Docenza di venerdì 31 marzo 2004 tenuta all’interno di L’iniziazione etica. Dieci maestri indicano una via, dialoghi sul management morale a cura di AssoEtica.
http://www.assoetica.it/libro/fabbri_confine_etico_retorica.pdf
La retorica è già una forma di etica perché evita la violenza
Affrontiamo ora i problemi della retorica, il confine tra metafora e bugia e la capacità di attivare o disattivare nella comunicazione la mia responsabilità e quella dell’altro; cerchiamo di impostare questi problemi con chiarezza e correttamente in linea generale, lasciando i casi particolari. Non possiamo pretendere di trovare delle risposte certe.
Ad esempio, alcuni anni fa in Svizzera, qualcuno si era costruito un rifugio antiatomico. Il problema era capire come ci si sarebbe comportati nei confronti di quelli che non avevano il rifugio quando fossero arrivati e avessero bussato. Come si risponde a questi? Come risponde la formica alla cicala. A questo punto la formica è responsabile o no? La cicala non avrebbe neppure dovuto bussare?
Qualcuno potrebbe dire: chi bussa? Un bambino, un vecchio, un amico? La risposta l’ha data La Fontaine: non hai pensato a costruirti una protezione contro il rischio, peggio per te (La Fontaine ha comunque in mente una società un po’ diversa dalla nostra, di tutte le formiche, oggi forse è un po’ diverso).
Perché in questo contesto è opportuno prendere in considerazione il problema della retorica?
La retorica nasce sulla disputa (vedere a proposito “La retorica antica di Roland Barthes”, Bompiani); avevano cacciato un certo numero di proprietari terrieri in Sicilia, quando cambia di nuovo la politica questi rivogliono la terra, si formano perciò dei tribunali per risolvere la questione e nascono le argomentazioni. Dovendo sviluppare in un luogo di conflitto delle pretese ad un diritto, che è sempre legato all’obbligo di un altro (i diritti e gli obblighi devono perciò essere distribuiti), nascono delle strategie del discorso. Esse tentano di risolvere il problema della guerra, ossia la retorica tenta di risolvere il problema grazie ad una mediazione linguistica verso la pace (per evitare di risolvere il problema con le armi); la retorica è, quindi, già una forma di etica perché evita la violenza. Quindi si crea un tribunale, si stabilisce un giudice super partes che possa valutare il peso delle argomentazioni. Questo è l’aspetto positivo: si diranno al giudice, di cui si accetta la giurisdizione, le ragioni a sostegno del proprio diritto (si sottolinea anche che di fronte ad un giudice ci si rivolge al proprio avversario in modo impersonale).
La retorica, tuttavia, è uno strumento di pace che sta al posto della guerra. Introietta una serie di problemi bellici, non è un luogo pacificato ma di strategie e di controstrategie: ossia occupa il luogo linguistico delle armi.
Essa è una disciplina del linguaggio, delle immagini, degli oggetti, è la capacità di convincere gli altri con vari mezzi, Marco Antonio che strappa il vestito di Cesare e dice che le ferite sono come bocche che parlano. Con vari tipi di “segni” possiamo tentare di persuadere il giudice. È importante che ci sia un giudice e se non c’è un giudice dobbiamo tentare di convincerci l’un l’altro.
Perciò la retorica è una disciplina che mira a ristabilire la pace, introducendo nel linguaggio delle strategie conflittuali. Se uso la violenza per convincere, non ho bisogno di argomentazioni; quando uso le argomentazioni ho bisogno di persuadere l’altro.
Qualcuno potrebbe dire che questo è un sapere naturale, che ciascuno è fornito degli strumenti linguistici per convincere gli altri: abbiamo tutti le parole, la grammatica.
Cosa ci vuole al di là della grammatica e del lessico per persuadere gli altri? Occorrono delle forme discorsive che sono fatte con la grammatica e che si chiamano discorsi. La retorica è la disciplina che studia il modo con cui noi organizziamo le parole e la grammatica per persuadere l’altro.
Lo scopo della retorica è la persuasione dell’altro, del giudice. Non bastano solo le parole, ci vogliono delle forme più sofisticate e complesse. Ad esempio se una donna è incinta vuol dire che ha avuto un rapporto sessuale: uso l’argomentazione se-allora.
La retorica è fatta di argomentazioni e controargomentazioni conflittuali. Introduce il conflitto nel discorso e nelle forme discorsive che sono di tipo argomentativo. Se queste forme sono insegnabili allora siamo nella retorica.
Se io vi chiedo: “Come organizzereste un bel discorso?”, mi rispondereste: “Prima faccio una premessa, poi faccio un’esposizione dei fatti, poi ne ricavo una buona argomentazione, poi faccio un esempio e infine traggo la conclusione”. Un sofista che si chiamava Corace ha inventato ciò: esordio, expositio, argomentatio, digressivo, epilogo. Questo è quindi un modo consolidato da tanti secoli di dividere un discorso.
Ciò che faceva arrabbiare Platone ed altri è che i sofisti, per primi, avessero pensato che fosse possibile insegnare a pagamento strategie discorsive sufficienti a creare persuasione. Ciò può avvenire con le parole e con elementi visivi: in un processo romano un ex soldato aveva sostenuto le sua argomentazioni mostrando le ferite sulla schiena, affermando di non essere mai stato colpito sulle spalle. Il corpo dà anche la garanzia di quanto stiamo dicendo. Nella struttura retorica il visivo si chiama actio: chi parla è chiamato a controllare tutto, le parole ed i gesti. Cicerone dava istruzioni minuziose: “Non cominciate a ballare mentre parlate, non fate pause troppo a lungo, non alzate il tono”, ecc.
Funziona? Si, visto che dura da 2000 anni!
L’esistenza delle censure dimostra che le immagini erotiche sono efficaci.
I sofisti si chiamano così perché usavano argomenti sofistici: sophos vuol dire sapiente. Hanno una cattiva fama, in primo luogo, perché si fanno pagare, in secondo luogo, perché da Gorgia in poi hanno cominciato a dire che si può vendere la saponetta come la dittatura. La domanda è: essendo una tecnica, essa è indipendente dai suoi scopi o è legata ai suoi scopi? Questo problema se lo sono posti Platone e Aristotele e continuiamo a porcelo ancora oggi.
In primo luogo dobbiamo capire se tale tecnica è efficace.
I sofisti avevano l’idea che si potesse dire la verità ed il suo contrario a partire da una strategia; usavano la tecnica di rovesciare continuamente la verità.
Gorgia ha scritto un elogio di Elena dicendo che era una vittima delle circostanze (mentre tutti gli altri sostenevano che era una disgraziata).
Uno strumento è tanto più potente quanto più è in grado di sostenere la verità e la falsità, perciò il sofisma è uno strumento che può servire per una cosa ed anche per il suo contrario.
Antistene è un sofista che si fa pagare e istruisce un giovane molto ricco il quale impara perfettamente tutte le argomentazioni retoriche. Il ragazzo lo ha fatto per hobby. Quando Antistene gli chiede i soldi del compenso, lui gli dice che gli farà causa: se vince gli darà i soldi, se non vince non lo pagherà perché avrebbe dovuto insegnargli a vincere le cause. Il povero Antistene sembrerebbe aver perso ma gli risponde che gli farà causa a sua volta: se vincerà prenderà i soldi; se perderà, poiché quando l’altro vince gli darà i soldi, li avrà lo stesso. È un paradosso molto interessante.
Il linguaggio è un sistema di costruzioni logiche complesse di cui bisogna avere competenza. Quando l’uso di una tecnica può essere considerata eccessiva, vergognosa? Non lo si può dire a priori, occorre entrare nel merito della tecnica.
Dobbiamo entrare dentro il linguaggio per cercare di capire. Ho l’impressione che il cattivo uso di una metafora sia fondamentale. Ad esempio, “l’uomo salva gli animali minacciati”. Da chi? Dall’uomo. Accade che se non c’è chi fa valere il complemento d’agente, passa un’immagine dell’uomo straordinaria.
Dobbiamo cominciare a guardare da vicino le strategie del linguaggio senza le quali non ci rendiamo conto quando vengono usate oppure no.
In un romanzo di Balzac un uomo ha una pelle di animale che si riduce ogni volta che si realizza una promessa. La retorica è come questa pelle che a causa del suo carattere pericolosissimo ha provocato la diffidenza delle gente. La gente ha scorporato la retorica in due: le argomentazioni e le figure.
Le argomentazioni sono state affidate alla logica, per controllarne la bontà.
Le figure retoriche, come la metafora, sono rimaste alla retorica e servono per arricchire l’estetica del discorso: in questo modo la retorica è stata limitata alla stilistica; ad un modo raffinato, non di convincere, ma di attirare, limitandola all’estetica.
A questo punto non si possono porre problemi etici ad una retorica così svuotata. La retorica, in realtà, comprende anche le strategie argomentative, le prove e le figure di retorica, i racconti (alcune persone ottengono grandi risultati raccontando storie).
Quali sono le regole?
Quando la gente pensa alla retorica, pensa alle metafore. Secondo me la gente sbaglia perché la metafora è lo strumento più efficace per condire esteticamente il discorso, a meno che non venga usata come argomentazione.
Perché le metafore hanno sempre affascinato tanto? Se io uso una metafora non necessariamente convinco qualcuno, è solo un modo più ricco di parlare.
I filosofi non sono però ossessionati dall’efficacia ma dalla verità. La metafora è scandalosa sul piano della verità? Perché Achille è un leone? Achille è un uomo non un leone. Perché le metafore per dire una cosa ne dicono un’altra?
Lo si fa per attirare l’attenzione? Lo scopo delle metafore non è stabilire la verità ma l’efficacia.
Non si persuade in senso logico, ma si commuove: “come colombe dal desio chiamate”, Paolo e Francesca. Perché il paragone con le colombe, dato che erano due adulteri? Dante cade per la commozione. Questo paragone ottiene il risultato di far commuovere Dante. La metafora non persuade in senso logico, perché il problema fondamentale non è informare ma commuovere. La retorica non è la verità.
Il secondo libro di Aristotele sulla retorica si occupava del pathos del giudice, bisognava commuoverlo.
L’ossessione dei logici è sempre stata quella di ridurre la retorica a verità. La retorica è legata all’efficacia. La verità è solo un esempio di efficacia fra gli altri. In alcuni casi è necessario mentire per ottenere certi scopi, in altri casi la verità è controproducente.
Sapere la verità non basta, bisogna sapere che a nome di quella verità c’è qualcosa da fare. Si deve passare dall’essere al fare, la verità può essere uno strumento per l’azione, a volte la verità è il più efficace mezzo per ottenere l’emozione e l’emozione per ottenere le azioni.
Supponiamo di dire la metafora più stupida: quella donna è una rosa.
Cosa vogliamo dire? Che la donna è fresca, che è bella come una rosa. Tutti gli argomenti legati ad una metafora possono ottenere il valore di argomentazioni: se è una donna, allora è fresca, bella, ecc.
Le metafore sono interessanti quando sono efficaci.
Gli scienziati usano spesso metafore perché sono efficaci dal punto di vista dell’argomentazione. Un mio amico ha detto che, studiando le scimmie, ha cambiato idea sugli uomini e sulle donne. Quando le scimmie camminano nella savana, i maschi più forti stanno davanti e urlano, in fondo ci sono le femmine che strepitano. Si può pensare che in questa società le femmine non contino. In realtà, quando le donne strepitano, il gruppo gira, in quanto, essendo più vecchie, conoscono la strada. Mentre i più grossi davanti sono a difesa. Il sapere nel gruppo era distribuito in modo contrario.
Il mio amico ha dovuto riclassificare la problematica. Prima li aveva classificati sul potere, in realtà c’erano due assi da studiare: potere e sapere.
Dobbiamo essere sempre pronti a ripensare le argomentazioni. Il grande problema della retorica è la relatività della verità: il problema non è che la verità non c’è, ma che è relativa alle situazioni. La verità, inoltre, in sé non è efficace, può esserlo con convenzioni precise e ci sono casi in cui non lo è, per esempio nei conflitti in cui è la prima vittima della guerra.
Il problema è costruire la verità, ed una delle maniere, è costruirla con la persuasione; la persuasione non si fa con la sola verità, si fa cercando di persuadere la gente alla verità.
Distinguiamo convincere da persuadere.
È facile convincere qualcuno in nome dei tuoi principi, ma se lo vuoi persuadere lo devi fare in nome dei suoi.
La strategia della persuasione può essere divisa (da) in atti di convinzione e atti di persuasione, ed io posso tentare di persuadere l’altro in nome delle sue ragioni – “è nel tuo interesse”- o delle sue emozioni. È capitato a tutti di dire: “Ma non ti vergogni?”. Dobbiamo pertanto distinguere tra la convinzione, che agisce in nome di ragioni proprie, nella speranza che siano condivise anche dall’altro, ossia speriamo che condivida perché ha i nostri valori; per far ciò occorre essere certi che l’altro condivide gli stessi valori. Con un’ascia d’acciaio si tirano giù molti più alberi che con un’ascia di pietra: nei paesi poveri, dove la mentalità è di vivere alla giornata, le persone tirano giù con l’ascia d’acciaio gli stessi alberi che abbatterebbero con l’ascia di pietra, poi vanno a fare festa.
Quando cerchiamo di persuadere persone che hanno una cultura diversa dalla nostra, se non si riescono a stabilire delle argomentazioni comuni, non si può sperare di convincere la gente con argomenti di verità: prima occorre che ci siano valori comuni. Ad esempio: uno scienziato è stato arrestato perché aveva truccato un esperimento. Egli era stato indotto a ciò dal fatto che aveva problemi di tempo e di finanziamenti. Qualche anno dopo si è scoperto che aveva ragione, ossia aveva truccato quel tanto che gli consentiva di portare a termine l’esperimento. Torto o ragione. Lui non ha truccato veramente. Lo trattereste come un vero falsario?
Da un lato il problema è persuadere nel senso di docere; dall’altro è l’animus movere. Per persuadere, occorre commuovere.
Cosa vuol dire commuovere?
Se noi pensiamo alla retorica come azione linguistica, quello che ci interessa sono gli effetti di passione che provoca. Il contrario della passione non è la ragione, dato che si può avere una passione per la ragione; passione significa forte articolazione somatica e mentale che va nella direzione di un impegno di azione nei confronti di una certa cosa. Ad esempio, ci sono persone che rimangono indifferenti alle immagini di orrore trasmesse alla televisione; da queste immagini ricavano solo informazioni e non sono mosse ad agire. La verità in questo caso non serve; serve solo quando ad essa segue un’emozione sufficiente che porta all’azione.
Il problema a questo punto non è la verità, ma la giustizia. Il problema è costruire un luogo giusto dove sia possibile il confronto fra le verità di cui ciascuno è portatore: la retorica è il conflitto della verità. A volte la giustizia è sapersi accontentare di una verità parziale nella speranza di una verità migliore.
Oggi noi viviamo in un contesto persuasivo speciale. Discutiamo astrattamente… noi dobbiamo riuscire ad arrivare ad una conclusione di verità su quello che stiamo dicendo… che è convincere voi a comportarvi in una maniera precisa, per farlo dobbiamo guardare con cura al funzionamento… per fare questo non abbiamo bisogno della verità ma di riconoscere le passioni che sono (molte?)
Affrontiamo il cosiddetto problema dell’oggettività. Per esempio: “Piove”, è un’affermazione di carattere impersonale; se io dico che piove, cos’è più oggettivo, io che mi prendo la responsabilità di quello che ho detto, oppure esporre fin dall’inizio il vostro ruolo soggettivo di… (?) dipende dagli scopi che voi volete utilizzare in questo momento per un efficace discorso, non si può giudicare in sé per sé. È diverso dire “Piove” dal dire “Io dico che piove”. Se io dico quest’ultima frase, voi potete dire “Per me no”; se io dico “Piove”, voi non state confutando me. È il problema di fondo perché la verità è che piove o non piove, basta verificare. È in gioco la strategia retorica con la quale io mi espongo alla possibilità di essere confutato. Chi si nasconde dietro l’impersonalità dell’evento ne afferma l’oggettività di cui non si rende responsabile.
Questo accade nelle aziende e nei discorsi scientifici. Noi abbiamo della scienza l’immagine della divulgazione scientifica; essa dice che x ha la proprietà y ecc.; è per definizione l’oggettività. Quando si esaminano lavori scientifici si riscontra che sono utilizzate espressioni del tipo: “esiste una ragionevole probabilità di ritenere che…”, perché chi ha fatto quel lavoro, troverà molti studiosi che obietteranno che così non è, che non è stata fatta quella prova, ecc.
La divulgazione toglie al discorso la sua efficacia interattiva. Crede di fare la comunicazione migliore, ed in realtà fa la peggiore, poiché dà alla scienza l’immagine di qualcosa di ineluttabile, necessario, obiettivo, mentre essa è fatta da uomini che si prendono le loro responsabilità e discutono con gli altri.
L’efficacia emotiva è ottenuta attraverso una forte carica intersoggettiva.
Non a caso, Aristotele (in Retorica) fa una classificazione delle emozioni.
Se voglio ottenere che l’altro faccia qualcosa, ho due strategie:
- valorizzarlo: “Ma tu sei bravo, avrai già capito…”;
- provocarlo: “Non sei capace”.
La prima valorizza la sua competenza; la seconda, che si tara sul principio di autorità, valorizza la vostra.
La provocazione è la forma più complessa perché vi condiziona allegandovi la vostra competenza. È la strategia che si usa con coloro che si drogano o sono dipendenti da qualche sostanza. La strategia degli alcolisti anonimi è crudele: “Tu sei uno straccio, dovresti vergognarti di esistere”. Alcuni infatti si suicidano; tuttavia, dopo anni di lavoro, l’associazione ha verificato che si tratta di una delle strategie più efficaci.
Bisogna contestualizzare: ci sono caratteri a cui la provocazione forte suscita l’azione. Ci sono caratteri deboli che invece vengono sedotti. Perciò a volte possiamo manipolare l’altro facendolo arrabbiare, o, al contrario, addolcendolo.
(Tutto questo) è vero o falso? Il vero e il falso si decidono solo con i verbi all’indicativo. Quando io dico “La penna è sul tavolo”, è vero o falso? Se io dico “Prendi la penna” non è vero o falso ma è efficace o inefficace.
Se io faccio una domanda essa non è vera o falsa, la risposta è vera o falsa. Pertanto la retorica non è una disciplina degli stati di verità, ma degli atti di linguaggio che mirano a situazioni tra cui anche la verità.
Se io giudico malamente un alcolizzato e questo si suicida, io mi prendo la responsabilità di quanto ho detto. Responsabilità vuol dire rispondere.
Il problema non è vero o falso, ma giusto e responsabile, questo è il problema dell’etica, non la verità che può essere uno strumento molto efficace della retorica.
Ci sono due tipi di filosofi cinici: uno è povero e dice che gli uomini sono tutti disgraziati; uno è al potere e dice lo stesso. Quest’ultimo però ha il potere di cambiare la situazione, anzi ha il dovere e la responsabilità di cambiarla. Dice la verità, ma non deve dirla, deve cambiarla.
Dire la verità non basta se non quando è un invito a cambiare le cose. Noi siamo responsabili davanti agli altri, questa è l’etica.
Io devo rispondere dei miei atti e questa è etica, non mi devo nascondere. I politici per esempio, sognano un esperto che dia loro risposte certe per non prendersi responsabilità.
La retorica tratta delle azioni, dei discorsi che mirano alla trasformazione delle emozioni dell’ascoltatore e che lo conducono responsabilmente verso le proprie azioni. Ovviamente ci si può sbagliare anche in buona fede. Ad esempio le comunicazioni di massa sono nate durante la guerra; per sollevare il morale delle truppe, gli americani facevano vedere dei deliziosi ragazzi bianchi insieme alle loro famiglie, magari davanti ad una chiesa, per indurli a combattere per quei valori. L’esercito americano era, però, già allora costituito da molti neri ed ispanici che non si identificavano in tutto ciò e per i quali questi messaggi si trasformarono in un boomerang. Tutto questo era stato fatto in buona fede. In questo caso l’errore era stato di non considerare che il destinatario non aveva gli stessi valori.
Azioni che sono dirette a suscitare emozioni come l’ira, la simpatia. Ma è importante non nascondere la mano dopo che si è tirato il sasso, bisogna far vedere quello che si è fatto e come.
Io porrei così il problema, prima di contestualizzare farei delle tipologie semplici che ci aiutino a riflettere:
- potere
- sapere
- dovere
- volere
Verbi servili, essi modificano altri verbi, modali. Io ho deciso di persuadervi, su che livello posso giocare?
Se io voglio suscitare il vostro desiderio, gioco sul volere. Voi direte “Questa è la pubblicità”. In realtà la pubblicità non è solo il volere ma anche il sapere. C’era la pubblicità in cui un uomo entrava in un bar, chiedeva un aperitivo e non veniva ascoltato; un altro diceva “Mi dia un Cinar” ed otteneva il risultato. Questa pubblicità non era fatta per suscitare un desiderio, ma la competenza delle persone. Uno sa, l’altro no. Tutti vogliono l’aperitivo, ma solo uno sa. La pubblicità manipola perché dà come presupposto che uno voglia l’aperitivo, lo sottintende, comunica non dicendo.
Il problema del potere; io so le cose, le voglio, ma non sono in grado di farle perché, ad esempio, non ho i soldi. Io ti valorizzo questo aspetto, il potere o il dovere. Tutta la pubblicità di tipo civile è fondata sul fatto che ci sono delle cose che vanno fatte o che non vanno fatte.
Abbiamo quindi vari tipi di strategia; con dei ragazzi svogliati si può utilizzare la strategia del volere. C’è il ragazzo che più di un’ora non riesce a studiare, ed un altro che non ha nessun senso del dovere. Noi possiamo manipolare gli altri non offrendo degli oggetti o dei valori, ma solo manipolando il loro atteggiamento modale verso i valori e verso gli oggetti. È vero che la società contemporanea incorpora negli oggetti della desiderabilità, ma anche del potere: una penna è fatta in un certo modo perché ci si possa scrivere, e anche se è fatta in modo attraente, essa offre un poter fare ed un saper fare.
Ora potrei parlarvi di alcune strategie, quella del parlare in modo implicito, o quella di relazione; ad esempio, come si costruisce una funzione di apostrofe, come si apostrofa il proprio destinatario (apostrofe deriva dal greco apostrophéo, “io mi giro”). Io parlo con un altro, davanti a voi senza guardarvi, poi mi giro e vi dico: “Avete capito?”. All’inizio siete spettatori di un evento al quale non partecipate. L’apostrofe non vi guarda come spettatori, vi coinvolge. Un altro esempio: tutte le Veneri (!!!!) in pittura guardano lo spettatore. In pubblicità la strategia è di coinvolgere, ci sono degli oggetti che vi interrogano.
In una chiesa bizantina di Ravenna è raffigurato un Cristo che vi guarda in qualunque posto vi troviate. Nella cultura bizantina è Dio che guarda. Così anche nella pubblicità, è il prodotto che vi guarda. Come si fa a costruire un’immagine che vi guarda? Come la costruiamo eticamente? E quali sono le maggiori responsabilità del caso? Vogliamo costruire uomini che guardano prodotti o prodotti che guardano uomini? Cos’è più etico, usare una strategia o un’altra?
Vi tocca fare un’immagine. Se voi mettete in prospettiva un oggetto, siete voi che lo guardate; se noi prendiamo, come nella pittura barocca, una natura morta e la alziamo siamo invasi dall’oggetto; se noi costruiamo una prospettiva a scendere, siamo noi invitati a guardare.
Cos’è più etico? Per rispondere, bisogna discutere di casi precisi.
Prima dobbiamo descrivere una tipologia retorica, comunicativa. Solo dopo possiamo rispondere sul piano dell’etica. Non si può scorciare il problema, è questa la nostra responsabilità.
Note
- Si riferisce alla morale espressa nella favola di La Fontane, “La cicala e la formica”.
- Si veda in proposito: Roland Barthes, La retorica antica, Bompiani 2000.
- Considerato uno dei fondatori della “Scuola siciliana di Retorica”, visse a Siracusa nel V sec. a.c. Ciò che si sa delle sue opere deriva indirettamente dalle testimonianze di altri autori classici: Platone, Aristotele, Cicerone, Quintiliano. Le notizie qui riportate riguardo alla ripartizione strutturale del discorso, potrebbero fare riferimento ad alcuni passi di Cicerone (De oratore, III 80-81; Brutus, 12-46).
- Opere retoriche di Cicerone: De invenzione, De oratore, Orator, Brutus.
- In Atto III, scena I.
- Si fa riferimento ai dialoghi di Platone contro i sofisti, databili tra il 387 e il 368 a.c.: Protagora, Eutidemo, Cratilo e Gorgia; in quest’ultimo più completo poiché sviluppa e riassume i tre precedenti, afferma l’inutilità e quindi la dannosità della retorica dei sofisti, in quanto vacua e finalizzata al trionfo della menzogna sul dato vero, reale e oggettivo.
La polemica di Aristotele già presente nei Topica (la raccolta dei topoi, dei luoghi comuni delle argomentazioni dialettiche), è chiara negli Elenchi sofistici, cioè la serie di confutazioni di argomenti stilistici particolarmente cari ai sofisti. - Testo pubblicato nel sito: www.liberliber.it.
- La peau de chagrin, 1831 (trad. it. “La pelle di zigrino”).
- Divina Commedia, Inferno, canto V, vv. 81-83.
- La Retorica di Aristotele è suddivisa in tre libri: il primo definisce l’argomentare retorico distinguendolo in tre branche fondamentali relative al discorso deliberativo, giudiziario ed epidittico; il secondo libro è un trattato sulle passioni che opportunamente suscitate e dirette, influenzano il parere dell’ascoltatore secondo le intenzioni dell’oratore; il terzo si occupa dell’aspetto formale della retorica o elocutio.
Intervento: Mi sembra di aver capito che questi discorsi prescindano dalla verità e che essa sia solo strumentale alla retorica. È un punto di vista soggettivo, io mi metto nella condizione di raggiungere uno scopo, di persuadere nel migliore dei modi. Per me il principio di responsabilità è legato a terzi. Se non c’è il giudice super partes, a chi rispondo? A me stesso? In questo caso l’individuo si autoassolve.
Fabbri: Devi metterci dentro la professionalità, è uno dei livelli fondamentali, non è pura soggettività.
Int.: Secondo me la professionalità è solo un corollario.
Fabbri: È il primo passo fondamentale dell’etica; supponiamo che tu sia un professore, faresti una certa cosa ad un tuo studente? Non puoi, perché sei un professionista.
Int.: Partendo dal fatto che avendo una professionalità legata a dei parametri, faccio delle scelte responsabili sulla base di questi ultimi, il problema è sempre quello di capire se il fine giustifica i modi (?). Se io prendo un finanziamento per uno scopo e lo uso per un altro, sto ingannando il mio finanziatore.
Fabbri: Inganni anche l’alcolizzato al quale dici che non ce la farà. La provocazione è in qualche misura un inganno, però è un inganno efficace perché se davvero lui recupera la forza necessaria per sopravvivere, mi darà torto.
Int.: Io ti sto solo sfidando, non ingannando; ti sto dicendo “Dimostrami che non è vero”.
Fabbri: Se lo prendiamo come un atto di linguaggio, come una sfida, allora non c’è inganno; però se lo valutiamo come una situazione obiettiva, sto dicendo il falso. C’è un uso razionale della provocazione: quando tu dici ad un uomo “un uomo nuovo, dimostramelo”, quando capita? Capita tutte le volte in cui ci sono cambiamenti di valori, quando la gente comincia a non credere più a certe (?)
“Sei una donna, dimostramelo” per ottenere qualcosa. In questo modo si lancia una sfida reazionaria per bloccare certi valori di variazione, per ributtare la persona su valori maschili- maschili, femminili- femminili. Perciò in una società di valori in movimento, tutte le cosiddette tautologie sono sempre condannabili perché vogliono bloccare il mondo così com’è. Possiamo dare a ciò un giudizio negativo, ma esso può essere usato anche in modo positivo.
Varanini: La responsabilità non è solo interesse soggettivo.
Fabbri: Pensiamo al principio di precauzione: esso parte da un’idea molto semplice. Mentre per fare bombe nucleari bisogna avere delle infrastrutture colossali, visibili e controllabili, oggi in un piccolo laboratorio si possono fare operazioni sulla gramigna che si replica in maniera abnorme ed occupa tutti gli (oceani?). La responsabilità è colossale, verrebbe da bloccare tutto quanto.
Ancora un esempio: oggi siamo davanti ad una rivoluzione sconvolgente con la genetica, che consiste nell’aver trovato un alfabeto che possiamo modificare. La possibilità di una modifica alfabetica della carne, comporterà la possibilità di modificare una struttura della specie umana.
Come possiamo affrontare questo problema? Accettiamo che l’uomo modifichi l’uomo? No, usiamo il principio di precauzione. Altra reazione può essere l’entusiasmo, dicendo che gli uomini sono finalmente in grado di modificare tutto per diventare tutti più sani e belli.
Il limite è quello della responsabilità nell’agire. In fondo non abbiamo ancora distrutto il pianeta con le bombe nucleari.
Il problema è come estendere il principio di precauzione. Il fatto di aver introdotto questo principio è già un fatto di responsabilità. Come va esercitato? Se noi parlassimo con i francesi delle loro centrali nucleari, dato che noi abbiamo esercitato il principio di precauzione, loro ci direbbero che non saremmo stati in grado di gestirle, mentre loro sono bravi.
È molto complicato, i francesi non hanno esercitato questo principio. Io ritengo che sia importantissimo aver introdotto il principio di responsabilità.
La soluzione per questi problemi è far entrare il massimo di attori responsabili. Coinvolgere più persone possibile anche se ciò rende tutto meccanicistico e pesante. È come in democrazia. La tirannia è più efficiente nel prendere decisioni, mentre la democrazia è lenta.
Varanini: C’è un’etica della responsabilità e della limitazione per l’interesse collettivo. Siamo in grado di dire: ” imponiamo a tutti gli attori un terzo” che ci toglie la responsabilità di dire che la responsabilità è condivisa?
Fabbri: Un terzo stabile non c’è, dobbiamo costruire delle relazioni a costruzione di terzo, nella discussione bisogna costantemente tenere aperti dei problemi di generalità, che non sono definitivi, perché l’evoluzione tecnica è così rapida che quelli che noi consideriamo terzi non ne capiscono nulla.
Int.: In questa logica di moltiplicazione dei responsabili diventa importante l’arma della retorica, poiché essa parte da un conflitto dichiarato, ora abbiamo levato il giudice terzo, abbiamo levato la dichiarazione del conflitto perché la retorica la posso usare anche senza dichiarare il conflitto, posso convincerti in (una fase non dichiarata di non convinzione mia?) ma per un mio fine occulto. Il numero aumenta la necessità di maggiori risorse economiche per poter raggiungere un maggior numero di persone.
Fabbri: Non abbiamo altra scelta. L’unica possibilità è moltiplicare i mediatori che si trovano in posizione di terzo, che si trovano poi rapidamente in posizione di parti in causa. Facciamo un esempio preciso: abbiamo detto “piove”; se io lo dico quando non piove, chi mi ascolta ha il diritto di risposta. Ma cosa succede se parlo per implicito, per allusioni? Se dico: “Continui a picchiare tua moglie?”, il “continui” presuppone che il mio interlocutore abbia già picchiato la moglie. Un altro esempio: ci troviamo in un bus e qualcuno spinge, diciamo “Oggi è pieno di maleducati”. Qualcuno mi può dire: “Ce l’hai con me?”. Io gli direi: “Hai la coda di paglia, non parlavo con te”. L’allusione non è come l’implicazione, perché in quest’ultimo caso io ti posso incastrare dicendo che tu stai affermando che prima picchiavo mia moglie, è diverso se io alludo.
Io sostengo che esiste un principio di responsabilità, esso parte dall’altro, parte da quello che si dice davanti all’altro (?). Siamo responsabili dell’altro, oltre che di noi stessi. Il problema della verità cede di fronte all’efficacia, e la problematica dell’etica si pone nei termini della responsabilità. Il “vero o falso” è uno degli strumenti con cui ottenere l’adesione dell’altro. Se si parte dalla verità, dopo si parte in atteggiamento difensivo (?).
Il problema è anche far valere la verità quando serve.
Altro problema è quello del credere: esso in parte si fonda su una base emotiva, in parte riposa su una base di verità. Se dici “Ci credo”, vuol dire che sei convinto che sia la verità. Nel primo caso stai aderendo. Se dici “Credo che sia così”, vuol dire che non sei convinto. Nel primo caso stai aderendo. La chiave della retorica è il verbo credere: una cosa è sapere, una cosa è l’emozione, e una cosa è il verbo credere che sta in mezzo fra chi ha… (?)
Proviamo a declinare il verbo:
“Io credo che sia così”
“Tu credi che sia così”
“Noi crediamo che sia così”
“Voi credete che sia così”
Il verbo credere, se attribuito a terzi, è uguale a dire: “Si sbagliano”; se è attribuito a me, vuol dire che ci credo.
Non è così con il verbo sapere che è sempre uguale.
La prossima volta potrebbe essere interessante approfondire il tema della credenza e della responsabilità, porre il problema del credere come l’intermedio tra la dimensione emotiva e la dimensione razionale- assertiva. È un problema delicato. Il problema della responsabilità in relazione alla credenza in modo diverso rispetto al volere, sapere ecc.