Articolo di Roberto Bertinetti, Il Messaggero, 14 Marzo 2003.
Buon amico di Italo Calvino, che gli fu debitore dell’idea dalla quale ebbe origine Il castello dei destini incrociati, il semiologo Paolo Fabbri scruta e analizza il presente utilizzando soprattutto l’arguzia e l’ironia. La sintesi del suo pensiero sulle turbolenze contemporanee ha la forma di un insolito dizionario in uscita da Guaraldi (Segni del tempo, 202 pagine, 15 euro), un lessico, definito senza mezzi termini “politicamente scorretto”, che comprende un’ottantina di voci catalogate in ordine alfabetico, scelte per dar conto dei movimenti tellurici in atto nella società di cui si trova un’evidente traccia nella lingua. Studioso di larga esperienza internazionale ora al Dams di Bologna dopo essere stato docente in Francia, in Canada e negli Usa, presidente dell’Istituto del pensiero contemporaneo con sede a Parigi, Paolo Fabbri si dice certo che i continui slittamenti di significato delle parole fanno da specchio a fenomeni di portata più generale. “Le parole ci influenzano, condizionano il nostro modo di pensare e comunicare, plasmano il rapporto con la realtà che ci circonda”, spiega. E quindi aggiunge che la lingua “non è un sistema con regole immutabili, ma un organismo vivente, in continua evoluzione”.
È per questo che non le piacciono i difensori della correttezza politica in ambito linguistico?
“Certo, perché il loro obiettivo mi sembra quello di assegnare significati definitivi alle parole, eliminando alla radice ogni possibile conflitto. Si tratta di persone quasi sempre di buona volontà, spesso di sinistra, con un’idea abbastanza elementare e schematica della complessità in cui siamo immersi. Io, invece, sono convinto che le parole ultime non esistono, che il loro senso cambia continuamente in stretto rapporto con quanto avviene nel mondo. La presunta correttezza politica è un modo per anestetizzare i conflitti in atto, una sorta di sbiancamento dei significati che produce come unico risultato la cecità intellettuale. Chi teorizza e difende l’uso di un linguaggio politicamente corretto è un ingenuo, innamorato di vecchie utopie che non hanno più alcuna ragione di esistere”.
Il crollo del Muro di Berlino, insomma, ha modificato anche il significato delle parole?
“Gli avvenimenti del 1989 hanno contribuito in misura decisiva a spedire in soffitta moltissime parole. Tra quelle un tempo maggiormente diffuse citerei almeno “proletariato”, “lotta di classe”, “ideologia” e “alienazione”. La sconfitta del sistema comunista e l’avvento della globalizzazione economica ci hanno poi costretto a ridefinirne altre. L’esempio più clamoroso mi sembra “guerra”, che all’epoca dell’equilibrio del terrore tra le due superpotenze rappresentava un evento assai improbabile, mentre oggi costituisce una possibilità concreta. Senza contare l’impiego ormai massiccio nella lingua quotidiana di termini legati alla sfera bellica che testimonia quanto sia alta la tensione internazionale. Le riunioni delle ultime settimane del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sono state all’insegna di un continuo scontro verbale tra gli Usa e altri paesi occidentali sui testi delle risoluzioni. Non è un caso, penso, che la radice della parola “tattica” sia la stessa da cui deriva “sintassi”. Quest’ultima studia la posizione delle parole negli enunciati e le loro combinazioni, mentre la tattica tratta delle formazioni militari e delle loro manovre. Prima che sul campo, del resto, la guerra contemporanea si combatte attraverso i media, come dimostra l’importanza acquisita dai canali satellitari”.
Ha ragione chi ritiene che sia soprattutto la televisione a condizionare e modellare il linguaggio?
“Si tratta di un’ipotesi che non mi convince completamente. Senza dubbio la tv favorisce mutamenti assai significativi, anche se mi sembra che i meccanismi di fondo delle trasformazioni in atto siano più complessi. Volendo riassumere in maniera assai schematica quello che accade, direi che c’è un cambiamento spontaneo del modo di comunicare tra le persone che viene riflesso dai media e finisce poi per esercitare un’influenza profonda su un pubblico più vasto. Un caso tipico mi sembra quello francese, dove sono ormai entrate nell’uso quotidiano parole arabe. Qualcosa del genere accadrà presto anche in Italia, perché la lingua si modifica e si evolve mantenendosi in stretto rapporto con la composizione sociale e l’origine di chi parla. Le parole, del resto, non designano soltanto le cose, ma trasportano modelli di cultura. E il contatto con altre culture finisce sempre per esercitare un’influenza assai evidente sulle lingue”.
Non c’è, dunque, pericolo di finire colonizzati dall’inglese?
“Mi sembra un timore infondato. Certo, l’inglese rappresenta oggi la lingua veicolare di maggior successo, anche se non credo che in futuro riuscirà a inghiottire o sterminare le altre lingue come pensa qualche inguaribile apocalittico. Oggi parla in inglese circa l’otto per cento della popolazione del pianeta, ovvero una percentuale doppia rispetto all’arabo ma decisamente inferiore al cinese. Nessuno, credo, potrebbe seriamente sostenere l’ipotesi che tra qualche decennio, in Europa o negli Usa, saremo costretti a frequentare corsi di cinese per avere rapporti internazionali più facili sotto il profilo linguistico. Eppure, almeno dal punto di vista statistico, l’idea possiede un’indiscutibile dignità almeno teorica. In realtà gli studi dimostrano che l’impiego dell’inglese su scala planetaria va diminuendo. Se dieci anni fa era la lingua universale del Web, oggi il suo impiego è sceso sotto il cinquanta per cento, mentre sta aumentando l’uso del francese e dello spagnolo. Senza contare che non esiste più da tempo un unico inglese, ma si stanno affermando varietà dialettali autonome dall’Australia all’India, dall’Africa all’Asia, capaci di produrre persino altrettante letterature con precise caratteristiche. No, non vedo proprio all’orizzonte la lingua unica. Se dovessi riassumere con una metafora la nostra condizione linguistica attuale, farei ricorso all’idea della Torre di Babele, che per me rappresenta la vitale molteplicità dei linguaggi”.
Ma la Torre di Babele non è sinonimo di caos e, dunque, anche di totale incomunicabilità?
“Io considero la Torre di Babele un luogo dove si può vivere benissimo, perché si è continuamente costretti a tradurre la lingua e la cultura degli altri che la abitano per comprendere cosa vogliono dire, e anche per fare intendere loro con chiarezza il nostro punto di vista. Non sempre il confronto è pacifico, anzi all’interno della mia Torre di Babele ideale quasi sempre si litiga, ci si scontra in maniera aspra. Ma il conflitto, a patto che resti nell’ambito delle idee, è sempre salutare. Perché nel conflitto si è obbligati a conoscersi bene, mentre la pace sembra fatta apposta per potersi ignorare”.