Corso di Semiotica delle Arti
Facoltà di Design e Arti, Corso di Laurea Specialistica in Progettazione e Produzione delle Arti Visive, IUAV
- Programma
- Corso monografico
- MAURICE MERLEAU-PONTY, Locchio e lo spirito (1964, tr. it. Milano, SE, 1989).
- MICHEL FOUCAULT, Questo non è una pipa (1973, tr. it. Milano, SE, 1988).
- MICHEL FOUCAULT, La pittura di Manet (1971, tr. it. Napoli, Edizioni La Città del Sole, 1996).
- LUCIA CORRAIN (a cura di), Semiotiche della pittura. I classici. Le ricerche, Roma, Meltemi, 2004.
- ALESSANDRO NOVA (a cura di), Velázquez, Foucault e l’enigma della rappresentazione, Milano, Il Saggiatore, 1997.
- GILLES DELEUZE, Francis Bacon. Logica della sensazione (1981, tr. it. Macerata, Quodlibet, 1995).
Testi consigliati di semiotica generale
- PAOLO FABBRI, La svolta semiotica, Bari-Roma, Laterza, 1998.
- PATRIZIA MAGLI, Semiotica. Teoria, metodo, analisi, Venezia, Marsilio, 2004.
Relazione
Quest’anno il corso di Semiotica delle arti tenuto al clasAV dal professor Paolo Fabbri è stato mirato a sviluppare il concetto di visibile in semiotica esplorando i modi in cui la filosofia ha saputo effettivamente misurarsi con l’orizzonte di analisi delle opere d’arte. Nel passaggio dall’estetica alla teoretica, dubitando dell’idea di Martin Heidegger (1935) che l’opera sia “rivelazione” di un significato che la trascende, gesto muto incapace di gettare alcun ponte al di là di essa, si è intuita e poi riconosciuta nella fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty la possibile chiave di volta per la mediazione intellettuale tra la filosofia e la metodologia di indagine del discorso di un quadro. Agli occhi del luminare francese, infatti, l’opera, momento di emergenza delle forme, rende il rapporto che lega produzioni estetiche e filosofia un processo di “concrescita” e di reciproco arricchimento, teorico ed interpretativo. Facendo leva su questo asse, si è deciso di sondare in che maniera la dottrina di Merleau-Ponty sia rifiorita negli studi sulla lingua delle immagini. Abbiamo valutato, da una parte, l’assunzione della fenomenologia nell’attività strutturalista di Michel Foucault, dall’alt de La loica del Mantegna, la relazione di Heidegger sugli zoccoli dipinti da Vincent van Gogh, la descrizione di Hans Georg Gadamer del Ciclo di Kafka di Willibald Kramm e lo studio di Jean-Luc Nancy sulla Visitazione di Pontormo.La tesi che Merleau-Ponty sostiene nel suo ultimo saggio, L’occhio e lo spirito (1961), ha avuto, per il tema del corso, un peso decisivo. Vi si afferma, come è noto, il doppio fondamento della visione, intercorporeo ed intersoggettivo: da un lato sperimentiamo il nostro essere al mondo nell’avverarsi di una continua reversibilità tra vedente e visibile, tra il mondo che ci tocca e ci guarda e noi che siamo toccati e guardati dal mondo -è un reincrociarsi felicemente definito dal filosofo chiasmo percettivo; dall’altro l’occhio del pittore, che restituisce al visibile l’impatto con il mondo mediante i segni tracciati dalla mano, ridesta le esperienze del vissuto nelle altre coscienze, unendo le vie separate ed abitando indivisa in parecchi spiriti. In generale la visione non è dunque una certa modalità del pensiero, ma il mezzo che è dato all’uomo per essere assente da se stesso, per assistere, dall’interno, alla fissazione dell’Essere. Il pensiero è corporeo e, radicato nel sociale, deve tutto alla frequentazione degli altri. Per meglio dire: l’artista scopre delle potenzialità nelle nostre storie di contatto con il mondo, se ne fa un’ottica, una visione logica, e le mette in forma, lasciando al fruitore il compito di «spiegare, per meglio comprendere» (Paul Ricœur), con quali differenze i fenomeni di reversibilità e di empatia si articolano. Perciò descrivere un quadro apporta rigore al lavoro filosofico: consente di sistematizzare le operazioni dando, da qui, libertà allo sguardo. Il ponte esiste e non è fatto di abisso, contrariamente a quel che credeva Jacques Derrida; la sua sostanza è la positività di un sapere investito in tecniche e in effetti e che prende corpo dentro linee, colori e superfici.Come nucleo di riflessione teorica, la fenomenologia si riverbera sulle procedure di analisi già all’interno dell’universo epistemico di Merleau-Ponty. Semiotiche della pittura, il testo d’esame che raccoglie saggi di semiologi, di filosofi, di storici dell’arte, di scrittori e di linguisti impegnati a studiare oggetti visivi, contiene infatti anche la lettura, svolta dal teorico francese, dell’opera di Paul Cézanne (“Il dubbio di Cézanne”, 1948. In Senso e non senso, tr. it. Milano, Il Saggiatore, 1962). La concezione cui si ispira l’intero contributo -la necessità, cioè, di guardarci a partire dalle produzioni del mondo, dai punti di applicazione in cui ci affermiamo (o neghiamo)- fa qui da cornice all’ipotesi che la vibrazione delle apparenze, soluzione costante dei dipinti di Cézanne, indichi la volontà di dipingere non allusioni alle cose, costruite in base ai dati dei sensi, ma le cose nei loro movimenti di genesi, la materia mentre si sta dando una forma, ordine nascente da cui la stessa sensorialità si irradia. Merleau-Ponty torna a più riprese sul fatto che il senso dell’opera non può essere determinato dalla vita dell’artista, dalle sue vicende biografiche, sottende invece una posta concettuale alta, che consiste nel mettere in sospeso l’abitudine a pensare che utensili, strade, case e città esistano necessariamente e siano incrollabili. L’esperienza del visibile è rischiosa – sembra dire il filosofo. Le immagini del mondo si danno si volta in volta e vengono percorse da punti di vista diversi. Non le possiamo trattenere se non a patto di una connivenza con il loro divenire («C’è un minuto del mondo che passa. Non lo si conserverà senza divenirlo» – dichiara Cézanne).Sul fronte delle ricerche attuali la disamina di Merleau-Ponty incontra, per consonanza di temi, gli interessi delle maggiori scuole di semiotica, dedite negli ultimi anni allo studio delle dinamiche di formazione degli oggetti, molto spesso nei termini di una conversione dell’essere in significante. Si argomentano, a livello puramente teorico, le fasi di una significazione in divenire (Fontanille 1999, 2004; Bordron 2000, 2004), usando le forme di testualità come verifica di ipotesi elaborate a priori. La tendenza più in voga porta a ricostruire il percorso di significazione presupponendo alla sua base l’attività percettiva del soggetto, non di rado attribuendo ad essa connotazioni asemantiche. Per questi orientamenti, la lezione di Merleau-Ponty dovrebbe tuttavia bastare a chiarire che unica fonte di conoscenza verace, anche sui processi della percezione, sono le opere, nella maniera di renderla significante e di darle ragion d’essere. Non è sufficiente pensare per vedere: la visione ha bisogno del suo immaginario. Una simile constatazione nasce a proposito dell’analisi svolta nel 1936 da Heidegger su un quadro di van Gogh, ripresa da Meyer Schapiro in un articolo contenuto in Semiotiche della pittura. Si tratta del famoso saggio sugli zoccoli. Tradotto per la prima volta in Italia, “L’oggetto personale come soggetto di natura morta” smentisce la tesi del filosofo, formulata senza un’attenta osservazione dell’opera. Non solo Heidegger -afferma lo storico dell’arte- non si cura di specificare a quale quadro stia facendo riferimento, come se tutte le versioni fossero interscambiabili e presentassero un’identica verità, ma nessuna istruzione interna legittima l’idea che quegli zoccoli esprimano l’essere o l’essenza delle calzature da contadina, o il loro rapporto con la natura e il lavoro. Sono piuttosto scarpe dell’artista, un modello la cui elaborazione è estremamente originale. Infatti, a differenza di altri casi trattati alla stregua di nature morte, gli zoccoli in questione risultano poggiati al suolo e posti in primo piano. L’aspetto logoro e consunto li rende personalizzati, li dota di una specifica fisionomia, mentre la posizione frontale -“ci guardano”, scrive giustamente Schapiro- li innalza al rango di autoritratto. È come se avessero fatto corpo con qualcuno, al punto da diventarne, in assenza, la reliquia. Deformate dall’uso, si fanno inoltre sintomo del cammino percorso. La fuga dall’impianto dell’opera per la fiducia nella proposizione di ipotesi gravitanti intorno al piano della referenza impedisce ad Heidegger di capire che il ragionamento procede dall’interno. Si astrae dal “fittizio” mondo dei segni verso l’entità di un reale emblematicamente rappresentato da nudi prototipi. Tutto questo ha un costo. L’atto di deviazione, cui consegue la dimenticanza della presenza del pittore nel quadro e del significato che le scarpe assumono per lui, si risolve in un fallimento speculativo. Il testo ha i mezzi per portarlo facilmente a galla.Si è discusso della resistenza dell’opera all’investigazione filosofica condotta non a regime anche riguardo alle note di Gadamer sulle illustrazioni del Processo di Kafka di Willibald Kramm (“Il ciclo di Kafka di W. Kramm”, 1979. In Riccardo Dottori, a cura di, Hans Georg Gadamer. L’attualità del bello. Studi di estetica ermeneutica, Genova, Marietti, 1986, pp. 152-156). Nel brano, linguaggio pittorico ed opera letteraria finiscono entrambi per coincidere in quell’idealità che per il filosofo rappresenta il significato ultimo dell’opera d’arte, ovvero l’identità ermeneutica del gioco originario. E tuttavia, come si deduce dallo schema che riproponiamo in basso, i quadri di Kramm sconfessano sistematicamente le congetture del filosofo. Gadamer suppone la presenza di un «pallidamente grigio»? E la serie è invece ricca di colori saturi e dai toni diversi. Si imbatte in una «nebbia impenetrabile»? Tutto è molto nitido. Riscontra una generale «mancanza di espressione»? Attraverso la mimica facciale e i gesti corporei si offrono invece svariate forme di espressività. Parla di «un mondo della realtà che si rifiuta», di «toni dell’irrealtà», di «architettura del ripudio»? E si scopre, al contrario, grande capacità di eloquenza sia a livello plastico che iconico.
GadamerKramm
- “Pallidamente grigio”
“Colori velati”
- Dominanti tonali diverse e con gradi di saturazione alti
- “Nebbia impenetrabile”
- Grande nitidezza
- “Senza espressione”
- Resa di molte forme di espressività attraverso la mimica facciale e le pose corporee
- “Ghirlande dell’inutilità”
- Eloquenza sia a livello plastico che figurativo
Un feedback migliore ha ottenuto il modo in cui Benedetto Croce interpreta uno dei Tarocchi attribuiti al Mantegna (“La «Loica» nei tarocchi detti del Mantegna. Considerazioni e divagazioni”, 1941. In Benedetto Croce. Filosofia, Poesia, Storia, Milano, Adelphi, 1996, pp. 101-107). L’immagine della figura femminile risale, secondo il filosofo, al libro De nuptiis Philologiae et Mercurii, dell’africano Marziano Capella (prima metà del quinto secolo). Ritrae la Dialettica, che tra le sette Arti liberali era il dono nuziale offerto alla sposa. Croce sottolinea innanzitutto che se altri si attennero al canone fissato da Capella per la rappresentazione della figura, molte delle versioni prodotte risultano, però, solo aggregati di immagini, mancano di sintesi. Questa, invece, «ci parla per sé e di sé». È un commento che annuncia già la differenza di valore rispetto alla metodologia di Heidegger. Il filosofo italiano si impegna quindi seriamente in una minuziosa descrizione dell’opera, ricavando, dalla lettura della mimica facciale della donna, una tipologia di stati passionali -«è affisa tra esterrefatta, pensosa e rattristata, eppure con sguardo penetrante». Si sofferma con cura sull’esegesi delle posizioni somatiche: formula l’inferenza che la donna abbia sollevato il mostro sino all’altezza del viso per guardarlo e osserva le tensioni della mano destra, che disegna il gesto istintivo di una ripugnanza, e della gamba e del piede destro, i quali accennano il moto iniziale di arretramento, presente in tutto il corpo. La riflessione finale, di natura ideologica e politica, non manca però di trovare sostegno nel testo, essenzialmente perché le suggestioni riferite provengono da lì. La scena pone dinanzi al dramma di uno stupore, di un orrore al contatto o alla vicinanza di qualcosa di male, e di un intrapreso lavoro per reprimerlo o abbatterlo. Da qui il nome di “Loica” che lo stesso Croce assegna alla figura, come forma di razionalità nel dramma della verità e della lotta contro l’errore. In questo caso il potere dell’immagine passa infine dal livello cognitivo a quello pragmatico, se è vero che il filosofo ne mette in cornice una copia e l’appende alla parete della sua camera, quasi fosse l’effigie di una santa.Su un famoso quadro di Pontormo un filosofo più vicino ai giorni nostri, Jean-Luc Nancy, ha compiuto una lettura costruttiva e molto elegante. Visitazione (della pittura cristiana) (Milano, Abscondita, 2002) considera il momento dell’incontro tra Maria ed Elisabetta un mistero che appare in virtù di meccanismi di dissimulazione. Vengono a contatto due fenomeni di incarnazione, nei ventri rispettivamente di una vergine e di una donna sterile, ma la sovrabbondanza delle vesti nasconde in entrambe lo stato della gravidanza. Nancy fa notare giustamente che dal collo nudo della Vergine, espressione di giovinezza, se ne indovina il corpo, malgrado la mescolanza dei colori, dei volumi e dei drappeggi. Segnala chiazze di luce, dalla provenienza ignota, sul ventre di Elisabetta, proprio laddove «il bambino trasale di gioia» (Luca 1, 39-56). Concentra poi l’attenzione sul circuito di sguardi assicurato dalla presenza delle due serve, che raddoppiano le figure delle donne gravide portando però lo sguardo verso di noi. Tale percorso viene compendiato -sostiene Nancy- dalle due piccole figure a sinistra, appena visibili, simili agli omuncoli in utero di certe Visitazioni. Uno guarda l’altro e l’altro ci guarda. Per il fatto di tenere in mano uno un coltello e una pagnotta e l’altro una bottiglia, segni del corpo e del sangue di Cristo, la coppia, secondo il filosofo, mette in scena la commemorazione dell’Incarnazione. Fin qui l’ipotesi, verificata a lezione, ha una sua reggenza, ci siamo trovati d’accordo. La scommessa dell’artista è quella di far balzare agli occhi l’invisibile, portando alla luce la presenza del prima della luce. L’opera sarebbe chiamata a tradurre il concetto di immemorabile, ossia ciò che precede la nascita e che non si trova nel riferimento ad un passato ma soltanto nell’attualità, in un eterno ritorno o in una presenza inalterabile. Il filosofo non sfugge tuttavia alla tendenza di trarre dal quadro illazioni a sfondo sessuale. Nel punto dove i due ventri si toccano scorge il disegno di un triangolo, rimato a sinistra dalla piega che si forma sotto il gomito della serva giovane. L’apertura al suo interno, come anche nella patta dei calzoni di uno dei due uomini, starebbe ad indicare il sesso. La chiosa prelude purtroppo ad un intero paragrafo sull’argomento, sviluppato ai danni della Madonna del Parto (1460) di Piero della Francesca. L’analisi si esaurisce all’insegna dei concetti di divaricazione, di involuzione, di invaginazione.Che la visione sia un pensiero condizionato dall’intreccio tra vedente e visibile, dentro pratiche discorsive definite, Michel Foucault lo intende invece molto bene. Il filosofo francese eredita dalla fenomenologia, come si è cercato di chiarire in itinere, non solo l’enigma del vedersi vedente -essendo il quadro un analogo secondo il corpo, la medesima cosa è laggiù, nel cuore del mondo, e qui, nel cuore della visione-, ma anche il credo in un continuo rinnovamento del pensiero. Qualsiasi scoperta non è mai un dato acquisito poiché chiama invece istantaneamente dinanzi a sé nuove ricerche. Il più alto grado della ragione -scrive Merleau-Ponty- si manifesta con il constatare uno smottamento del terreno sotto i nostri piedi. L’idea, trasmessa ne L’occhio e lo spirito (p. 62), di una storicità sorda che avanza nel labirinto con deviazioni, trasgressioni, invasioni di campo e spinte improvvise è innegabilmente alla base della nozione sviluppata da Foucault di archeologia, ovvero di analisi del discorso nelle sue modalità di archivio. L’oggetto di un sapere, stando al principio di un’evoluzione cronologica né regolare né omogenea, è per Foucault il dominio delle cose dette, l’esistenza accumulata dei discorsi, nelle loro relazioni di successione, di dominanza, di implicazione, di sfalsamento, di eventuale coincidenza. Si tratta di un sistema non sottomesso a meccanismi di causa necessitante, convocati dall’esterno, ma che traccia esso stesso la storia, lungo processi di instaurazione e di trasformazione. Inoltre, pur configurandosi come l’insieme dei discorsi effettivamente pronunciati, l’archivio continua a funzionare, donando la possibilità ad altri discorsi di apparire. Tanto in Merleau-Ponty quanto in Foucault il dibattito epistemologico sulla conoscenza trova un campo di applicazione propizio nel linguaggio della pittura, essendo esso non istituito dalla natura e diretto anzi, specie in epoca moderna, a rompere l’aderenza dei sistemi all’involucro delle cose. Del resto, accanto alla descrizione archeologica della sessualità e del sapere politico, l’altra direzione che Foucault individua nelle ultime pagine de L’archeologia del sapere (1969) è proprio quella relativa all’analisi del quadro, passibile di ricostituire il discorso latente del pittore, disimplicando la filosofia che forma la sua visione delle cose. Per lo studioso francese la pittura non sarebbe una pura visione o un gesto nudo di cui le significazioni mute e indiscriminatamente vuote dovrebbero essere riscattate da interpretazioni ulteriori, ma un dominio attraversato dalla positività di un sapere. In linea con le finalità generali del corso, abbiamo tentato di verificare tale assunto rilevando il metodo adottato da Foucault nella descrizione empirica di singole immagini o di repertori da lui selezionati.Il nostro excursus ha avuto inizio dall’esame che l’epistemologo compie del capolavoro di Velázquez, Las Meninas (1656). Si tratta di un saggio scritto nel 1965 e significativamente reso capitolo primo di Le parole e le cose (1966), poi ripubblicato in Italia in una raccolta curata da Alessandro Nova (Velázquez, Foucault e l’enigma della rappresentazione, 1997). A detta di Foucault, l’opera, con le sue immagini, gli sguardi cui si offre, i volti che esibisce, i gesti che la fanno nascere, segna la scomparsa dell’onere della somiglianza, più precisamente della cosa a cui somiglia e del soggetto per cui non è che somiglianza, e l’avvento della pittura come pura rappresentazione. Accade, paradossalmente, attraverso l’elaborazione espressiva di una metatesi sulla rappresentazione classica. La pittura viene infatti presentata scomposta in tutti gli elementi che la facevano essere rappresentazione: il pittore, i modelli, il pennello, la tela, l’immagine allo specchio. E l’atto del dipingere diventa il sapere dispiegato e scintillante della pittura stessa. L’opera produce uno spazio di reciprocità tra chi guarda e chi è guardato, tra la scena e i suoi esterni, ma mostra anche diverse soglie di visibilità: minime, ad esempio in certi quadri sullo sfondo, massime, nella restituzione, garantita dallo specchio, dei simulacri del re e della regina. In mancanza di tale dispositivo, le due figure resterebbero doppiamente inaccessibili -sottolinea Foucault: in primis, per un effetto di composizione che è proprio del quadro; quindi per la legge che presiede all’esistenza dell’opera d’arte in genere. Nella prospettiva dell’archivio, inteso come ricerca del passato ma mai con l’idea di studiare l’origine prima o il fondamento a partire da cui tutto sarebbe possibile, Las Meninas annuncia per Foucault il momento di instaurazione dell’autofiguratività, che è condizione imprescindibile perché il quadro possa rapportarsi ad un qualsiasi significante del mondo. Né parole né cose, dunque. Il titolo del capolavoro di Foucault è provocatorio e probabilmente pensato per una tensione semantica con il testo, che parla invece di organizzazioni, di trame, di reticoli, tanto tra le parole quanto tra le cose. Non esistono ordini se non attraverso la griglia di uno sguardo, di un’attenzione, di un linguaggio.Sui processi di evoluzione della visione il filosofo torna nel 1971, dimostrando, con coerenza, che se la pittura ha cominciato a costruire la storia della visione grazie a Velázquez, la tappa definitiva nella conquista dell’autonomia è raggiunta con la produzione artistica di Manet. Questi chiuderebbe allora l’epoca di un certo tipo di rappresentazione, contrariamente a quanto pensa Michael Fried (Manet’s Modernism or, The Face of Painting in the 1860s, Chicago, The University of Chicago Press, 1996), secondo cui il pittore francese va considerato il fautore del modello dell’estetica teatrale. Dai dipinti analizzati nel saggio La pittura di Manet, Foucault evince l’ipotesi che l’opera, lungi dall’essere finzione di realtà, emerge oramai come «pacchetto di volumi e di superfici», oggetto sintattico di proprietà materiche che invita a riflettere. Due i sintomi chiari di questo status: innanzitutto gli spazi aggettano, non più concepiti secondo le intelaiature prospettiche di simulazione della profondità, e favoriscono la formazione di davanzali, prossimi alla zona di fruizione; secondariamente la luce, anziché nascere per effetto di fonti interne, proviene dall’esterno, dalla parte dello spettatore. Nelle numerose osservazioni offerte da Michel Foucault a proposito del fattore luministico in Manet, incide senza dubbio la tesi di Merleau-Ponty, di derivazione cartesiana (I ciechi vedono con le mani), della luce pensata come un’azione per contatto, simile a quella delle cose sul bastone del cieco. Per la teoria fenomenologica, modello della visione è il tatto, essendo il tramite delle mani a comunicare allo sguardo le tracce dell’esperienza dall’interno. Ma spetta a Foucault il merito di avere saldato tale concezione del sensibile all’indagine sulle pratiche estetiche e in generale sulle forme di linguaggio. Così, se l’Olympia (1863) è una trasformazione estetica che provoca scandalo, lo è per la luce che tocca, che colpisce violentemente e frontalmente la nudità. Il filosofo francese pone poi un altro problema interessante, indicativo della modifica dei rapporti tra vedente e visibile. Secondo Hans Belting (1983) l’opera di Manet tradurrebbe in pittura i caratteri dell’istantanea fotografica, equivarrebbe cioè al quadro di un museo eterno. E tuttavia, specie nella descrizione di Un Bar aux Folies-Bergère (1881-1882), Foucault dimostra che è piuttosto la cronofotografia di Muybridge a venire presa in carico. Non lo afferma esplicitamente, ma prova che il movimento fatto subire agli attori nello specchio, di tipo cinematografico, è contrario all’idea della figura in posa. Apparentemente lo specchio assume lo stesso ruolo ricoperto in altri casi dal muro (L’Exécution de Maximilien, 1868; Le Bal à l’Opéra, 1873-1874): agisce da barriera al costituirsi della scatola prospettica e fa essere spazio una superficie piana. Trattandosi poi di un dispositivo riflettente, rafforza la scelta di negare la profondità: infatti non solo non vediamo ciò che sta dietro la donna, ma alle sue spalle non si vede se non ciò che le sta dinanzi. In questo Un Bar aux Folies-Bergère appare l’esatto opposto delle Meninas di Velázquez, dove l’oggetto dello sguardo è intuibile unicamente dall’immagine appannata sullo sfondo. Nel quadro di Manet la funzione principale dello specchio consiste però soprattutto nell’ostentare l’incompatibilità di posizione tra Suzon e il suo riflesso, in rapporto alla faccialità esposta al pittore e allo spettatore. Entrambi si vedono costretti ad occupare simultaneamente o successivamente (il quadro condensa due fasi distinte di rappresentazione, durante le quali lo specchio ha ruotato -è l’ipotesi sostenuta da Thierry de Duve in “How Manet’s A Bar at the Folies-Bergère Is Constructed”, Critical Inquiry, 25, 1998, pp. 137-168) due punti inconciliabili. Altre importanti incongruenze vengono notate da Foucault, una relativa all’ombra che dovrebbe sostare sul volto della barista se davanti a lei ci fosse l’uomo con cui parla nello specchio (“presenza/assenza”), un’altra concernente il contrasto tra sguardo alla stessa altezza e sguardo dall’alto (“visione discendente e visione ascendente”). L’effetto che ne deriva è sempre lo stesso. L’opera, a differenza di quanto accadeva in passato, non assegna più allo spettatore un posto chiaro e fisso, che lo includa con precisione nella scena; comincia invece a spostarlo, procurando, a livello patemico, un certo disagio. L’interlocutore di Suzon è risospinto in una zona impossibile da raggiungere.Nel dominio della pittura un movimento speculativo ulteriore si registra, secondo Foucault, sotto i numi del Surrealismo. Questo non è una pipa (1973) riconferma l’ascendente fenomenologico dello strutturalismo foucaultiano e fornisce inoltre segni sulle relazioni che intercorrono tra il pensiero di Merleau-Ponty e gli schemi di lavoro di Magritte. Il Surrealismo realizzerebbe, in chiave tecnico-teorica, il potenziale filosofico di una rassomiglianza sentita non come il risultato della percezione ma come ciò che la fa scattare. Di qui le affinità con il sistema artistico di Giorgio De Chirico. Stando all’ipotesi di Foucault, in entrambe le versioni dell’opera (La trahison des images. Ceci n’est pas une pipe, 1929; Les deux mystères, 1966), il pittore francese avrebbe segretamente costruito un calligramma per poi disfarlo e vedere se non fosse possibile riscontrare delle similitudini. L’anticalligramma, quei due elementi tenuti insieme da una funzione referenziale e da un indicatore linguistico, il ceci, mostrativo e designativo, nasce dall’allusione al calligramma: ricorda la trappola di una duplice grafia che non dice e non rappresenta mai nello stesso momento. La prassi che intrecciava disegno e scrittura sembra essere stata annullata per il ritorno di ogni cosa al suo posto: in alto la figura, fluttuante nel suo silenzio originario e libera da ogni vincolo discorsivo -scrive Foucault; in basso il testo, che ridiventa legenda. Ma le parole restano disegno e, a ben guardare, la figura conserva la pazienza della scrittura. Oltre l’intenzione immediata del pittore nasce, per il filosofo, la sollecitazione ad approfondire il tema verso un’intenzione ulteriore. Per Foucault l’arte di Magritte è legata all’esattezza delle somiglianze perché fa sorgere, da essa, similitudini sepolte. Se la somiglianza comporta un’asserzione unica, la similitudine moltiplica le affermazioni diverse. Per fenomeni di contagio, poi, la similitudine produce altre similitudini ed i giochi infiniti di queste fondano delle metamorfosi. Così, in un quadro come Chant d’amour, più volte citato a lezione, la barca in mare non somiglierà soltanto a una barca, ma anche al mare, pertanto il suo scafo e le sue vele saranno fatte di mare. È chiaro il riferimento al secondo capitolo di Le parole e le cose, imperniato sulla distinzione tra quattro tipi di similitudine: la convenienza, definita ragione sorda della vicinanza; l’aemulatio, somiglianza senza contatto che nasce per una ripiegatura dell’essere i cui due lati immediatamente si fronteggiano e, anche disseminati nel mondo, si danno risposta; l’analogia, dal potere immenso perché si fonda sulle somiglianze più sottili dei rapporti e arriva a far svanire l’individualità delle cose, rendendole estranee a ciò che erano; la simpatia, principio di mobilità che agisce allo stato libero secondo misteriosi fenomeni di attrazione, capaci di trasformare. Per contro, l’antipatia racchiude ogni specie nella sua differenza ostinata e nella sua propensione a perseverare in ciò che è. A detta di Foucault, la messa in forma di ciascuna di queste classi di relazione presuppone un sapere che potrà, che dovrà procedere per accumulo infinito di conferme vicendevolmente implicantesi. Allo stesso tempo, non essendovi somiglianza senza segnatura, occorre che le similitudini sepolte vengano segnalate sulla superficie delle cose. Quello che Breton ascrive alla poetica dell’humour nero, il filosofo fa valere invece come operazione logica, lavoro di spostamento e di trasferimento di significati funzionante in Magritte non per associazioni disparate ma per via di legami segreti. Traslazioni e slittamenti non hanno né punti di partenza né supporto. Lo si vede anche in Les liaisons dangereuses (1926), dove tra il muro e lo specchio il corpo della donna viene soppresso. Nondimeno «il contesto -ammette il pittore in una delle lettere a Foucault riportate in fondo al saggio- può dire che nulla è confuso, salvo la mente che immagina un mondo immaginario» (p. 92).Consultando il primo volume di Scritti di Magritte, edito in Italia per Abscondita nel 1989, abbiamo facilmente ricavato il proposito di concepire l’opera alla stregua di un giallo, di un mistero. Si rinvengono citazioni di Edgar Allan Poe e di Allan Pinkerton. A questo fine, al tentativo di creare concetti sul piano di una sfida, risponde l’intrigante strategia di enunciazione scelta da Magritte, volta a che la vista si arresti tra l’oggetto e noi, all’opposto del trompe-l’œil, che venendoci addosso, impedisce la meditazione. Il pensiero sarà pensiero del non comune e del non pensabile, il senso tutto ciò che è impossibile per il pensiero possibile. Non è un caso se il dispositivo ritenuto più adatto e quindi il più impiegato in questa logica sia ancora lo specchio. Presente in Velázquez come protesi estensiva che immette nello spazio scenico altri regimi di visibilità, superficie incomparabile per la mobilitazione del punto di vista in Manet, lo specchio ritorna in molte opere di Magritte proprio perché, contenendo l’invisibile, ciò che è impossibile da pensare investa lo sguardo (False mirror, 1928; The Key of the Fields, 1936). L’ossessione per la specularità è un dato che rafforza le interdipendenze riscontrate tra la fenomenologia, l’epistemologia di Foucault e il Surrealismo. Merleau-Ponty sostiene con chiarezza che il circuito che va dal vedente al visibile si realizza per lui grazie alla mediazione dello specchio, «strumento di una magia universale che trasforma le cose in spettacoli e gli spettacoli in cose, me stesso nell’altro e l’altro in me stesso» (L’occhio e lo spirito, p. 27). Nelle stesse pagine, a suffragio dell’esistenza di una riflessività del sensibile che l’utensile traduce e raddoppia, il filosofo ricorda, sorprendentemente, l’esempio di Paul Schilder (The Image and Appearance of the Human Body, New York, 1935, tr. it. Immagine di sé e schema corporeo, Milano, Franco Angeli, 1973, pp. 262-263) della pipa fumata davanti allo specchio: «Sento la superficie liscia e bruciante del legno non solamente dove sono le mie dita, ma anche in quelle dita gloriose, in quelle dita puramente visibili, che sono nel fondo dello specchio». Conosciamo poi il ruolo giocato dal trucco meccanico nella formulazione del concetto di eterotopia, alla cui base è l’assunto che “L’espace, c’est ce qui se passe“. A parere di Foucault (Des espaces autres, 1967, tr. it. in AA. VV., Michel Foucault. Eterotopia. Luoghi e non-luoghi metropolitani, Milano, Associazione culturale Mimesis, 1994), lo specchio rappresenta il dispositivo di cambio tra l’utopia e l’eterotopia: lì mi vedo laddove non sono, in una specie di ombra che mi rimanda la mia visibilità. Utopia dello specchio, speranza senza luogo. Ma è a partire da là che mi scopro assente nel posto in cui sono, poiché è là che mi vedo. Da questo sguardo che si posa su di me, io ritorno verso di me e ricomincio a portare il mio sguardo verso di me, a ricostituirmi là dove sono -eccedenza di realizzazione e condensazione dell’esperienza tipiche dell’eterotopia. Ma se nello specchio coincide il punto di passaggio, quale costrutto sancisce invece risolutamente il decentrarsi della nostra visione delle cose? La proposizione teorica di Michel Foucault opera la necessaria differenziazione, colta grazie all’esercizio di analisi, tra il valore del «fantasma dello specchio, che trascina fuori la mia carne» e la condizione di esteriorità del quadro, che lo integra. Dal quadro lo statuto dell’identità ci torna sempre indietro come differenza di orizzonti, di sentieri percorribili. Solo all’interno di un’organizzazione di senso “debraiata” dal nostro corpo, e in questi termini “disumanizzata”, possiamo ripensare il corpo, le sue prassi ed ogni tecnica impiegata. Perciò il quadro si dimostra essere il luogo privilegiato di ogni strutturalismo e «l’egli, tanto denigrato sul versante della creatività, assieme al cavallo una delle grandi conquiste dell’uomo», secondo una delle massime di Algirdas Julien Greimas.Nella linea di un’intelligibilità delle esperienze a partire dalle sensazioni che il visibile suscita si colloca l’indagine effettuata da Gilles Deleuze sull’opera di Francis Bacon. In Logica della sensazione (1981) abbiamo individuato il documento più prezioso per confutare l’idea che la pittura si limiti all’attività e alle pratiche dello sguardo. Anche in questa sede la tradizione fenomenologica è la fonte imprescindibile. Come ammette Deleuze, era stato Cézanne, l’artista preferito da Merleau-Ponty, ad intendere per “sensazione” il superamento della figurazione procedendo verso la Figura anziché in direzione della forma astratta. Bacon porterebbe allora avanti il tentativo del suo predecessore. Deleuze dimostra infatti che in Bacon la condizione di esteriorità del quadro, rafforzata dalla ridondanza di tipi di contorno (tondo, pista, pozzanghera, letto, materasso…), restituisce le avventure del sensibile e fa sentire i movimenti del corpo e della carne proprio a detrimento della rappresentazione. Si deve al fatto che la pittura di Bacon è una pittura di forze. Queste agiscono sulla Figura deformandola. Se risalta la propensione per la forma del trittico, tuttavia già la singola figura produce accoppiamenti, in qualità di diagrammi, ovvero di livelli diversi di sensazione. Il corpo è intensivo, senza organi, ed il suo cronocromatismo, ovvero il tempo che lo abita nelle venature di colore, crea zone di indiscernibilità tra l’uomo e l’animale. Come fatto comune all’uomo e all’animale, il corpo emerge in quanto carne (chair) o carne macellata (viande).Senza perdere nel complesso la sua riconoscibilità, l’immagine soggiace ad una logica di forze. Non si può parlare di trasformazione, perché tali dinamiche si verificano invece sul posto e sulla Figura in riposo: ora l’armatura va verso la Figura -movimento di sistole-, ora il corpo si apre e fugge -movimento di diastole. L’ombra è essa stessa corpo fuggito attraverso un punto preciso, localizzato nel contorno, mentre il grido è l’operazione attraverso cui il corpo fugge dalla bocca. Nelle giornate dedicate alla lettura di Deleuze la questione del contrasto tra la rappresentazione del grido e quella dell’orrore ha chiarito, meglio di ogni altra, l’idea di una visibilità fuori dallo sguardo. Alla violenza dell’orrore, visibile, subentra in Bacon l’effetto sensibile del grido, ottenuto per via della cattura e della rivelazione di una forza impercettibile. La rappresentazione lascia il posto all’efficacia di una non visibilità che, sacrificando il comfort dello spazio ottico, ne fa emergere altri, tattile e uditivo, ad esempio. Non è certo una pittura che conceda la pace dei sensi. La dimensione estesica è invece sottoposta a tensioni, a rovesciamenti logici, a scambi e a vicarianze organiche. Nel perseguire la dissoluzione della forma, l’espediente tecnico cui l’artista fa ricorso consiste in un trattamento che Deleuze chiama malerisch, riprendendo il termine macula (“macchia”) usato da Wollflin per designare lo stile pittorico e distinguerlo dal lineare, che alla massa predilige il contorno. In Bacon tutti i risultati delle azioni sulle forme discendono e si calcolano in base alla modulazione del colore, fattore in cui convergono i tre elementi del suo sistema artistico, l’armatura, la Figura e il contorno. Per il filosofo, e secondo un principio di funzionamento che in semiotica diremmo semisimbolico, il tempo stesso sembra essere due volte l’esito del colore: come tempo che passa, nella variazione cromatica dei toni spezzati che compongono la carne; come eternità del tempo, nella monocromia della campitura. La coesistenza di tutti i movimenti nel quadro costituisce il ritmo. Il senso che ne deriva è affidato non solo ai rapporti di caldo e di freddo e ai moti di espansione e di contrazione determinati dalle differenze di tinta, ma anche alle relazioni fra i regimi di colore, agli accordi fra toni puri e toni spezzati. La percezione di tale colorismo, vale a dire l’effetto provocato dall’unità di queste componenti, è ciò che costituisce in Bacon la visione “aptica” (stando alla definizione di Riegl, da apto, “toccare”). Viene concessa allo sguardo la possibilità di farsi tatto, di avanzare come se fosse mano.Preconizziamo l’efflorescenza di una teoria del visibile che non più vincolando l’arte ad essere sistema di significazione del canale della vista, si apra ad esplorare da diverse angolazioni i ritmi di una sensorialità che abbiamo in comune. Solo rendendo commensurabili i ritmi, i confronti con altre organizzazioni del senso, in primis la musica e il linguaggio verbale nel suo livello intonazionale, diventano possibili.