Intervista con Gianfranco Marrone, Doppiozero, 7 ottobre 2014.
www.doppiozero.com/materiali/dialoghi/atrocita-strategiche-e-terrorismo-di-stato
Lo spettro della Cura Ludovico aleggia più che mai. L’antifrasi farmacologica che da decenni porta con sé – veleno e rimedio – non cessa di inquietare uomini e cose. Costretti dinnanzi a uno schermo che ci rimanda immagini ultraviolente, finiamo per diventare imbarazzanti vittime di generalizzato voyeurismo. Trovandoci nella curiosa condizione d’essere doppiamente costretti, proprio nel momento in cui qualcuno, infido, pretende di prendere in carico, attraverso il nostro corpo, la nostra anima. L’apologo di Arancia meccanica, per quanto irriverente possa apparire, torna utile per provare a comprendere un po’ meglio i meccanismi di senso che, velandosi, costituiscono la tragedia annunciata del cosiddetto Stato islamico e delle atroci strategie che, con calcolata maestria, sta da qualche tempo perseguendo. Facendo proseliti, posizionandosi sul mercato del terrorismo, e perseguendo soprattutto l’obiettivo istituzionale di autocostituirsi, appunto, come Stato nel senso più proprio del termine.
Ne parlo con Paolo Fabbri, da sempre attento osservatore delle forme del conflitto, delle logiche mediatiche e, soprattutto, della loro costante interrelazione. I media, ripete da tempo, non sono mezzi per rappresentare una guerra che esiste a prescindere da essi ma armi per portarla a compimento, con altrettanta determinazione e più subdola violenza.
Fra le molte cose che sono state dette su questi orribili video delle decapitazioni c’è l’idea della indicibilità dell’orrore, del silenzio attonito che tanta violenza procura. Eppure, probabilmente per contrappasso, sembra che non si parli d’altro…
Già, a me sembra evidente che questi video abbiano una funzione comunicativa assai vasta, e ad ampio raggio, costringendoci in qualche modo a parlarne, rilanciando volenti o nolenti la complessa stratificazione del loro messaggio. Da una parte, com’è stato giustamente detto, essi hanno valore propagandistico, si rivolgono agli islamici per fare proseliti, in qualsiasi parte del pianeta; d’altra parte, rispetto all’Occidente capitalistico, funzionano da strumenti ansiogeni, procurando, letteralmente, il terrore nei paesi cosiddetti civilizzati, cioè capitalisti. Ma mi pare che si possa individuare in essi un terzo obiettivo, nel senso precipuo del target cui si rivolgono: gli altri gruppi islamici legati in vario modo al terrorismo.
Recentemente è stato pubblicato un libro – di cui doppiozero ha parlato – che raccoglie i logo delle organizzazioni terroristiche del mondo, da cui emerge molto chiaramente come, fra le altre cose, ci sia in esse un’esigenza di branding: devono imporsi sul mercato delle ideologie, facendosi concorrenza reciproca.
Perfettamente d’accordo. Ricordo un libro di qualche decennio fa, Le strategie della fiducia, in cui il sociologo Diego Gambetta osservava come nella mafia siciliana ci fosse un problema di lotta fra le varie sotto-organizzazioni. Le quali, per imporsi nel mercato della protezione e dell’intimidazione, dovevano, e forse ancora devono, esibire ciascuna la propria specifica efferatezza, la loro carica intrinseca di potenziale ferocia. Vince chi dimostra di essere più violento. Con l’Isis sta succedendo molto probabilmente la medesima cosa. È come se ci fosse in questa organizzazione un problema di competizione con gli altri gruppi islamici armati, entro la quale, proprio per poter meglio fare proseliti e terrorizzare l’Occidente, occorre saper primeggiare. Possiamo immaginare che gran parte della spietatezza di questi signori sia una specie di voglia di mostrare i muscoli. La violenza deve, secondo loro, trasformarsi in spettacolo non solo per avere forza persuasiva, o dissuasiva, ma anche per fare marketing. Se tu uccidi e mandi le bombe-kamikaze, io decapito: così le mie minacce sono più credibili delle tue.
Il che provoca, fra l’altro, una reazione a catena. Più che di serialità, com’è stato ripetuto, in questa serie di video c’è un problema di mimesi: la decapitazione diviene una specie di modello di comunicazione terroristica efficace. Fa ribrezzo dirlo, ma rendersene conto è già una via per affrontare il problema.
Sì, anche perché, se questa ipotesi sta in piedi, possiamo aspettarci un’ulteriore escalation della violenza, per estensione e per intensità. È il caso di dire: ne vedremo delle belle. E non è humour nero, ma consapevolezza del pericolo.
Resta il fatto che l’Occidente, se pure per millenni ha esercitato tutta un’arte dell’atrocità in pubblico, adesso è attonito dinnanzi a questo genere di spettacoli che provengono da altre forme culturali, politiche e religiose…
Per entrare un po’ più nel merito, basta riprendere in mano quel classico, come tutti i classici, un po’ dimenticato, che è Sorvegliare e punire. In quel libro Foucault aveva chiarito molto bene come sino alla fine del Settecento, quando la Rivoluzione francese impone la ‘democratizzazione’ della pena attraverso la ghigliottina, “grado zero del supplizio”, secondo Daniel Arasse, fosse sempre stato in auge in Occidente quello che chiama lo ‘splendore dei supplizi’. Più grave era la colpa, più intensa la pena. Una logica dell’occhio per occhio che, per essere efficace, doveva diventare spettacolo, ossia oggetto di un godimento visivo, fortemente ritualizzato, per tutta la comunità. Le prime pagine del libro sono piene di descrizioni delle violenze atroci subite da un condannato, ancora a metà Settecento, dinanzi al popolo in festa. Foucault fa qui un’osservazione per noi decisiva: la ritualizzazione e la spettacolarizzazione della violenza della pena, attuata da un boia anonimo, servono a dimostrare il fatto che lo Stato è l’unico e solo proprietario dei corpi dei suoi sudditi. In altre parole, proprio per potersi costituire come Stato sovrano, deve mostrare e dimostrare di essere padrone dei corpi. Facendosene quel che vuole, esercitando su di essi tutto il sadismo possibile. Che è proprio ciò che fa l’Isis, non a caso autodenominatasi stato islamico! Così, non siamo di fronte a un gruppo terroristico come gli altri, magari solo un po’ più atroce, ma a qualcuno che vuole imporsi come vero e proprio Stato; e, per farlo, mette in atto esattamente le medesime tecniche, chiamiamole così, che gli stati europei utilizzavano sino a tutto il Settecento, e oltre. Da qui il loro potere sovrano sui corpi delle donne, dei bambini, dei prigionieri e quant’altro. Da cui l’ossimoro di cui sono portatori, terrorismo di stato, che è una forte novità.
In quelle atrocità, è come se ci guardassimo allo specchio, rivedendo il nostro passato nemmeno così remoto. Non ci sarebbe tanto, allora, un pudore nei confronti della violenza (che, invertendosi, diviene voyeurismo), ma una specie di tacito senso di colpa.
La cosa stupefacente è che i capi dell’Isis sembrano averlo perfettamente chiaro. Applicano quasi alla lettera uno ‘stile penale’, Foucault lo definiva proprio così, che a lungo è stato il nostro, come per mettercelo di fronte. Il che ridimensiona parecchio l’idea che loro sono cattivi e noi siamo buoni… In realtà, le cose sono un po’ più complesse: è la nostra storia che vediamo nei loro gesti. Non a caso, del resto, la vittima ha per loro una funzione di testimone, e sono testimoni,giornalisti, attivisti, le persone che decidono di ‘giustiziare’, costringendole a parlare inginocchiate dinnanzi alle telecamere. Mi ha colpito molto, in questo, la curiosa inversione cromatica che hanno messo in atto. È stato osservato che le vittime sono vestite dello stesso colore dei prigionieri di Guantanamo. Il che significa, a conti fatti, che le vittime dell’Isis prendono il posto dei loro sodali che l’Occidente tiene prigionieri, ma nascosti. È un curioso caso di camouflage: io uccido te, mostrandoti travestito da me, o meglio dal modo in cui tu travesti me, senza però mostrarmi in pubblico.
Quest’idea della testimonianza potrebbe essere generalizzata.
Infatti, a me pare che la funzione dello spettacolo della violenza atroce, o se si vuole lo splendore dei supplizi, sia proprio quello di chiamarci a testimoni. Noi non siamo semplici spettatori, più o meno inorriditi, di quei video. Piuttosto siamo chiamati a essere testimoni attivi di quanto sta accadendo in quella guerra detta santa. Da qui anche la funzione del discorso, del parlato. Nel video non c’è solo il coltello, ci sono delle parole. Diversamente dal boia tradizionale, che sta zitto, qui c’è uno che, per quanto incappucciato, parla, e parla tanto da farsi riconoscere come qualcuno con accento inglese. E poi qualche volta parla anche la vittima, la quale fa mostra di riconoscere la propria colpevolezza, ovvero, in poche parole, si confessa in pubblico. Esattamente come facevano i condannati portati al patibolo nella Francia sei e settecentesca. La confessione pubblica era un momento chiave del rituale del supplizio: il condannato, dice sempre Foucault, doveva essere l’araldo della propria stessa condanna. Ed eccola di nuovo, la confessione, con valore di testimonianza – più o meno falsa o forzata.
Più che spot pubblicitari, questi video riprendono allora gli stilemi del reality show, portandoli all’esasperazione. Nel reality il confessionale è figura topica. Ma qui, mi sembra, continua a dominare lo spettacolo del corpo offeso.
Potremmo affermare, non senza cinismo, che in un’epoca in un cui si proclama il ritorno del corpo, il recupero della somaticità, della sensorialità diffusa etc., non c’è solo il corpo glorioso del body building, della chirurgia estetica, del tatuaggio, dell’erotismo diffuso o della stessa dilagante pornografia. C’è anche lo splendore del supplizio, che oggi a noi procura un assoluto sgomento, ma che è da intendere come una specie di ritorno del rimosso. Occorre farsene una ragione, e rispondere per via culturale, intellettuale, filosofica. Altrimenti, possiamo profetizzare, da qui a poco saremo invasi da video pieni di atroci torture.