Antonioni esce dal cinema ed entra nella storia


Intervista con Lucia Ferrajoli, L’Eco di Bergamo, Martedì 22 Luglio 2008.


Alla National Gallery di Washington una rassegna sul regista
Il semiologo Fabbri: «Adesso è come un paesaggio del ‘600»

A quasi un anno dalla scomparsa l’America rende omaggio a Michelangelo Antonioni con una retrospettiva alla National Gallery of Art di Washington. Si intitola Antonioni: the Italian Treasures («Antonioni: i tesori italiani») e durerà fino al 24 agosto.
Ad Antonioni, che era un amante dell’arte, quest’omaggio alla Nation Gallery sarebbe molto piaciuto. Nel 2004 aveva girato un documentario, Lo sguardo di Michelangelo. II regista, ormai novantaduenne, entra in San Pietro in Vincoli, attraversa in silenzio la navata della chiesa immersa nella penombra, si siede di fronte al Mosè di Buonarroti. Nei quindici minuti che seguono, non una parola, solo lo sguardo turbato che percorre la statua, incrocia i suoi occhi, si insinua fra le pieghe del marmo.
L’insufficienza delle parole, il potere dello sguardo, l’incomunicabilità delle emozioni: la rassegna di Washington si ripromette di sviscerare i temi che hanno fatto grande il cinema del maestro ferrarese, dalle sue prime opere fino agli anni Sessanta, quelli del successo, della consacrazione con film come L’avventura e Blow-up, che gli valse la nomination all’Oscar per la regia, il soggetto e la sceneggiatura. Un viaggio lungo e affascinante che ora approda in un santuario dell’arte: ci aiuta a decifrarlo Paolo Fabbri, professore ordinario di Semiotica dell’arte all’Università di Venezia.

Professore, un museo come la National Gallery dedica una retrospettiva ad Antonioni. Un segno dei tempi?
«Del cinema come arte si dibatteva già agli inizi del Novecento, quando per primo ne parlò Ricciotto Canudo. Canudo era un pugliese, amico di Picasso, Braque, Apollinaire, e fu tra i primi a dire che il cinema era arte a pieno titolo, come la pittura o la letteratura. Oggi nelle università americane si assegnano più tesi di cinema che di letteratura. Senza contare che il cinema italiano ha dato molto alla letteratura, penso per esempio a Pasolini».
È caduto quindi il muro che separava cultura «alta» e cultura «bassa»?
«Non parlerei di separazione, ma di tensione. Oggi questa tensione s’è rilassata, il pubblico è disposto ad ammettere che esistono brutti romanzi e bei film. D’altra parte le Muse delle arti si tenevano per mano in girotondo, non stavano a distanza. Dobbiamo ammettere che Canudo aveva ragione: il cinema è entrato nel girotondo delle muse».
Ma il cinema di Antonioni non ha nulla di classico, è uno strappo rispetto al passato…
«Antonioni diceva che bisognava farla finita con le biciclette. È una frase solo in apparenza ermetica. Il riferimento era a Ladri di biciclette di De Sica e voleva dire che il neorealismo aveva fatto il suo tempo, che bisognava raccontare altro. E infatti Antonioni comincia a fare una cosa nuova: invece di seguire la storia, il plot, si avventura dove la storia non c’è più. Penso a Professione: reporter, dove la macchina da presa non inquadra la stanza dove viene ucciso Jack Nicholson, ma guarda fuori dalla finestra, in strada».
È curioso che a rendere omaggio ad Antonioni non sia però un museo come il MoMA, ma la National Gallery of Art di Washington, un tempio della classicità.
«In realtà il cinema è già stato superato dalla televisione e dai video. Oggi chi fa video cita il cinema, ma non lo fa. Per fare un video basta premere un bottone; il cinema, invece, è montaggio. Antonioni, come Fellini, appartiene a una generazione precedente all’avvento della tv e dei video. Portare i film di Antonioni in un museo significa storicizzare un’esperienza. Federico Zeri ha scritto che i film di Antonioni sono la continuazione dei paesaggi della storia dell’arte italiana. Come già Visconti prima di lui, Antonioni porta avanti la pittura di paesaggio esaltata nel Seicento dai Carracci, che gli americani conoscono bene: amano tutto quanto c’è fino a Tiepolo, poi saltano al Novecento. E riempiono questo buco con l’opera lirica».
Del resto Antonioni stesso amava dipingere.
«Sì, era molto portato per la pittura e il colore, ma ne faceva un uso assolutamente non scontato. Quando per la prima volta, con Deserto rosso, ha abbandonato il bianco e nero, ha cercato di usare il colore nel modo meno naturalistico possibile: ha tentato, ancora una volta, di “lasciare la bicicletta”. Antonioni va dove c’è una certa stimmung, come direbbero i tedeschi, un panorama intimo, emozionale».
La scena finale di Zabriskie Point, quando la protagonista sogna l’esplosione di una villa che rappresenta la società dei consumi, sembra uscita da un quadro della pop art.
«È un vero capolavoro. Eppure non racconta qualcosa di vero, ma uno stato d’animo, la rabbia sulle note sovversive dei Pink Floyd. Allo stesso tempo nei film di Antonioni c’è molto astrattismo. Blow-up ne è un manifesto: il progressivo ingrandimento di una fotografia per coglierne un particolare porta alla perdita di definizione, rende illeggibile l’immagine».
Antonioni è stato il maestro dell’incomunicabilità, dei silenzi, dell’assenza. Come si fa, in un museo, a raccontare l’incomunicabilità?
«Il cinema di Antonioni racconta soprattutto gli anni Sessanta e Settanta, quando l’Italia contadina diventa un Paese prevalentemente urbanizzato e borghese. Si affermano nuovi valori, come si vede bene nell’Eclisse, dove Alain Delon è un agente di borsa. Cambiano anche i rapporti umani, ci si ama e ci si lascia, perfino, in modo diverso. Ad Antonioni non interessava la stretta narratività, non gli interessava far vedere una faccia, ma lo stato d’animo dietro quella faccia. Ritorniamo al punto di prima, la storicizzazione: Antonioni è un riferimento imprescindibile non solo del nostro cinema, ma della nostra cultura, anche all’estero».
Dicevano che era un autore difficile, non popolare.
«Le racconto un aneddoto personale. Quand’ero direttore dell’Istituto italiano di cultura a Parigi ho incontrato Antonioni. Era il ’94, aveva già avuto l’ictus, non parlava e da diversi anni non girava più film. Insieme a sua moglie siamo andati a mangiare in una brasserie a Saint Germain des Près: quando è entrato l’hanno applaudito tutti, e lui era commosso. Fu un riconoscimento significativo: oggi la gente applaude le starlette, lì applaudivano un genio».

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