Tesina di Rebecca Gander e Paola Montini, Corso di Letteratura artistica, Anno Accademico 2004-2005.
Ora io ho sempre desiderato una vita tranquilla e regolata, in mezzo alle mie cose. Avviene in tal modo che trovandomi con Bertoletti, al caffè o in altro luogo, mentre lui parla di pittura, di esposizioni, di Biennali, di Quadriennali io, talvolta, dimentichi di ascoltarlo e guardandolo pensi che quell’uomo che mi parla ha cambiato casa solo due volte in più d’un quarto di secolo e che quei divani e quelle poltrone ove oggi egli si siede nella sua abitazione di Via Condotti sono probabilmente gli stessi sui quali, venticinque anni prima, si sedeva nella sua abitazione presso la via Nomentana e così, guardandolo, mi perdo in un dolce sognare e fantasticare, m’immagino di essere io quell’uomo, di essere io Bertoletti.(Memorie della mia vita, p. 32-33)
Abbiamo deciso di affrontare la nostra ricerca sul rapporto tra De Chirico e i mobili partendo con lo studio della sua vita, soprattutto basandoci sulla sua testimonianza diretta raccolta in Memorie della mia vita, per poi trovare un riscontro nel suo romanzo Ebdòmero (1929), in alcuni brani selezionati dalla raccolta Il meccanismo del pensiero (1985), e ovviamente nella sua opera pittorica.
La citazione che apre questa analisi fa chiaramente capire come De Chirico fosse ossessionato dai traslochi, dal continuo spostarsi e quindi dalla mancanza di una casa come punto di riferimento solido e sicuro; problema che ha espresso nei suoi quadri a partire dalla metà circa degli anni ’20 nella serie Mobili nella valle e nei vari quadri di interni con mobili e paesaggi esterni che ha caratterizzato tutta la sua esistenza.
L’infanzia
De Chirico nacque a Volos, in Tessaglia, nel 1888 e in Grecia trascorse tutta la sua infanzia e buona parte dell’adolescenza, fino al 1906, anno in cui tornò in Italia con la madre ed il fratello Savinio, un anno dopo la morte del padre.
Sono anni questi di frequenti traslochi a causa del lavoro del padre, ingegnere ferroviario, che segnano profondamente il giovane De Chirico. Come lui stesso ricorda:
Si cambiava spesso casa in Grecia; ogni due anni circa avveniva lo sgombero; è una fatalità della mia vita quella di cambiare sempre abitazione.(Memorie della mia vita, p. 46-47)
Una frase che ci ha particolarmente colpito dalle memorie del pittore è quella che dà inizio al libro:
Il più lontano ricordo che io abbia della mia vita è il ricordo di una camera grande e alta di soffitto. Era di sera, in quella camera buia e triste; le lampade a petrolio stavano accese e coperte dal paralume. Ricordo mia madre in una poltrona…(p. 23)
Inoltre un altro fatto curioso e relativo agli spostamenti in Grecia è che De Chirico si ricorda spesso il nome del proprietario della nuova abitazione presso cui di volta in volta andavano da abitare, la sua locazione e descrive a noi lettori cosa vedeva dalla finestra.
Reminiscenze di questo tipo le possiamo trovare in due quadri: Mistero e melanconia di una strada e L’angoscia della partenza, del 1914.
In entrambi i dipinti infatti si vede un furgone, simile a quelli utilizzati per il trasporto del mobilio, con la differenza che nel primo quadro esso è aperto e vuoto, mentre ne L’angoscia della partenza il furgone è ormai chiuso perché probabilmente, come suggerisce il titolo stesso, la partenza è imminente.
In Mistero e melanconia di una strada si vede inoltre una bambina che gioca con un cerchio e che sembra andare nella direzione del furgone. Il cassone aperto e vuoto potrebbe indicare i due momenti estremi dello spostamento: i preparativi da cominciare oppure la fine della nuova sistemazione.
I frequenti spostamenti non si limitarono però alla sola infanzia.
Monaco, Milano, Firenze, Ferrara, Roma, Parigi, New York sono alcune delle città in cui De Chirico soggiornò più o meno a lungo nel corso della sua esistenza. Non sempre i cambiamenti si rivelarono semplici e immediati; al contrario essi comportarono diversi problemi, come lui stesso ricorda:
Dopo un interminabile viaggio in tradotta arrivai alla Città Eterna; ma là sorse un altro problema, il problema dell’alloggio, problema che del resto mi ha assillato più volte della vita e continua tutt’ora ad assillarmi.(Memorie della mia vita, p. 109)
Poi mi è spesso capitato che quando, dopo molti mesi, a volte anni, che ho dovuto lavorare per far capire al barbiere il mio desiderio e che sono finalmente riuscito a farmi tagliare i capelli senza, alla fine, la proposta della frizione, devo partire, cambiare casa o città, o addirittura Paese, e così, nella nuova residenza, mi tocca ricominciare tutto da capo. Ora per esempio a Roma, sto educando in questo senso un barbiere di via Veneto; vedremo se quando egli avrà capito finalmente che non voglio la frizione potrò godere tranquillamente il frutto della mia ostinata fatica.(Memorie della mia vita, p. 51)
Quello che aveva molto aumentato il mio male era anche il viaggiare ed il passare da un albergo all’altro; il fatto di avere un casa, di poter mangiare in casa, di poter stare un po’ tranquillo, era già una buona medicina per me.(Memorie della mia vita, p. 84)
Mobili all’esterno
Importante in De Chirico è il tema dei mobili che deriva, come abbiamo visto, sia dai numerosi traslochi, sia anche dal ricordo infantile di mobili e materassi portati all’esterno delle abitazioni, nella piazza, a causa di una serie di terremoti che sconvolsero la Grecia.
Ecco come lui stesso ricorda quegli episodi:
Gli abitanti del quartiere, compresi noi, portavano i materassi fuori, in piazza, per dormire all’aperto. Anche in quell’occasione il cuoco Nicola si prodigò in mille modi; portava fuori materassi, valigie e perfino alcuni mobili e la mattina riportava tutto in casa; inoltre si occupava di me e di mio fratello come una vera bambinaia.(Memorie della mia vita, p. 27-28)
Episodio ripreso anche in Ebdòmero:
… tutti gli abitanti del quartiere che passan la notte fuori; dei materassi erano stati gettati dalle finestre e poi disposti sulla piazza principale sulla statua del grande politico…(Ebdòmero, p. 20)
Questi fatti procurarono una profonda impressione nell’animo del pittore, tant’è vero che questo tema viene ripreso in un interessante articolo, scritto in lingua francese, nella raccolta di saggi Il meccanismo del pensiero, intitolato Statues, Meubles et Généraux.
Qui De Chirico sostiene che vedere improvvisamente dei mobili all’esterno delle case, durante un trasloco, sui marciapiedi, o di fronte a certi negozi dove i commercianti espongono le loro mercanzie, provoca un’impressione di sorpresa e di spaesamento particolare. Egli vedeva investite queste visioni di una strana felicità; una grande intimità si creava tra i mobili accatastati nella via; era come se gli occhi li vedessero sotto un nuova luce, che era in grado di dare un aspetto nuovo anche alla strada circostante.
Divani, poltrone, armadi a specchio, tavoli e sedie nella via creano una sorta di isola felice, separata dal via vai continuo e chiassoso della strada e degli uomini che la abitano.
Quest’isola funge da “riparo”, da luogo protettore dai tormenti dell’esterno e, una volta raggiunta, riesce a infondere un senso di serenità.
In questo quadro una scena da interno è riportata in un paesaggio esterno, con delle montagne sullo sfondo, e ciò crea un senso di spaesamento.
Si vede in primo piano una donna seduta su una sedia che ci mostra le spalle (forse per “escludere” noi spettatori dalla scena e aumentare l’atmosfera di intimità dell’interno) e indossa un vestito bianco, le cui pieghe richiamano le pieghe della tovaglia che addobba il tavolo, per altro dello stesso colore del vestito (bianco). In piedi all’altro lato del tavolo, rivolto verso la donna, sta un giovane vestito di rosa che ad un primo sguardo ci ha subito ricordato un cameriere nell’atto di prendere l’ordinazione della donna. Guardando meglio però, abbiamo notato dietro di lui una parte dello schienale di una sedia/poltrona e quindi forse il loro è un appuntamento e il giovane sta per unirsi alla donna. Dietro di lui si leva una colonna con un’inserzione che raffigura la testa di una statua, che rassomiglia molto al giovane. Le due teste inoltre sono nella stessa posizione e guardano la donna.
Sulla destra si vede una porta aperta verso l’interno e una parte di muro, che in realtà sembra un’altra porta. Sopra di questa ci sono dei mattoni rossi alcuni interi e altri rotti, come se la porta fosse stata sradicata dall’abitazione, oppure come se fosse l’unico elemento sopravvissuto alla distruzione della casa. Delle sezioni rettangolari si ripetono in verticale sulla porta e queste riprendono i rettangoli sull’anta dell’armadio a sinistra.
Per terra c’è un tappeto rosso e la sedia della donna poggia completamente su questo; un lembo del tappeto non è sul palco, ma si trova nell’esterno, ovvero nel paesaggio naturale e l’angolo termina addirittura al di fuori dello spazio pittorico rappresentato.
Il palchetto è un esagono non regolare, è formato da diverse liste di legno che tendono leggermente verso sinistra.
Le montagne in lontananza hanno un andamento ondulato in forte contrapposizione con le linee squadrate e geometriche della composizione in primo piano che conferma l’opposizione tra elemento naturale ed elemento architettonico.
La firma del pittore si trova in basso a destra, ma ancora sul palco, quindi elemento dell’interno.
Una profonda emozione proviene anche dall’immaginare questi mobili in valli, praterie o paesaggi naturali:
Des meubles abandonnés au milieu de la grande nature, c’est l’innocence, la tendresse, la douceur au milieu des forces aveugles et destructices, ce sont les enfantes, les vierges très pures dans le cirque au milieu des lions faméliques; cuirassés par leur innocence ils sont là, lointains et solitaires;ainsi nous voyons les grands fauteuils, les larges divans au bord de la mer mugissante, ou fond des vallées entourées de hautes montagnes.(Il meccanismo del pensiero, p.279)
Da un punto di vista metafisico, vedere all’improvviso dei mobili in strada, tolti dal loro contesto usuale, procura al pittore un sentimento di sorpresa che provoca un mutamento di atmosfera. Salire sul “palco” di queste isole felici procura serenità, un senso di protezione e dolcezza, non priva però di una certa tensione, legata al presentimento che qualcosa di lì a poco succederà.
Queste profonde riflessioni vengono mutate in immagini a partire dal 1926, quando De Chirico inaugura la serie Mobili nella valle.
Nel primo dipinto l’idea generale che abbiamo ricavato è di grande confusione, soprattutto per le posizioni inclinate dei mobili e delle pareti che danno un forte senso di instabilità all’intera composizione. Il massimo della precarietà è raggiunta dall’armadio a specchio che si trova dietro il tavolo e che pare stia cadendo. In primo piano si vedono lo schienale di una poltrona a righe, un tavolino nero su cui poggia il busto di una statua classicheggiante che tiene fermo un lembo di una tovaglia bianca. Le pieghe di questa richiamano una decorazione sulla spalla del busto in pietra.
La poltrona poggia su di un tappeto rosso con delle decorazioni lineari nere, un suo lembo esce dal palco e in minima parte anche dal dipinto.
Ci sono quattro lati di pareti che sulla sinistra e sulla destra dell’interno, a due a due, formano due angoli. Le due porzioni di parete se potessero scorrere su una linea immaginaria, secondo noi, andrebbero a coincidere, escludendo dalla scena il mobile obliquo. Ci sono diverse analogie tra le quattro pareti: sia l’angolo di sinistra che quello di destra hanno le pareti con una banda di colore diverso tra di loro; tre delle quattro pareti hanno delle figure rettangolari che si richiamano, ma sono di diversa misura, mentre la parete restante ha una finestra in parallelo allo specchio che si trova sull’anta dell’armadio.
Le pareti sono in analogia anche con le montagne sullo sfondo; infatti queste si levano proprio dietro le pareti lasciando uno spazio vuoto in mezzo, come nell’interno.
Come negli altri interni in paesaggi esterni, anche qui la composizione si trova su di un palco con liste di legno che tendono verso destra. Questo sembra avere una forma rettangolare, non perfettamente regolare; inoltre tre estremità su quattro non sono visibili: due al di fuori del quadro, una nascosta dalla parete.
Sulla sommità della montagna di destra sorge una costruzione bianca con delle colonne.
La firma di De Chirico è sulla parete frontale di destra, a metà, tra un rettangolo e lo schienale della poltrona.
Nella versione del 1927 si vedono in primo piano una poltrona di legno che nella parte dello schienale è composta da assi che richiamano quelle del pavimento, e un’altra poltrona rossa di fronte che poggia su di un piedistallo.
È curioso notare che la poltrona rossa è stata messa su un piedistallo (scelta sicuramente non casuale), posto adibito solitamente a statue e sculture.
Nell’articolo Statues, Meubles et Généraux (Il meccanismo del pensiero, p.277-278) De Chirico sostiene che vedere una statua appoggiata direttamente sul pavimento, procura un’emozione nuova, in grado di aumentare l’effetto di spaesamento e sorpresa.
In questo caso abbiamo la situazione inversa cioè la poltrona, mobile in genere sul pavimento, è stata messa su un piedistallo. Per De Chirico vedere un mobile all’esterno è motivo di estraneamento e l’effetto è qui potenziato dal fatto che il mobile sia sul piedistallo.
In secondo piano sulla destra c’è un armadio a specchio, mentre sulla parte sinistra un mobile che ai lati sembra avere due colonne.
C’è inoltre una simmetria di forme (piuttosto morbide e ondulate) tra il bracciolo della poltrona in legno e la sporgenza del mobile dietro.
Parte del piedistallo e della poltrona in legno poggiano su un piccolo tappeto che stavolta, a differenza dei quadri visti in precedenza, non esce né dai bordi della piattaforma (una specie di pentagono, con le assi in legno tese verso destra), né dal quadro. È giallo e ha delle decorazioni lineari rosse e nere.
Sullo sfondo si apre una vallata dove si scorge in mezzo una costruzione, forse un tempio.
Nello spazio centrale tra i due mobili si vede una strana forma che può ricordare quella di un bastone.
La firma si trova stavolta in alto a destra, nel cielo.
Le isole di felicità composte da mobili creano un’atmosfera di intimità e solitudine.
La posizione di armadi, poltrone, sedie su queste specie di palchi non è casuale, ma segue una logica precisa, così come la loro inclinazione che indica una tensione verso l’interno che aumenta la sensazione di raccoglimento e protezione.
De Chirico associa spesso nella sua mente immagini di rovine e mobili:
le prime come mobili dell’antichità,
i secondi come rovine della modernità.
Anche il poeta e regista surrealista Jean Cocteau si è occupato di questa questione nel suo saggio di “studio indiretto su De Chirico”, Il mistero laico (1928):
In un ambiente deserto, sorprendenti come un nudo femminile, ecco tramezzi, pavimento, poltrona, armadio a specchio. Nulla ricorda lo scenario di una troupe cinematografica. Ogni particolare rivela anzi al turista l’opposto di un rudere: l’abbozzo di un futuro appartamento.(p.80)
Ci sembra che un elemento importante su cui porre l’attenzione sia il piano di appoggio di questi mobili: una specie di “palco”.
Esso è, come risaputo, un elemento essenziale del teatro, su cui avviene la rappresentazione. Il palco eleva, permette a tutti di vedere e dà rilevanza alla scena, ma non bisogna dimenticare che ciò che si svolge sul palco è una finzione.
Forse i Mobili nella valle, con le loro travi di legno come supporto, non promettono altro che una serenità falsa e fondamentalmente irraggiungibile.
I mobili all’interno e paesaggi
In contrapposizione alla serie Mobili nella valle, De Chirico dipinse anche diversi quadri che rappresentano una stanza con dei mobili e degli elementi del paesaggio naturale (mare, valli e montagne) e rovine dell’antichità. Questo è un atteggiamento tipico nel pittore che per tutta la sua vita ha cercato di avvicinare il tema della modernità a quello della tradizione.
Egli aveva una formazione classica che non nega nei suoi quadri metafisici ed il suo desiderio era quello di modernizzare l’antichità e rendere più classica la modernità, unire questi due universi per giungere all’esperienza metafisica.
Nei quadri dove si vedono paesaggi esterni portati all’interno spesso ricorrono elementi classici come le rovine ed i templi, nella visione di De Chirico i mobili dell’antichità.
Ne troviamo alcuni esempi in Mobili nella stanza (1927) dove in una stanza abbiamo la riproduzione di un paesaggio classico, che può ricordare la Grecia. Sulla sommità della montagna si vede un tempio, più in basso delle costruzioni bianche. Il tutto si trova su una piattaforma di legno rialzata, che potrebbe essere un tavolo.
In un altro quadro, omonimo del precedente e dello stesso anno, si vedono chiaramente un divano, una credenza, una mezza colonna, una testiera del letto in ferro; i braccioli del divano, per la loro forma, richiamano la colonna a terra. Nello sfondo domina un’imponente montagna e sul lato sinistro della composizione si trova una costruzione classicheggiante.
Altri esempi sono i dipinti Colonne nella stanza (1928) e Interno metafisico (1925).
De Chirico mette in contatto il mondo esterno con quello interno anche attraverso finestre e quadri, che aprono nuovi panorami all’interno delle composizioni.
In Interno metafisico (con sanatorio) (1917-18) si vede un quadro su un cavalletto che rappresenta la vista di un edificio che ha di fronte un ampio giardino e una fontana.
Interno metafisico con faro (1918) rappresenta in primo piano un dipinto dove un faro si staglia imponente su un mare in tempesta.
Nel dipinto Interno metafisico con nudo anatomico (1968) si vede appoggiato alla parete in primo piano un quadro con un uomo nudo di schiena, rappresentato in modo classico; più in là un dipinto su un cavalletto su cui si scorge un mare tranquillo, un cielo con alcune nuvole in parte coperto da figure geometriche. Sulla parete di fondo destra si apre una finestra da cui si vede un panorama tipicamente moderno: case sovrastate da un comignolo fumante, affiancate da una torre, emblemi della modernità.
Nel 1970 in Interno metafisico gli elementi più chiari e più in evidenza sono proprio un quadro che mostra una grande statua, due persone in lontananza e sullo sfondo una fabbrica con un comignolo fumante (in questo quadro nel quadro le ombre sono lunghe e il senso di attesa è forte); dietro questo dipinto se ne intravede un altro dove è appena visibile un uomo/statua di schiena. Dietro questo c’è un ammasso di cavalletti, bacchette e forme geometriche. Sulla parete di sinistra si apre una finestra da cui si vede un altro paesaggio della modernità: una casa bianca con tetti rossi e un enorme torrione.
I mobili ricorrenti in Ebdòmero
Il letto
Ebdòmero doveva fuggire. Fece in barca il giro della sua camera, respinto sempre agli angoli dalla risacca e, finalmente, sfruttando tutta la sua energia e la sua destrezza i vecchio ginnasta, aiutandosi con le cornici, abbandonò il suo fragile schifo e si issò fino alla finestra che era posta molto in alto, come la finestra di una prigione.(Ebdòmero, p. 44-45)
In questo quadro si vede una stanza con all’interno l’angolo sinistro del fondo del letto e al suo fianco un tappeto composto di acqua di mare, con delle onde spumeggianti, cinque pini marittimi, un cespuglio, una casa e due porte.
Vedendo il quadro la citazione sopra riportata sembra una sua descrizione.
Anche qui, come nella serie di quadri visti sopra, troviamo in un interno una serie di elementi naturali (mare, pini, cespuglio) e una costruzione artificiale (palazzo con tutte le porte e le finestre chiuse che non permettono di vederne l’interno).
Ancora più forte qui il contrasto tra interno ed esterno in quanto abbiamo in una stanza, che sicuramente sarà all’interno di un palazzo o di una casa, un altro palazzo.
Un altro quadro che presenta questo forte contrasto è La maison aux volets verts del 1924:
Riteniamo che il letto sia un mobile fondamentale nel romanzo, in quanto viene ripetuto numerose volte; è presente addirittura in una citazione dettagliata di come dev’essere il perfetto giaciglio:
Mio padre [di Ebdòmero] […] aveva in orrore i letti con le molle. Il letto ideale per lui era la rete metallica posta sotto i cavalletti di legno molto bassi e reggente un materasso perfettamente piano. In quanto al cuscino sosteneva che non deve mai poggiare su quei lunghi cilindri inguainati di tela bianca che danno al dormiente incubi spaventosi, ma sopra un traversino che occupa dalla parte della testa tutta la larghezza del letto offrendo, nella sua sezione, la forma di un triangolo isoscele. […]
Perciò io affermo, profondamente convinto di affermare una verità irrefutabile, che la rete metallica (superficie assolutamente piana) deve, nella costruzione del letto, primeggiare assolutamente sul materasso a molle la cui superficie è convessa in mezzo e la cui mollezza talmente vantata non è altro che un’illusione o, in ogni caso, una virtù assai effimera.(Ebdòmero, p. 106)
Importante è anche la funzione che il letto ricopre come luogo del sonno e dei sogni.
Egli considerava il sonno come qualcosa di sacro e di dolcissimo e non ammetteva che la sua calma venisse turbata. Ebdòmero professava lo stesso culto per i figli del sonno: i sogni; ragione per cui aveva fatto scolpire sopra ogni piede del suo letto un’immagine di Mercurio oniropompo, cioè conduttore dei sogni […].(p. 77)
Stanco di tutte queste avventure terrestri e metafisiche Ebdòmero andò a letto e non si svegliò che il giorno dopo, molto tardi. Anche svegliato egli non si poteva decidere di alzarsi; allora rimase ancora alcune ore nel suo letto a meditare e finalmente si decise a guardare l’ora all’orologio che teneva sempre sopra una seggiola vicino al letto; erano le cinque del pomeriggio. “È l’ora” pensò Ebdòmero “che nei dodici mesi dell’anno corrisponde al mese di settembre”. Allora capì che sarebbe stato logico da parte sua chiudere alla fine di quella stessa giornata il suo ciclo metafisico.(p. 109)
Ci sono per De Chirico dei momenti in cui è più facile e intenso il manifestarsi e cogliere le immagini metafisiche. Uno di questi è il meriggio ed in particolare la veglia, quando il corpo non è né sveglio né addormentato; ci si trova così in un limbo sospeso dove la personalità del soggetto viene smarrita e questo stato gli permette di provare le passioni metafisiche, in particolare la gioia e la sorpresa.
Il pittore non amava particolarmente i sogni perché per lui le cose dovevano essere regolari e precise, considerava il sogno occultismo che sfuma l’esperienza; al contrario la metafisica era per lui la costruzione della stessa.
Infatti vale la pena ricordare che la parola metafisica significa “la cose al di là della fisica”, da intendersi come un modo diverso di guardare e cogliere le cose.
A proposito del letto in Ebdòmero si trova anche una descrizione del letto dello scapolo, ma non si capisce a chi il protagonista faccia riferimento. Ci viene detto soltanto che il celibe ha un ginocchio ferito e che giace a letto:
Il letto disfatto, le pareti cariche di fotografie con dedica, rivelavano più d’un dramma o d’ un rimorso; lui, poiché era proprio lui che Ebdòmero cercava, era disteso sul letto. Una camicia corta gli giungeva appena fino all’inguine, in modo che l’organo sessuale, con le vene gonfie, gli stava scoperto; i pezzi di garza e le scatole di cotone idrofilo che avevan servito a curargli il ginocchio tumefatto, eran gettati alla rinfusa sopra sgabelli orientali incrostati di madreperla e che facevan pensare al fosco Oriente e a quei disgraziati cuciti nei sacchi e poi gettati nelle acque nere del golfo, nell’ora più profonda della notte.(Ebdòmero, p. 87-88)
Le poltrone
Anche le poltrone, come i letti, sono uno dei mobili più citati in Ebdòmero.
Uno dei passi più impressionanti del romanzo è secondo noi:
Innanzi ad ogni villa era un pezzo di giardino con panche e poltrone a sdraio che sembravano di vimini; in ogni giardino, disteso in una poltrona, giaceva un gigantesco vecchio interamente di pietra; Ebdòmero stupì che le poltrone resistessero ad un tale peso, e partecipò il suo stupore ai compagni, ma avvicinatisi videro che le poltrone, che essi credevano di vimini, erano completamente metalliche e l’intreccio delle verghe d’acciaio, dipinte in color paglia, era stato così ben calcolato che esse avrebbero potuto resistere a pressioni assai superiori. Questi vecchi vivevano, sì, vivevano ma pochissimo; vi era un pochino di vita nella testa e nella parte superiore del corpo; a volte gli occhi si muovevano ma la testa restava immobile; si sarebbe detto che, sofferenti di un eterno torcicollo, essi temessero di fare il minimo movimento per paura di risvegliare il dolore. A volte le loro guance si tingevano leggermente di rosa, e, la sera, quando il sole era tramontato dietro i monti selvosi e assai vicini, essi conversavano e si raccontavano ricordi del tempo andato.(Ebdòmero, p. 72-73)
Il tema delle statue è molto importante per De Chirico e ricorre spesso sia nei suoi scritti che nei suoi quadri.
Qui, questi vecchi giganti, pur essendo di pietra, non sono morti del tutto, sono infatti un po’ colorati, chiacchierano e la vita non li ha ancora abbandonati.
Si collega qui il discorso delle nature morte che il pittore preferiva chiamare vite silenti, poiché tendevano verso la morte ma la vita non le aveva ancora abbandonate del tutto.
Allo stesso modo questi vecchi di pietra hanno in sé un alito di vita che quando cessa di essere, comporta la loro distruzione da parte di uno scultore che nel testo è rappresentato come un assassino:
… fu chiamato un individuo che si diceva scultore […]. Giunse con una valigia piena di magli e scalpelli di differenti dimensioni e tosto si mise all’opera; l’uno dopo l’altro i grandi vecchi di pietra furono rotti e i loro pezzi gettati lungo una spiaggia che tosto pigliò l’aspetto di un campo di battagli dopo un combattimento.(Ebdòmero, p. 72-73)
Nel già citato articolo Statues, Meubles et Généraux De Chirico accomuna statue, mobili e generali per l’effetto di spaesamento che possono creare in particolari situazioni.
Riguardo alle statue il pittore afferma che:
Pour trouver des aspects plus nouveaux et plus mystérieux nous devons avoir recours à de nouvelles combinaisons. Par example: la statue dans une chambre, seule ou en compagnie de personnes vivantes pourrait nous donner une émotion nouvelle surtout si on a la précaution de faire ainsi, que ses pieds, au lieu de poser sur un socle, posent directement sur le plancher. Qu’on pense aussi à l’impression produite par une statue assise dans un vrai fauteuil ou s’appuyant à une vrai fenêtre.(Il meccanismo del pensiero, p. 277-278)
Uomini come statue all’interno di una camera vengono anche dipinti nel 1926 nel quadro Il figlio consolatore, variante della parabola del figliol prodigo.
Nel quadro si vedono un giovane/statua in piedi (forse il figlio ritornato o quello rimasto a casa col padre), mentre seduto su una poltrona si trova il vecchio addolorato e pensieroso.
Anche in Ebdòmero il padre è descritto mentre siede su una poltrona.
Su una grande poltrona di velluto rosso sta seduto anche un pittore che non vuole accendere le lampade per non compromettere l’atmosfera del crepuscolo. Ebdòmero lo considera stupido ed egoista (p. 90-91).
A pagina 95 troviamo invece il prefetto seduto su una poltrona e la moglie che piange ai suoi piedi per convincerlo a risparmiare agli atleti le fatiche per prepararsi agli spettacoli.
Un’altra versione della poltrona è presentata a pagina 32, dove questa diventa meccanica:
… spingevano fin là in una poltrona meccanica; l’illustre infermo soffriva di una malattia assai complicata la quale esigeva che il suo corpo, seduto nella poltrona, avesse sempre un’inclinazione determinata, senza di che era esposto a morire sul colpo per via di un brutto tiro che gli avrebbero giocato le orine, stagnanti nel suo organismo, visto che non poteva espellerle se non assai difficilmente (spesso restava giornate intere senza orinare). Seduto nella sua poltrona meccanica, con le gambe avviluppate fino alle ginocchia, negli scialli e le coperte da viaggio, egli restava così, fino al tramonto, con lo sguardo vago, senza pensare a nulla, sotto la guardia taciturna dei suoi domestici.
La poltrona come elemento di sopravvivenza per un malato la ritroviamo anche nel paragone che Ebdòmero fa in chiusura del romanzo: “… tremò anche come trema a notte alta il vegliardo paralitico nella sua poltrona…” (p.118).
Crediamo che la poltrona ricopra un ruolo particolare ed importante per De Chirico in quanto legata anche a uno dei primi ricordi dell’infanzia dove la madre è seduta su una poltrona. Anche Cocteau in uno dei suoi primi passi (p.24) di Mistero laico dice:
Due fratelli cresciuti in Grecia, di origine italiana, sorvegliati dalla sommità dell’Acropoli dalla madre, in abito scollato, seduta su una poltrona dorata col mazzo di rose in mano.
La poltrona, anche come ricordo legato alla madre, ci sembra che ricopra in De Chirico una posizione di particolare rilevanza dove, di volta in volta, assume funzioni importanti: vitale per un paralitico; come trono dorato per la madre che sorveglia e protegge lui e il fratello; come luogo dell’abbandono ai pensieri dolorosi del padre del figliol prodigo; oppure come emblema del potere e dell’autorità legata al prefetto.
Bibliografia
G. De Chirico, Memorie della mia vita, Bompiani, Milano, 1998.
G. De Chirico, Ebdòmero, SE, Milano, 1999.
G. De Chirico, Il meccanismo del pensiero, Einaudi, Torino, 1985.
J. Cocteau, Il mistero laico, Giorgio De Chirico, saggio di studio indiretto, Lerici, Cosenza, 1979.
M. Fagiolo dell’Arco, L’opera completa di De Chirico 1908-1924, Classici dell’arte Rizzoli, Milano, 1999.