivi e nella quarta dagli accrescitivi. La strofa-riga finale invece si oppone alle altre per il «ma» iniziale, per l’opposizone temporale del «già» all’«adesso », per l’inversione tra «mia vita» e «vita mia». E soprattutto se sono due le dita che spengono gli occhi, unico è il termine finale «basta» che si oppone alla coppia che chiude la prima strofe «buste e busti». Un Ablaut semantico direbbe Jakobson? Facciamoglielo dire in gergo semiotico: l’apofonia è il significante di una asposemia.

G. – Torniamo alla narrativa e a quel rapporto con le immagini che ha in comune con Calvino. Certo, lavorano tutti e due con le carte da gioco. A dir il vero Calvino cominciò più tardi, come annota Guido Guglielmi, «Se ne ricorderà Calvino…»5.

F. – Entrambi hanno capito che bisognava narrare con le immagini. Siamo davanti a un caso molto interessante di precise corrispondenze tra i due scrittori. Calvino tiene più al narrativo. Alle carte e ai tarocchi, ci pensa in termini di narrazione, lui vuole raccontare. E cita la mia conferenza sul racconto cartomantico che avevo tenuto a Urbino nel luglio 19686. Nella voce “Visibilità” delle sue Lezioni americane, Calvino dichiara: «all’origine di ogni mio racconto c’era un’immagine visiva»; parla di «fantasia figurale» e della «facoltà umana» di «pensare per immagini», del «metodo di inventare le mie storie partendo da quadri famosi, comunque da delle figure […]»7. Sanguineti, nel Colloquio con Gambaro, ci racconta come Calvino avesse «recepito alcune delle esigenze della nuova avanguardia»: «quella svolta fu certamente favorita dal suo interesse per la fiaba, interesse che lo aveva avvicinato a Propp e a tutto un modo di lettura della narrativa molto lontano dai modelli che aveva frequentato da giovane. Così, quando apparvero i testi “diversi” della neoavanguardia, egli fu capace di un’attenzione che altri non ebbero. A ciò poi va aggiunta la sua sensibilità per la cultura francese, che naturalmente favorì l’interesse per l’attività strutturalistica»8. Sappiamo che Calvino ammise soltanto la sua adesione all’avanguardia francese.

G. – L’Oulipo…

F. – Se c’è un oulipista naturale, è Sanguineti. Il Giuoco dell’Oca comincia con una bara nella tessera I, nella II c’è un bar; poi la bara diventerà un sarcofago, ne uscirà una mummia che alla fine monterà sopra una botte, e comincerà a navigare; cosa diventa la bara? Una bar-ca. Bara – bar – barca. Nell’Orologio astronomico, ho trovato: «pezzi di antiche storie, che si mettono, di colpo, a galleggiarti lì in testa, allo sbando. Si ha la testa in tempesta, ecco». Sanguineti non aveva bisogno di dichiararsi oulipista.
Nel Colloquio con Gambaro emerge che per un giorno solo Sanguineti non è diventato un autore della Einaudi: «In quella fase [l’esperienza di “Menabò”] i nostri rapporti si fecero più intensi. Non a caso, [Calvino] mi chiese di pubblicare da Einaudi il Capriccio italiano, di cui aveva letto un capitolo. Ma io il giorno prima avevo firmato con Feltrinelli sia per il romanzo che per le poesie. Probabilmente, se non avessi avuto il contratto con Feltrinelli, le cose sarebbero andate diversamente, perché Einaudi sarebbe diventato l’editore del Capriccio italiano e delle mie poesie, e l’avanguardia avrebbe avuto un supporto diverso»9. C’è stato un momento, dunque, in cui il collegamento poteva saldarsi. Abbiamo una specie di incontro mancato. Erano legati a doppio filo, sull’iconologia, sulla narratività, sull’oulipismo.
Ho l’impressione che bisogna fare due piccoli sforzi, uno guardare i testi a livello dei significanti – accorgersi che c’è una trasformazione tra la bara e la bar-ca – e due, se è possibile, associarli a trasformazioni sul significato. Allora, comincio con la bara, che a un certo punto è messa in piedi e diventa sarcofago, questo si apre e ne esce la mummia che comincia ad animarsi, afferma di essere Attilio Regolo, sale su una botte, la bara diventa la barca e comincia a navigare, mi pare che abbiamo una bella struttura narrativa.

G. – Sì, sì. Nella botte, che è anche la bara, «la grande botte, la grande bara», è stato messo l’io femminile dell’eroe o protagonista, e poi fatto rotolare giù per la collina. L’io maschile, uno dei tanti io del protagonista, è in questo caso il saltimbanco che fa rotolare la botte con dentro l’altro suo io femminile. Con questa botte-bara-barca, tre termini sovrapposti nel giro di poche righe, Sanguineti conclude il Giuoco dell’Oca.

F. – Il soggetto parte incriptato, si libera durante il percorso e alla fine parte con la barca. È il racconto di un successo.

G. – Si potrebbe quasi dire che c’è una Bildung. Questo romanzo, che Tibor Wlassics ha definito «romanzo-galleria barocco» – e lo è certamente – e anche «geroglifico in senso assoluto, senza possibilità di soluzione»10, che è stato accusato di non avere una struttura narrativa esplicita, alla fine scopri che in realtà contiene la storia di una trasformazione, qualcuno perviene a una liberazione, è quasi un pezzo di narrativa classica.

F. – … che si gioca sul significante e sul significato.

G. – Anche se è possibile rintracciare una fabula, la paginetta finale rilancia in qualche modo un nuovo giro di incriptamento, perché nella botte è rimasto l’io femminile, e soprattutto perché dentro il termine barca continua a sussistere la serie, che tu hai visto, di bara-bar-barca. La barca della vita che prende il largo invita a un nuovo giro di dadi.

F. – Calvino prende dei testi visivi e ne fa delle narrazioni. Sanguineti opera su un piano geometrico-astratto – c’è l’inquadratura, lo sbilenco, il parallelepipedo – c’è una trasformazione visiva astratta, di configurazioni, chiamiamole così, eidetiche. Vanno seguite come tali. Percepisci una narratività visiva e astratta, che va da un parallelepipedo steso a terra a un parallelepipedo eretto…

G. – … e che passa attraverso una visualizzazione, un’astrazione che si rende manifesta solo attraverso il visibile.

F. – Tuttavia questi elementi del visibile si trasformano in continuazione; quando si arriva alla fine non c’è solo una trasformazione visibile, da orizzontale a verticale, da lui che sta dentro a lui che sta fuori, dall’interno all’esterno, ecc., ma c’è anche una trasformazione sul piano del significante. E questo è un procedimento irriducibilmente poetico. A me non dà nessun fastidio parlare di poema in prosa. Abbiamo qui un procedimento di tipo poetico condotto in maniera prosastica. Mantiene i grandi funzionamenti principali della poesia che sono quelli della trasformazione del visibile, e del significante grafico-sonoro.

G. – Gli incipit delle 111 tessere, hanno spesso la forma di rebus, di indovinelli, di motti spirito, e il racconto che segue è una specie di decifrazione della frase iniziale. «Le donne lì sul muro, sono fatte a carboncino, come me», XXI. «Sono a letto con quella ragazza, in un certo senso», XXVI. «Si vede quasi tutta, la donna A, quasi nuda», XXX. «È una slitta, il parallelepipedo», XXXVII. «Cadono le braccia, in questa pagina qui», XXVII. «Qui c’è un nome per tutti, per tutte le cose», XLVI. «Il pollice è ambiguo», LV. Sono frasi che promettono il senso, e intanto lo tengono serrato dentro, incriptato, in attesa di essere decriptato. Motti di spirito senza contesto, in attesa di contesto. L’incipit della tessera I, che è l’incipit del libro, è particolarmente curioso. Dice: «Ci sono io, per intanto», una affermazione di identità che si staglia contro lo sfondo di quel «magazzino di immagini» (l’espressione è di Guido Guglielmi), che costituisce il libro. L’espressione idiomatica «per intanto» segnala una priorità, una continuità nel tempo. Ma cosa significa? Subito dopo leggiamo: «Sto dentro la mia grande bara. Sono al buio, chiuso». Avrebbe potuto cominciare con la seconda frase. Perché è stata necessaria la prima?

F. – È una anafora. Presuppone che ci sia contrapposizione rispetto a qualcosa detto prima. Costituisce un presupposto di continuità. Esattamente come nelle poesie, quando alla fine mette i due punti, che vuol dire che la cosa va avanti.

G. – E allora, chi è questo io? Potrebbe essere il lettore? Perché Sanguineti darebbe voce al lettore? Perché gli farebbe prendere le distanze dal libro che gli sta proponendo di leggere?

F. – Questo è un altro discorso. Quello che abbiamo detto finora ha a che fare con l’enunciato, cioè con la storia, il plot. Adesso stiamo parlando di un’altra questione importante, dell’enunciazione, vale a dire della relazione io-tu all’interno di un testo. C’è l’io-tu di quello che scrive a qualcuno che sta nella storia. In questo caso, l’io sta dentro la storia (Montale non dice mai io, usa sempre il tu, ma è un tu dove si cela l’io, è dell’io che parla). Poi c’è invece chi scrive, che si chiama io anche lui, che però parla al lettore. Ci sono, dunque, due io. La ragione per cui Sanguineti dice io, è molto divertente. Riprendiamo l’episodio del «comportamentismo iconografico» di cui abbiamo parlato poco fa. Diciamo che a quel punto Sanguineti aveva il problema di creare un mezzo di comunicazione che attirasse il lettore: se dico che c’è una ragazza che si allunga sul letto per rappresentare la Caduta, e c’è un uomo che la guarda, il lettore difficilmente è interessato, ma se dico ‘io’, automaticamente la gente pensa che sia proprio io, Sanguineti, in carne ed ossa, a promuovere l’azione. L’io costruisce una falsa identità, non racconta in terza persona, ma costruisce un io che coinvolge il lettore. E lo coinvolge con una curiosità di tipo morboso: ma chi è questo Sanguineti che fa questo tipo di cose? Lo convoca dentro al libro con un’interrogazione. Deleuze, quando parla dell’io metastabile11, usa l’espressione ‘quarta persona singolare’, e dice di averla presa da Ferlinghetti. Quando tenti di uscire dalla soggettività che dice io, puoi travestire questa soggettività in un tu, oppure la trasformi nella terza persona, che è l’impersonale. Ma cosa succede quando questo impersonale conserva l’io? Si ricorre alla quarta persona singolare. È l’io di Sanguineti, che nel Giuoco dell’Oca gli dà un nome: «ioio»12.

G. – Lo puoi anche leggere accentato, yoyo, il perenne gioco dell’attirare e respingere la rotella. «Ci sono io, per intanto. Sto chiuso dentro la mia grande bara. Sono al buio, chiuso». Ancora non le lego assieme, la prima frase e le altre due. Un io per accattivare il lettore e poi lo spinge nella condizione più miserevole e annullante possibile? Qualcosa mi sfugge.

F. – Tu sai che sono un fanatico del significante: io – bara – buio, e in buio c’è io. Bu-io. Non è una mia invenzione. Di solito non ce se ne accorge, perché siamo dominati dal senso. Mentre chi si interessa di aspetti visivi, lo vede subito. Bisogna valorizzare in maniera concreta non solo i giochi dell’enunciato, ma anche quelli dell’enunciazione. E questo, Sanguineti lo dice nel Colloquio con Gambaro. «Il discorso politico […] infatti non viene mai proposto come una serie di enunciazioni in prima persona, ma come registrazioni di enunciazioni date: c’è un personaggio ‘io’ che parla con altri personaggi. In pratica, io faccio un racconto che per lampi e in modo sempre inquieto comunica fatti ed eventi rendendo possibile una concretezza ideologica che nello stadio ‘labirintico’ non era pensabile». E senti come descrive la sua strategia dell’«io»: «Si trattava di utilizzare l’io, ma attraverso una strategia che permettesse una chiara presa di distanza. L’io era come una terza persona e, proprio per questo, aveva un effetto di seduzione nei confronti del lettore, che veniva spinto a un certo livello di coinvolgimento, in quanto all’ascolto di una testimonianza»13. Da Sanguineti ho imparato tantissimo.

G. – Ho cominciato a capire qualcosa del Giuoco dell’Oca, quando mi è parso di intravvederci una pittura famosa. È stato come un’illuminazione. Può anche darsi che abbia avuto le traveggole. La IX comincia così: «L’apertura praticabile è in un fianco, da quella parte che si vede adesso. È chiusa da una tenda pesante. Ci sono due sagome ritagliate, con la tenda pesante che fa da sfondo. Sono come due battenti incompleti di una porta incompleta. Sono due battenti sagomati, appunto, collegati con certe cerniere al grande corpo […]». Queste parole, e solo queste parole, mi hanno fatto venire in mente la Madonna del Parto di Piero della Francesca. Lì, in mezzo alle due sagome ritagliate, cioè le sagome identiche dei due angeli – che, come si sa, sono ottenute con un unico modello girato a dritto e a rovescio – al posto del grande corpo gravido della Madonna, c’è «il grande corpo della bara». La bara è dunque collegata anche all’«Utero inesauribile» che si trova in Laborintus.

F. – Sono convinto che il lavoro da fare adesso sia di andare a cercare le fonti, le fonti visive, non quelle letterarie, perché questo è un testo che si occupa del visibile. Come dice nella dedica a Luciana: ce n’est que superposition d’images de catalogue. Io ho trovato una pagina che è un Magritte (LVIII).

G. – La scena della piscina, in LXVI, sembra un quadro di Edward Hopper. In LXII ci puoi vedere un Mimmo Rotella. Tibor Wlassics ha visto un Bosch o un Brueghel in XV. E ci sono le immagini dei fotoromanzi, anche francesi e americani…

F. – Siamo davanti a un caso molto interessante di trascrizione della cultura visiva dell’epoca che viene riportata in maniera sistematica. Ivi comprese le scritte, che sono a volte solo frammenti di parola, in maiuscolo per evidenziarne il carattere di reperto visivo. Per tornare alla IX, alle due sagome, leggiamo: «Lei è Paola Pitagora […]. Lui invece sono io». Non c’è bisogno della sua dichiarazione sulla prima-terza persona singolare. C’è scritto lui, e invece sono io. Il dramma dei critici è che hanno bisogno di andare a chiedere a Sanguineti la sua opinione, quando la sua opinione l’ha scritta nel romanzo.

G. – Posso citarti altri due casi dove fa il salto dalla terza alla prima persona: «I due salgono su un monumento funebre» e descrive cosa fanno (XVI), poi specifica: «Il primo dei due che salgono è quello che mi fa come da guida. Il secondo infatti sono io». In XLVIII il passaggio è fulmineo: «I due entrano. Io sono quello che entra davanti all’altro». Scatta qualcosa come quando ci si guarda in fotografia. Ci si riconosce in un’effigie, in un’immagine. È il visibile che fa nascere la quarta persona singolare!?

F. – Deleuze era stato colpito da una cosa sola nel cinema di Pasolini: il discorso libero indiretto, quando non sai o non capisci chi sta enunciando. Il discorso libero indiretto è la difficoltà di assegnare il soggetto che parla: autore o personaggio. Sanguineti lo gioca a fondo, rendendo inassegnabile il soggetto che parla. E qui ritroviamo di nuovo Calvino. Nel racconto Lo specchio e il bersaglio, Calvino si mette davanti a uno specchio e comincia a fare delle smorfie. Perché lo fa? Per impedire all’io di consistere. La battaglia contro la consistenza della soggettività non può essere ottenuta, come faceva per esempio in quel periodo Robbe Grillet e con lui tutta l’école de regard, attraverso un’impersonalizzazione, ma va ottenuta attraverso una pluralizzazione dell’istanza. Nel nostro fittizio confronto a distanza tra Sanguineti e Calvino, vediamo che in Calvino la battaglia contro la soggettività è fatta con la strategia della smorfia: per impedire che l’io sia io farò apparire tutte le facce buffe in modo da non esserci come io dentro la storia. La strategia di Sanguineti è quella di dissipare l’io tramite una pluralizzazione. Sfrutta il piacere del lettore, che ci tiene a ritrovare l’io, un io che gli dà un piacere un po’ indiscreto, e pruriginoso. Si tratta di mettere a confronto trattamenti diversi, per non ritrovarsi con il solito problema della soggettività. E i trattamenti possono essere: io ero io, oppure io era io, che sono due proposizioni assolutamente diverse.

G. – Nella strategia di Sanguineti c’è una irrimediabile dose di comicità. Dice, «ho messo il cappotto tre volte», e leggi tutta la tessera per capire cosa vuol dire, se intende che se lo infila tre volte consecutive, o che si infila tre cappotti. E in questo senso la spiegazione non viene data mai, sai solo che lui c’è tre volte, e se vuoi immaginarti come ci si mette il cappotto tre volte, ti devi arrangiare da solo. «Ci sono sempre tre volte, io, con tre pistole», afferma in CIX, e più avanti «io e io sono rimasti soli, ma in negativo, così in due, bianchi, a sparare sopra il bianco del negativo». In CV, dove ha inizio la frenetica moltiplicazione, leggiamo: «Ma intanto io divento due, con due frecce con le cuspidi grasse», e poco dopo: «Io divento tre, con tre pistole. L’io di mezzo è una donna. L’ultimo io, che è un po’ nano, è con gli occhiali scuri, con la barba […] L’io giovane, lì a sinistra, ha le scarpe con i chiodi». Ma non è l’unica strategia. In XXXVII, l’io come carciofo già preannuncia la pluralizzazione14.

F. – C’è un’emergenza del dato. Trovo insopportabile, oggi, il relativismo dei punti di vista. Non saremmo cascati in due sopra la stessa modalità. È segno che il problema è emergente. C’è una salienza dell’opera. Se non riconosci questa salienza della strategia enunciativa, che è appoggiata dalle sue dichiarazioni – ma queste sono meno importanti, avrebbero potuto anche essere diverse e dire il contrario di quello che aveva fatto – la pluralizzazione dell’io perde senso.

G. – Fa paura toccare l’io.

F. – Si ha paura della Spaltung, della rottura. Tutti dicevano che doveva essere eliminato, ma nessuno spiegava mai come fare. Sanguineti gioca una dimensione che è una satira dell’io. Dalla carnevalizzazione del corpo, delle forme basse, di cui parlava Bachtin, si arriva a una carnevalizzazione dell’io stesso, e mi pare un’invenzione straordinaria.
Un’altra cosa interessante è l’ossessione dell’enumerazione caotica, che a Sanguineti viene da Auerbach. Se tu enumeri caoticamente il mondo, rispondi al mondo che purtroppo è così. Ma da allora, qualcosa è cambiato. Oggi si è riconosciuto che il caos non è l’indeterminazione. Il caotico in realtà è una forma ordinata, caoticamente ordinata, e non ha niente a che vedere con l’indeterminato. Una seconda osservazione che si può fare, per me più seducente, è che abbiamo un’enumerazione caotica dei suoi io. Quindi il caos non è il caos del mondo, è il caos dell’io. Sia il caos del mondo sia il caos dell’io sono in qualche misura descrivibili, non sono indeterminati.

G. – È un caos in movimento, di esasperata mobilità, di metamorfosi continue. Pensa a questo oggetto che viene chiamato bara e alla somma di significati che si addossa: all’inizio contiene, oltre all’io, «i personaggi […] fatti di legno, un po’ come nei tiri al bersaglio», che ricordano le sculture di legno di Ceroli. Essendo circondato da personaggi di legno, forse ha qualche ragione per sentirsi in una bara di legno, per osmosi. La bara è meccanismo di difesa, guscio protettivo (XLIII), è luogo di memoria (ci ha costruito il «monumentino», XLIV), è l’utero (IX), è la sede dove nasce il linguaggio, l’«alfabeto Morse» trasmesso battendo colpi nella bara per comunicare con la moglie, ma che è sostanzialmente legato alla scrittura, «col mio teschio facevo le linee facevo i punti» (XXV), è sarcofago (LVII) per cedere alla mummia il filo della narrazione. Più avanti, saranno addirittura gli stracci e le bende della mummia a raccogliere il testimone, e, gettate sul palcoscenico (LXIV), vogliono magari mostrarci di cosa è fatto il materiale di una narrazione. E questo può essere una delle spiegazioni possibili per il carattere ‘basso’ di tutte le immagini descritte nel libro, quelle che Tibor Wlassics ha definito «arte come spazzatura» e Guglielmi «i residui della produzione tecnologica di immagini», «i fondi di magazzino». Mobilità e metamorfosi sono una base capillare di questa scrittura, che ha la qualità mesmerica del basilisco. Non puoi che seguire abbagliato una sequenza di questo tipo: «Una volta sì, una volta no, adesso, se ne sta dietro la sua inferriata, in basso sì, in alto no, quella donna che si vede di tre quarti di schiena. In alto è bianca e rosa. È’ una rosa, in basso, addirittura, quella donna. È una rosa sporca di blu. La sua schiena è un vestito giallo. Tra una volta e l’altra volta, tra il sì e il no, tra il basso e l’alto, ci sono i passeretti che volano, da sinistra a destra, che cadono con le ali chiuse, dall’alto in basso. Uno cade, uno vola. Tre cadono, quattro cadono. Uno vola […]» (XCI), oppure una proposta di compresenza di vita e morte come: «Io mi guardo lì con i morti, lì nel fiume. Io sono lì nel fiume, con le braccia larghe, con le gambe larghe, con la bocca aperta. Giro come gira la ruota, nell’acqua, al centro di un’altra ruota più grande, con gli occhi al cielo, al ponte, che mi guardo lì sopra il ponte, me, io, con i gomiti appoggiati alla ringhiera» (VI). È un libro che ha una superficie immediata di totale visibilità, ma sotto corrono una miriade di fili che legano discontinuamente le tessere. C’è una rete sotterranea, e imprevedibile, di collegamenti, che fa come un brusio di fondo, un vespaio di piccole eccitazioni. Quando te ne accorgi, ci vai dentro a capofitto, magari con l’aspirazione di acquisire la visione globale, totale. Ma non ci arrivi alla totalità, mai.

F. – La poesia è così. Prendiamo Montale, dice: «stride la carrucola del pozzo», e poco sotto leggiamo: «nel puro cerchio un’immagine ride»15. Quando leggi questo ultimo verso, ci senti dentro lo «stride» di poco sopra. È lo stridore del riso. Il principio di costruzione non è narrativo. Così come esiste l’assonanza sonora, ci sono assonanze di senso che ti aspetti che ritornino come tali. Come rime semantiche, rime di contenuto. Se è vero che esistono delle rime di contenuto, questo è un poema in prosa.
E non ha nulla a che vedere con la narrativa classica di Calvino. Calvino non ha mai voluto rinunciare alla struttura narrativa. Cosa fa invece Sanguineti? Cosa sostituisce alla struttura narrativa? Abbiamo visto le strategie dell’io pluralizzato, al punto tale che il lettore comincia a credere davvero che l’io ipersessuato dei suoi romanzi e delle sue poesie sia Sanguineti stesso. È una trappola in cui caschiamo tutti: la trappola pronominale. È quella che gli permette di convocare il lettore dentro le sue storie.

G. – Nelle citazioni dal Faust di Goethe che Niva Lorenzini16ha ritrovato nel Giuoco dell’Oca, ce ne sono un paio, nella tessera X, che sono indispensabili per decriptare il senso della tessera stessa. Si tratta della scena Strasse, che si svolge in un teatro. Premetto che in questo libro di immagini, l’unica alternativa alle immagini sono le scene di teatro. La tessera X sembra voler segnalare una differenza tra ciò che si recita nell’atrio del teatro (l’incontro con Margherita) e quello che invece si dà come spettacolo vero e proprio sulla scena e a cui si dà inizio solo «quando si nomina Hans Liederlich». Hans Liederlich, nel Faust, è il dissoluto, il libertino. È una interpretazione o è un programma? Cosa vuol dirci, segnando questa differenza tra l’amore sincero, trattato come un preambolo, e quello dissoluto che va in scena e che tiene la scena?

F. – Valery ha fatto un Faust (Mon Faust), anche lui, e Margherita l’ha chiamata Lust (lussuria). Le varianti sono inevitabili. Siccome credo che sia necessario studiare i giochi sistematici del significante, ti sarai accorta che in questa tessera, oltre al buio, c’è atrio, e che le ultime parole sono «sul serio, al buio». Mi permetto di insistere su questo gioco del significante, che ti scova atrio, serio, buio. E c’è anche silenzio. L’io non è soltanto tematizzato, e in maniera straordinaria, ma in quanto significante, pervade il testo capillarmente.
Per questo io che diventa mummia, ho trovato in Deleuze17 un’analisi interessante. Parlando di Artaud, definisce come una posizione di mummificazione il suo irrigidimento davanti all’inaccettabile, il suo pietrificarsi di fronte all’intollerabile. Il problema è tentare di uscirne andando nella direzione del possibile. E allora, dice Deleuze, la mummia deve cominciare a trasudare felicità. Nel Giuoco dell’Oca abbiamo proprio questo: una mummia che comincia a trasudare felicità. È un romanzo felice. Ce la fa a completare il gioco dell’oca, ne esce.

G. – A propposito di questa trasformazione, vorrei parlarti del tema dell’occhio, e del vedere. Tibor Wlassics, chiedendosi da dove vengono questi «’quadri’ immaginari, […] allucinazioni e, anche, se si vuole epifanie»18, recupera la poetica dell’occhio schiacciato, come l’ha trovata in Protocolli, dramma radiofonico di Sanguineti, e in effetti, c’è, anche qui, nel Giuoco dell’Oca, una tessera, la CI, dove leggiamo: «Mi schiaccio un occhio leggiero leggiero […] scoppiano i fuochi d’artificio […] Si moltiplica tutta una visione, come quando uno si schiaccia un po’ un occhio, lì con un dito, leggiero leggiero. È l’estasi questa qui, secondo me. È, comunque, A TEMPESTOUS EXPLOSION». Qui sta parlando di cosa succede quando abbraccia una ragazza.

F. – È una delle strategie visive. Non vorrei ridurre…

G. – Guarda, a me è interessata questa poetica dell’occhio schiacciato perché può aprire il discorso a una interiorità del vedere. Nella tessera XVII, l’incipit sembra proprio alludere a una interiorità: «Gli occhi si abituano, in noi, vedono molte cose». È l’unico accenno nel libro, perlomeno l’unico che ho trovato io, a un rapporto del vedere con l’attività psichica: «in noi». C’è invece la tessera LXXXIV, che è tutta un’accumulazione di occhi negativi, freddi: «cinque azzurri occhi ovali, così freddi, con l’azzurro occhio rotondo sotto, così freddo anche quello, con le rosse ciglia lunghissime sopra, così fredde anche quelle» a cui si aggiunge «l’occhio bistrato di bianco […] che tutti gli occhi può comprendere, che è l’occhio degli occhi, che è la colla, dunque, che è un segnale di fumo degli indiani sopra un cielo di rabbia», e prosegue assemblando una ridda di associazioni agghiaccianti, cui si aggiungono delle lettere insensate e che solo alla fine ricomposte per intero, rivelano di cosa si tratta: «È un po’ un BOUM». L’explosion di CI è tenera e benigna, mentre il boum di LXXXIV tende alla catastrofe. Anche Coleridge distingueva tra due modi del vedere, uno interiorizzato assolutamente positivo, e l’altro solo proteso all’esterno, glaciale e negativo19.

F. – In una opera dedicata all’immagine, il fatto che sia stata data un’importanza così rilevante allo sguardo e all’occhio, mi sembra giustissimo. Tra l’altro, in occhio, c’è dentro ancora io. Nella storia dell’iconografia c’è una tematica sulla rappresentazione dell’occhio doppio. L’occhio che guarda fuori e l’occhio che guarda verso l’interno. Lo trovi dappertutto, perfino in Notturno di D’Annunzio, quando ferito e con l’occhio bendato, dice che ha un occhio che guarda il mondo esterno e l’altro che gli brucia e vede il deserto. La tematica del doppio occhio è fondata su basi solide.
Per le immagini di questo libro, ma ancora di più per Capriccio italiano, si è parlato spesso di onirismo.

G. – Ho l’impressione che onirismo sia un termine che ormai non ci basta più. Quando Sanguineti parla di sogni, è assai cauto e fa molte distinzioni20. Certo, in un primo momento, aveva bisogno di far passare le sue immagini dada e pop. In realtà qui abbiamo una scrittura estremamente controllata. Il sogno non c’entra per niente.

F. – Nella risposta a Calvino su Ulisse, parla delle «intermittenze oniriche del cuore»21.

G. – Quella è l’intermittenza di chi ha la capacità di inventare, di creare opere, testi. Ed è onirica in quanto non razionale, non raziocinante o logica, evade dagli strumenti normali del discorso. È quel che succede per qualsiasi opera d’arte.

F. – Come dice molto bene Deleuze, è l’introduzione della procedura del sogno nel giorno. È il sogno a occhi aperti.

G. – Che vuol dire creare. È la forza dell’invenzione. Pensa alle tre stupende pagine su Marilyn Monroe, la IV, la XXXIV e la LXXXIII. Sono composizioni, non saprei come altro chiamarle, dove gli elementi accumunati insieme ti fanno perdere di vista la linearità della scrittura. Nella IV, ti trovi messo a confronto contemporaneamente con l’erotismo e il destino tragico: «Ma sta per gettarsi in acqua, nuda […] l’hanno messa dentro a una scatola a galleggiare, ma non ha più la testa […] ci sono delle linee tratteggiate sopra la scatola. Ci sono anche una coppia di labbra, in verticale». La dimensione fantastica, o se vogliamo la dimensione pop, introduce una spinta si direbbe quasi liberatoria. Più le immagini si allontanano da quel pezzo di realtà evocato dal nome proprio, più sono improbabili e irreali e più sono portatrici di senso. «Quando una linea ha inquadrato una coppia di labbra, quando le ha segnate in profondità, è una linea stanca. Esce dalla scatola, va sopra una coscia di Marilyn, la attraversa tutta». L’invenzione di un oggetto inesistente garantisce una distanza, un distacco dalle emozioni, ma contemporaneamente è proprio quella distanza che viene usata per recuperare le emozioni. Tutto si mescola con «le schiume» dell’acqua, «riflessi» che alla fine «diventano uno specchio rotto […] sono frammenti che ballano, schegge». C’è una calibratura rigorosissima degli elementi, e insieme delicatissima.

F. – Sta descrivendo una poesia visiva. Forse dei collage, un Rotella. Ti leggo questa: «Tutta la testa è come un fiore, così a colori, attorno al fiore vero che sta nei capelli in testa alla donna nel copricapo col nastrino nero, che le taglia anche il collo, alla donna». Insomma, questa è l’Olympia di Manet, ed è l’Olympia vista probabilmente in un catalogo.

G. – Quando cita dai quadri – possiamo parlare di citazioni anche per i quadri, come ha citato dal Faust di Goethe – non cita per intero, ne coglie solo un dettaglio, un particolare, ti dà uno scorcio. Può sfuggirti, ma se l’acchiappi e l’indovini, ti si apre il mondo.
Passiamo al nuovo romanzo di Sanguineti, L’orologio astronomico.

F. – Nell’intervista con Gambaro aveva sostenuto che non avrebbe mai scritto il terzo romanzo: «Ho sempre sognato di fare una sorta di trilogia, e d’altra parte, il Giuoco dell’Oca era un testo molto programmato e pensato come secondo tempo di una possibile trilogia». L’intervista è del 1993. «In seguito ho continuato a pensare a un terzo romanzo, ma poi non l’ho neanche iniziato […] il terzo romanzo resta una specie di mito personale che coltivo, che non ho mai abbandonato, ma al quale invecchiando credo sempre di meno. Va detto però che subii una certa frustrazione per l’accoglienza che ricevette Il giuoco dell’Oca»22. Dunque, è un’idea che si è portata dietro, ci ha pensato sempre e poi gli si è attivata all’improvviso davanti all’orologio di Strasburgo, perché in quell’orologio ha riconosciuto una specie di straordinaria matrice narrativa e labirintica. In tutti i racconti il senso viene dalla fine, come ci insegna la famosa battuta di Cechov: se pianto un chiodo al primo atto, è perché mi ci devo impiccare al terzo. Nella narratività, vale il post hoc propter hoc. L’ultima frase del capitolo 49 è: «Così spiegherò il mondo», che si riallaccia all’idea: ‘il mondo è un labirinto’, ‘non devo rispondere del labirinto del mondo’, ecc. Qui, finalmente, trova il modo di spiegarlo: «Il modello di base, per Arecibo e Chibolton, è l’orologio di Strasburgo. Il suo schema, anzi, è esattamente la fonte di Chibolton, che corregge Arecibo». Arecibo è l’Osservatorio che ha lanciato nello spazio un messaggio per gli extraterrestri. Chibolton è la località nell’Hampshire, dove si troverebbe il crop circle, cioè un disegno a scala gigantesca su un campo di grano, che sarebbe la risposta inviata da qualche misteriosa entità ad Arecibo.
Ho cercato le fonti visive, per capire il senso. Nella scelta delle diverse fonti, dobbiamo valorizzarne alcune rispetto ad altre. Alcune servono come iconologia disponibile, di cui Sanguineti dice scherzando che bisogna analizzarla narrativamente – e abbiamo così il «comportamentismo iconografico» dove l’icona viene trasformata in un comportamento reale. Altre fonti, invece (di natura visiva, figurale), sono particolarmente pertinenti. I videogiochi, Pacman, Magic Carpet, ecc., che abbiamo trovato sul web23 con Giovanni [Anceschi], sono le fonti che gli servono per una riflessione costante sulla questione del labirinto.
E qui faccio una breve digressione sulla definizione di labirinto quale ce la suggerisce Michel Serres: il labirinto non è una costruzione preliminare, ma un grafo costruito da un percorso24. Quello che ci compete qui, è il labirinto che si costruisce come racconto o, se si vuole, come testo che costruisce il labirinto nel suo farsi. Il testo fa labirinto. E Sanguineti questa volta lo percorre nella visualità contemporanea. Non più il visivo (Pop) degli anni ’60. Ma con grande coraggio, fa una «conversione», cioè si converte a un’iconologia nuova, che è quella dei videogiochi. Oppure è l’iconologia dei crop circle. I crop circle sono una specie di scrittura siderale e misteriosa, è un’iconologia di pittogrammi. Non è più una visualità iconologica, ma è pittogrammatica. Sono pixel, nel senso forte di pictorial element. Naturalmente potrebbe essere prodotta – e sicuramente lo è – da falsari.
Spieghiamoci meglio: il messaggio inviato agli extra-terrestri, progettato da Frank Drake, direttore dell’Osservatorio di Arecibo, è uno schema consistente di 73 righe composte da 23 punti in banda. Il messaggio in sé fornisce informazioni su dove ci troviamo, a cosa assomigliamo, il telescopio usato per inviare il messaggio, la nostra struttura biologica, il DNA. La presunta risposta a questo messaggio, cioè il disegno apparso come crop circle nel campo davanti al radiotelescopio SETI di Chibolton, gli somiglia molto: al posto del telescopio c’è una sonda spaziale con pannelli solari, il diagramma del nostro sistema solare è sostituito con un altro dove compaiono nuovi e diversi pianeti, l’immagine dell’essere umano è sostituita da una figura umanoide con la testa più grossa. Uno scherzo? Un contact alla Carl Sagan (che peraltro figura come coautore dello schema di Arecibo)25?
Adesso rileggiamo Sanguineti: «Il modello di base, per Arecibo e Chibolton, è l’orologio di Strasburgo. Il suo schema, anzi, è esattamente la fonte di Chibolton, che corregge Arecibo». L’orologio di Strasburgo ha sempre suscitato esegesi alchemiche e Sanguineti in fondo si inserisce in una tradizione interpretativa di questo genere. A lui sembra un modello per il mondo, uno schema cosmologico. Cosa troviamo alla fine di questa lunga peregrinazione? Di nuovo il parallelismo calviniano, perché questa «spiegazione del mondo» sembra davvero una cosmicomica, una cosmicomica gigante. Articolata, però, in modi del tutto diversi, impensabili, con un’altra forma di ironia.

G. – Stupefacente. Devo dirti che io non avevo visto né presupposto tutto questo. Solo la ricerca delle fonti fa emergere l’evidenza dell’operazione. È cosmicomica in rapporto ai grafi citati. Se posso riassumere: in Calvino, la narrazione è occasionata da un’immagine, ma ne rimane indipendente; il racconto esiste di per sé. In Sanguineti l’immagine resta dentro, continua a lavorare dall’interno della frase che la cita, rimane come terreno soggiacente da approfondire oppure no, ma tenuta incriptata dentro. È questa la novità che quarant’anni fa era impossibile recepire nel Giuoco dell’Oca: il lavoro occulto delle immagini. Il senso corre in superficie e su vari livelli in profondità, il che è vero per tutte le opere, anche per quelle esclusivamente verbali, ma quello che dobbiamo imparare a conoscere è la profondità di un’immagine.

F. – Una seconda osservazione. Nell’Orologio astronomico, è particolarmente accentuata la strategia dell’enunciazione. Penso ai vari forse, è probabile, sembra che, credo, ma non lo so. L’enunciato viene costantemente modulato da un “qui lo dico e qui lo nego”. C’è una ragazza, sì, ma può essere anche un ragazzo, e così via. È il racconto del ‘potrebbe essere’. Mentre il racconto tradizionale è tutto costruito sull’idea che c’è l’identità del personaggio, il quale percorre una sua evoluzione, qui l’enunciazione è un enorme lavoro di modulazione e di modalizzazione della narrativa. Per farlo, Sanguineti ha bisogno di convocare parecchie persone, alcune le convoca nell’enunciato: scrive delle lettere, cara L., caro R., chiedendo consigli e conferme su che cosa è e come va la storia. In altri casi, si preoccupa dell’interlocutore immaginario, un generico “tu”: dimmi tu, cosa ti sembra, che è di nuovo un tentativo di convocare all’interno della storia il lettore, per fargli prendere posizione, aiutare, precisare i dubbi, ecc. Un ultimo punto per il rapporto con Calvino. Quando ho letto la storia della bara, della barca, della botte con il saltimbanco montato sopra, mi sono chiesto, qual è il maschile di bara?

G. – Baro.

F. – Nell’Orologio astronomico c’è il baro: è il personaggio chiamato T., che invia strani oggetti, è stato in America Latina, manda a tutti delle fotografie, fa i giochi. C’è all’interno della storia un baro che bara sulla storia. Ecco perché la storia non è decidibile. In Se una notte d’inverno un viaggiatore, tutta la struttura degli incipit che si interrompono nasce da una storia di Ermes di Marana, che ha viaggiato per tutto il Sud America – come ha fatto T. -, sta a Cerro Negro ed è un falsario. Anche T. ha l’aria di essere un falsario. L’interessante è che nei giochi il baro è fondamentale. Un gioco può essere giocato onestamente o barando. Ho l’impressione che dentro la bara, ci sia il baro.

G. – L’Hans Liederlich della tessera X, il dissoluto che dà il via alla rappresentazione potrebbe essere una figura di baro. Il trickster.

F. – Sono tutti giochi col trikster, che è una figura mitologica. Siccome lui scrive giuochi, evidentemente è il baro. E la bara diventa fondamentale. Il gioco del significante è un campo fondamentale, e T., traduttore e traditore, è il suo alter et ipse ego. Lui costruisce i giochi e l’altro bara. Un io gioco e un io baro. Ioio. Ossola parla con ammirazione del saggio di Sanguineti su Palomar e Ulisse, apparso su Il chierico organico: un dialogo e una polemica, che è «una delle pagine più nobili della nostra lettteratura». Questo dialogo però va ricostruito dettagliatamente dai testi: disimplicato e rifigurato, come scrive Ricoeur. I nostri critici però hanno orecchie da cruscante; solo per la tradizione, per il canone letterario. Mentre dovrebbero avere occhi per le immagini, quelle di una nuova iconografia radicalmente contemporanea. Mentre Calvino si serve di un’iconologia canonica, Carpaccio, i Tarocchi del Mantegna (ma per la verità anche dei fumetti) per scrivere la propria autobiografia, Sanguineti cerca, nel diluvio odierno delle immagini, un diagramma che gli serva a orientarsi nel labirinto del mondo. Otto anni dopo l’intervista a Gambaro decide di completare il suo trittico in seguito all’incontro con la macchina di Strasburgo che è un teatro cosmologico ed esistenziale del tempo. E con i videogame che qualcuno ha definito una forma simbolica – nel senso di Panofski – della post-modernità.
La scrittura che deve esprimere questo diagramma iconico è simile al crop circle. È scrittura labirintica, vicina alla scienza e alla natura, e un messaggio siderale.

G. – Questa scrittura nuova di Sanguineti, leggera, fluida e allo stesso tempo ingarbugliata, ha come un movimento interno di andata e ritorno, viene a lambire il lettore con una storia, e poi si ritrae e gliela toglie, cancella tutto, per poi riprendere di nuovo, lasciando ogni volta tracce – non decidibili, come dicevi tu – che costituiscono di fatto la pregnanza e la seduzione della scrittura letteraria. Mi ha fatto venire in mente il lituraterre di Lacan, il termine che sommava la contiguità di littoral e literal, di lier e di lire e il surrealista litura. Una definizione di scrittura che gli era venuta guardando dall’aereo «la pianura siberiana solcata, scavata dalle acque piovane», con la linea dei rivoli, occasionale, mobile, legata ai mutamenti atmosferici. Ne ha parlato con grande acutezza e partecipazione Giuliano Gramigna sul “verri”, n. 12, 2000, 5-18: «Litorale disegna un fascio di linee ondulate, traccia-cancellatura [litura] dello spostamento reciproco di confine fra terra e acqua, sulla spiaggia». O forse, potremmo anche dire semplicemente che le oscillazioni della storia sono ribattute nel modo di scrivere la storia.

F. – Una scrittura sull’erba, o sulle messi di grano. Come si usa dire per le fotografie, ferma ma mossa e solarizzata. Per fare degli esempi: mi pare… come sai… dico di solito… e forse… Tanto per dire… mettiamo… Chiamerà… per quel che so, e ovviamente quel pochissimo che ricordo… suppongo… è affar tuo… sono divagazioni… è quasi un’allegoria, no? Barthes dice che gli piace molto la parola “quasi”, perché è una parola affettiva. L’approssimazione dà spazio, consente l’agio. La scrittura di Sanguineti si dà gioco: credo… tanto per dire… non so… l’avranno forse… io lo chiamo così… metti che… Potrei… poniamo… per darti un’idea… lo saprai… mi pare… Tu immagina… In termini gergali semiotici, è l’isotopia – la ridondanza semantica – della modalizzazione discorsiva: il giudizio soggettivo di probabilità e la possibilità degli eventi del mondo. E ancora, non so essere sintetico… non so più bene… non so più quanti… non lo so… non so come arrivarci sui due piedi. Se dovessi dire qual è l’espressione più frequente dell’Orologio, direi che è proprio non so. Questo rende tanto più rilevante l’enunciato finale, quando il soggetto dell’enunciazione dice con decisione, “così spiego il mondo”.

G. – Ci spiega come scrive: «Forse non ti ho ancora confessato che scrivo così, a caso, come viene viene, e che non correggo niente, mai. Si capisce subito? Meglio così, sono contento. Scrivo male apposta, se questo è scrivere male. Ma questo scrivere male mi dà una grande libertà, e mi permette di passare da una cosa all’altra, alla velocità che mi piace» (capitolo 9). Risuona il famoso «sapere bene come scrivere male», solo l’accenno alla «velocità» in quanto dichiarazione di poetica è nuovo. Ma non è nuovo come prassi. Nel Giuoco dell’Oca, la velocità con cui vengono effettuati i passaggi, le associazioni, i collegamenti, le sovrapposizioni, è così fulminea che sei costretto a rinnovarti i tuoi abiti mentali. Leggendolo, ti accorgi che ti sta costruendo dentro delle sensibilizzazioni, sei sottoposto a un allenamento. Ti senti inadeguato, lento, non sei mai sicuro se quello che vedi mentre leggi sia veramente scritto lì, nelle righe, ma poi ti rinsaldi e alla pluralizzazione finale dell’io, ci vai sicuro. Questa imposizione di velocità potrebbe essere uno dei motivi per cui non puoi leggere molte pagine di seguito. Ti scontri anche con una difficoltà a memorizzare.

F. – Cruciale. Di solito il racconto, assicurando la coesione narrativa, cioè la coerenza sintattica e semantica, stabilizza la memorizzazione. Invece Sanguineti ci costringe continuamente a giocare; schiva il lettore senza sosta proponendo: “buttiamo via il foglio precedente”, perché vuol rompere con l’accumulazione del ricordo. Il racconto non è solo costruzione della memoria, può anche essere un modo per organizzare attivamente l’oblio.

G. – Dice qualcosa sull’iconologia che può aiutarci a capire il Giuoco dell’Oca. Prima di tutto, ne mette in rilievo l’aspetto inquietante: attorno alle immagini si aprono le catene dei perché (perché quella lì ha un bicchiere? Perché lo regge così?… Ma è vino? Che vino è?), con il loro inevitabile contributo di ossessione. «Sono allegorie indecifrabili. Ti rovina l’esistenza, l’iconologia», è la conclusione cui arriva al capitolo 31. Al capitolo 33 riprende il discorso – di mezzo c’è l’episodio del ‘comportamentismo iconografico’ – e svela finalmente cosa c’è di straordinario nell’icona: «Perché credi che si legge una mano, per capire che destino ti tieni? perché lì ci sta scritto un discorso che non finisce più». L’icona è portatrice di un discorso infinito, capace di suscitare continue parole che la indagano, in un inesauribile rinnovamento. Nel Giuoco dell’Oca, Sanguineti ha aderito alla visualità dell’icona in modo radicale, eliminando ogni traccia di fluenza discorsiva, di ‘discorso sull’icona’; ha lavorato nella certezza di un’insostituibile evidenza delle immagini, che avrebbero aperto, loro, ogni possibile discorsività. L’icona chiama a sé la parola, perché chiede di essere letta. Ma la parola non potrà mai esaurire l’icona.

F. – Non abbiamo parlato delle conversioni. «Tutta la storia delle mie conversioni. Perché, vedi, io continuo a chiamarle così». L’io molteplice che racconta ne segnala tre: «T. avrebbe pubblicato di recente tre volumetti, sotto tre falsi nomi. I falsi nomi non sono indicati. È indicato soltanto l’argomento dei tre libretti. Il primo libretto sarebbe un catalogo degli orologi astronomici che si trovano in Europa. […] il secondo volumetto sarebbe un censimento dei videogiochi che si sono prodotti nel mondo dalle origini al 2000 compreso […] il terzo stampato è una rassegna degli studi iconologici più significativi che sono reperibili alla Nazionale di Firenze […] La cosa mi ha divertito, dapprima. Ecco, mi sono detto, la storia delle mie conversioni» (capitolo 46). Tre conversioni orientate, dagli orologi al videogioco e infine all’iconologia, e che vengono raccontate da T., il baro.

G. – Vorrei farti adesso la domanda che avevo preparata come prima. Nel Giuoco dell’Oca le icone sono solo quelle che la parola fa scattare nella mente del lettore. I disegni che Baruchello ha fatto per la prima edizione, sono la sua concezione-traduzione di lettore. Nel convegno su Foucault che hai organizzato a Venezia, tre mesi fa26, il rapporto tra la parola e la figura veniva spesso toccato dai vari relatori: c’era la relazione sulle immagini usate dai Gesuiti per le pratiche di meditazione, c’era la bella relazione di Valenti sulle Meninas di Velasquez. Era emersa anche la questione delle immagini del sogno che esistono solo nella misura in cui esiste la parola che le dice. Le icone di Sanguineti condividono col sogno il fatto di esistere solo attraverso la parola. Puoi dirmi qualcosa su questo rapporto tra la parola e la figura?

F. – L’esplicitazione che si tratta di pittogrammi dovrebbe rispondere a questa esigenza. La schematizzazione che ti consente la parola quando tenta di riprodurre il diagrammatico che è nell’immagine. La parola ha una sua visibilità: alto/basso, grande/piccolo, li puoi ottenere attraverso i mezzi dell’accrescitivo e del diminutivo; statico/dinamico attaverso una differenza tra un verbo al passivo o un verbo all’attivo. Perché separarle, la parola e l’immagine? Bisognerebbe valorizzare invece gli aspetti di visualità intrinseca della lingua, e tutte le possibilità di ekfrasis delle immagini. Ci interessano semmai i loro montaggi: Sanguineti scrive in geroglifici, incollando mozziconi di frase, frammenti di parola, numeri, sul cui effetto di senso sappiamo proprio poco.

G. – Dunque, avrebbe anche compiuto un’operazione di avanzamento impressionante del percorso della lingua…

F. – Ed è qui appunto che si segnala una resistenza e la si può esplorare. Diciamo pure che il Giuoco dell’Oca non ha avuto successo, con qualche eccezione, come quella di Renato Barilli che la trovava giustamente la più riuscita delle prose27. Ma gli “insuccessi” vanno studiati criticamente quanto i successi e con gli stessi metodi. Ci sono insuccessi di pubblico (worst sellers) che sono delle riuscite letterarie maggiori. La riuscita del Giuoco dell’Oca è commisurabile appunto alla resistenza suscitata, quando lo si accusava di scarsa capacità di comunicazione. Eppure adesso rileggendolo è diventato molto più trasparente, perché alcune delle sue novità sono state integrate dallo sviluppo letterario – sì, questa cosa esiste! – e del metalinguaggio interpretativo – nonostante il suo presente sconcerto. Insomma, l’insuccesso d’un’opera programmaticamente sperimentale è un problema di pubblico, ma soprattutto di critica. Le operazioni letterarie di rilievo, ed è il caso della prosa di Sanguineti, postulano un vero e proprio riciclaggio del discorso critico, la conversione dei suoi strumenti. Ci sono dei testi che sono dei test per la disponibilità o capacità di fuoriuscire dal paradigma critico. Un esempio: ritrovare nel Giuoco le citazioni di Goethe va benissimo: resta da spiegare l’effetto di senso che esse hanno nel sincretismo col materiale visivo. Come ho già detto, una critica storicista, filologica e “unimediale” era e sarà presa alla sprovvista.

G. – Non abbiamo parlato delle storie di sesso e dell’orgia. L’incontro con la «scorpioncella» è montato con le didascalie dell’oroscopo esibite con data, nome dell’astrologo e quotidiano che le stampa, materiale linguistico trattato alla Schwitters come carta da parati o pezzo di legno piazzato sul quadro. Mentre il «comportamentismo iconografico» è un fallimento erotico, negli altri incontri la riuscita è assicurata, e lo è altrettanto il godimento del lettore. Che cosa diverte di più? Accorgersi che l’effetto della storia erotica è ottenuto praticamente con niente? L’orgia è una sequenza di puntini di sospensione, e l’unico détail vèridique sono le «bende di cuoio», dizione vagamente patologica che trasforma il tutto in allegra comicità.

F. – Il libertinaggio orgiastico di Sanguineti, pardon, del suo delegato enunciativo, se la vede col sesso – l’orgia è anche un labirinto di corpi – ma è soprattutto un attante letterario. E si sa che divagazione è anche divertimento. D’altronde divertire vuol dire anche prendere un’altra direzione. E, talora, sbagliare: è il doppio senso religioso e sensuale della Caduta.
Ma poiché chute in francese vuol dire anche chiusa narrativa, potremmo fermarci qui, alla frontiera dell’Eros e del Minne28, delle orge e dell’amor cortese. Il semiologo che sono io non ti tornerà utile per proseguire su questa isotopia.


Note

Il giuoco dell’Oca apparve nel 1967 presso l’editore Feltrinelli. L’orologio astronomico è stato pubblicato a Strasburgo nel 2001, per l’iniziativa dell’Istituto Italiano di Cultura, che ne ha pubblicato anche la traduzione francese, L’horloge astronomique, 2002, a cura di J. Thibaudeau. torna al rimando a questa nota
  1. G. Guglielmi, Il romanzo di Sanguineti [1993], in Id., La prosa italiana del Novecento II. Tra romanzo e racconto, Einaudi, Torino 1998, 174-180. torna al rimando a questa nota
  2. J. Baudrillard, La società dei consumi, il Mulino, Bologna 1974. torna al rimando a questa nota
  3. E. Sanguineti, Rebus 23, in Bisbidis, Feltrinelli, Milano 1987, 62-63. torna al rimando a questa nota
  4. Si tratta di Cataletto 13. Il testo è qui riportato per intero a pagina 90-91. torna al rimando a questa nota
  5. «Sanguineti compie esperimenti in una nuova direzione: lavora su segni, inscrizioni, carte da gioco. (E se ne ricorderà Calvino che per altro si porrà il problema del rapporto tra la sincronia del gioco e la diacronia della storia – tra struttura e storia)», in G. Guglielmi, Il romanzo di Sanguineti, cit., 179. torna al rimando a questa nota
  6. «L’idea di usare i tarocchi come macchina narrativa combinatoria mi è venuta da Paolo Fabbri che in un seminario internazionale sul futuro del racconto nel luglio ’68 a Urbino tenne una relazione sul racconto della cartomanzia e il linguaggio degli emblemi», I. Calvino nella Postfazione a Id., Il castello dei destini incrociati, Einaudi, Torino 1973. torna al rimando a questa nota
  7. I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio [1988], Mondadori, Milano 1993, 105. torna al rimando a questa nota
  8. F. Gambaro, Colloquio con Edoardo Sanguineti. Quarant’anni di cultura italiana attraverso i ricordi di un poeta intellettuale, Anabasi, Milano 1993, 91. torna al rimando a questa nota
  9. Ivi, 55. torna al rimando a questa nota
  10. T. Wlassics, Edoardo Sanguineti, in Letteratura italiana. I contemporanei, Marzorati, Milano 1974. torna al rimando a questa nota
  11. G. Deleuze, L’image-mouvement et L’image-temps, Ed. de Minuit, 2 tomi, Paris 1983 et 1985. torna al rimando a questa nota
  12. «Poi c’è ioio. Sono un io e un io, veramente, legati insieme così, con due teste di neonati che ridono insieme, dentro o e o». È nella tessera LX, che comincia così: «Quella bagnante è sulla sabbia, con i suoi due pezzi, tutta accovacciata tre volte sotto un terrazzino basso, in un’estate di successi». L’espressione assurda «accovacciata tre volte» introduce alla pluralizzazione dell’io che abbiamo quattro righe sotto, «io seduto tre volte sopra tre alti sgabelli da bar». torna al rimando a questa nota
  13. F. Gambaro, Colloquio con Edoardo Sanguineti, cit., 80-81. torna al rimando a questa nota
  14. «Io sono come un grosso carciofo rotondo, che si può dividere in tutte le sue foglie, come per bagnarle nell’olio, per mangiarle». torna al rimando a questa nota
  15. Cigola la carrucola nel pozzo, in E. Montale, Gli ossi di seppia [1925], Mondadori, Milano 1991. torna al rimando a questa nota
  16. N. Lorenzini, Introduzione. Il Faust di Sanguineti: la parola all’inferno, in E. Sanguineti, Faust. Un travestimento, Carocci, Roma 2003, 9. torna al rimando a questa nota
  17. G. Deleuze, Mille plateaux, Ed. de Minuit, Paris 1980. torna al rimando a questa nota
  18. T. Wlassics, Edoardo Sanguineti, cit. torna al rimando a questa nota
  19. Vedi M. Graffi, Il linguaggio dell’occhio di Coleridge vs. il dispositivo dell’occhio empirico, in “Testuale”, 1986, 6, 20-31. torna al rimando a questa nota
  20. F. Gambaro, Colloquio con Edoardo Sanguineti, cit., 84: «Per me, in più, il sogno era un modo fecondo per accedere al reale stesso: attraverso lo straniamento del sogno o attraverso una maniera onirica di raffigurare personaggi ed eventi, il mondo emotivo otteneva effetti di intensificazione straordinaria». torna al rimando a questa nota
  21. E. Sanguineti, Palomar e Ulisse, in Id., Il chierico organico, Feltrinelli, Milano 1988, 270-281:281. torna al rimando a questa nota
  22. F. Gambaro, Colloquio con Edoardo Sanguineti, cit., 86. torna al rimando a questa nota
  23. [http://www.zeitenblicke.historicum.net/2003/01/pias/abb19.html] torna al rimando a questa nota
  24. M. Serres, Les carrefours du labyrinthe, Seuil, Paris 1978. Id., Chemins de sagesse, traité du labyrinthe, Fayard, Paris 1996. torna al rimando a questa nota
  25. C. Sagan, Contact, Simon and Schuster, Londra 1985. torna al rimando a questa nota
  26. Michel Foucault: semiotica del visibile, Venezia, 30-31 maggio 2005. torna al rimando a questa nota
  27. R. Barilli, La neoavanguardia italiana, il Mulino, Bologna 1995. torna al rimando a questa nota
  28. «Eros e Minne» è la misteriosa scritta che compare una sola volta verso la fine del libro. torna al rimando a questa nota
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