Da: AA.VV., La memoria di Cristo. Le copie della Sindone: verità di fede storica, a cura di Ferdinando Molteni, Protagon Editori Toscani, Siena, 2000.
La statua e il Lino
Per tutto l’anno del Giubileo, chi entrerà nella basilica di S. Stefano, la Gerusalemme bolognese potrà vedere, nella penombra di una cappella una statua in bronzo patinato di 1,78 cm d’altezza, della larghezza di 53 cm; lo spessore è di 26 cm, il peso di 120 kg.
Rappresenta un Cristo morto, rivolto verso l’altare centrale di S. Vitale e Agricola Protomartiri, con la chiesa romanica alle spalle, secondo l’inclinazione delle scale verso il presbiterio. Chi l’ha “adagiato e adeguatamente illuminato con luci fredde, nel gelo umido dell’ambiente (ha) pensato che fosse la sua naturale tomba, il suo catafalco funebre”1.
Non è però, come si potrebbe pensare, parte di un Compianto, nella tradizione emiliana di Niccolò dell’Arca o di G. Mazzoni. È una figura fusa a cera persa in una fonderia di Faenza ed esposta nel quadro delle manifestazioni culturali di Bologna, capitale europea della cultura. L’ha presentata al pubblico Claudio Stagni, vescovo ausiliare di Bologna, la domenica del 9 gennaio 2000.
È una copia fedele della Sindone.
L’ha realizzata lo scultore Luigi Mattei, così come i disegni e il modello in terracotta, a partire da copie in misura del Sacro Lino di Torino, in positivo e in negativo. L’esecuzione tridimensionale di un’immagine planare si è effettuata con le garanzie dottrinali e scientifiche di docenti universitari (antropologi, anatomisti, ingegneri meccanici) e di studiosi del Centro internazionale di Sindonologia a Torino2.
Con scrupolo estremo quanto alla precisione e alla fedeltà. Per la statura e le proporzioni somatiche, le corrispondenze alle due immagini (prona e supina) della Sindone sono state condotte su tabelle di valori antropometrici, “in particolare sulle quote e sugli indici riferiti a: larghezza massima della testa, larghezza della fronte, altezza auricolare, altezza della faccia, larghezza bizigomatica, altezza dell’orbita, larghezza dell’orbita, altezza e larghezza del naso, larghezza della bocca, altezza mentoniera, indici relativi; larghezza delle spalle, diametro trasversale toracico, lunghezza arto superiore, lunghezza arto inferiore, lunghezza vertico-ischiatica, lunghezza ischio-malleolare, lunghezza vertico-pubica, statura e indici relativi”3. Fedeltà che è, lo vedremo, anche fede: la parola /religione/ deriva non da legare ma da eligere (re-eligere), trascegliere scrupolosamente, ritualmente.
Fedeltà parziale beninteso, dato il cambiamento della sostanza (con la sparizione del tessuto) e la trasposizione tridimensionale, la quale, nell’intenzione esplicita dell’autore, dovrebbe rendere “tangibile la fisicità riferita dal Sacro Lino (…): la corporeità solenne e misteriosa di un Uomo”. Si impongono però delle variazioni: “per le misure antero-posteriori si è ricorsi agli indici della anatomia artistica” e all’intuizione creativa, nel pieno rispetto – si insiste – degli indici anatomici. Per esempio: “sono state realizzate prove di patina con colorazione delle tracce ematiche sul volto e derivanti dalle ferite dovute alla crocefissione” e tolti i segni delle ferite, battiture e spine “per non appesantire l’immagine”. Ma l’intento estetico, volentieri riaffermato, non è il solo: si tratta di contribuire agli studi di sindonologia. “… Completata l’impresa è nata, non prevista, la possibilità di aprire un ‘nuovo’ tipo di indagine e di studio, non meno autorevole degli altri, sicuramente evidente e spettacolare: l’esame del CANONE, deducibile dal lavoro compiuto, legge formale derivata dalla ricostruzione tridimensionale”. Un buon uso dell’immagine: in fondo o in orgine eikon, da cui /icona/, ha tra i suoi derivati da eikazein: congetturare.
Ma non è certo questo il vero senso della nuova Sindone, della sua vocazione passionaria e del suo invito catartico. Per l’autore del bronzo:”Il ‘vero Dio-vero Uomo che ha abitato tra noi’ non poteva che godere di una straordinaria ‘visibilità’, testimoniata dalle scritture, deducibile dalla Sindone”. Si tratta di rendere “l’imponenza e la ieraticità del ‘più bello dei figli degli uomini’. La forza emanata dall’immagine così ottenuta contribuisce a rendere più affascinante il Mistero”4.
La collocazione nello spazio sacro carica la “copia” della Sindone di efficacia simbolica. Alla statua del Cristo morto si sovrappongono i tratti soprasegmentali – direbbe il semiologo – del rituale, cioè di un campo di realtà in cui ogni dettaglio è un segno. La basilica di S. Vitale a Agricola protomartiri, risponderebbe alla “scelta naturale per il significato della testimonianza di sangue”. E nello stesso tempo il testo sindonico colma di senso un luogo a cui i restauri di fine Ottocento avrebbero tolto la caratterizzazione d’antica chiesa del Martyrium, ridenominata verso il 1100, S. Croce per il legno conservato in un preziosi reliquiario del XVII sec. e custodito oggi dalla congregazione benedettina di Monte Oliveto. “L’uomo nudo per la chiesa nuda”.
L’immagine di bronzo della figura misteriosamente impressa sul sudario permette, come dice Don Sergio Livi, o.s.5, di percepire “intuitivamente che questo corpo è la sintesi e la vittoria dei problemi dell’uomo”; che “quel corpo segna il termine di una parte della storia”. Non è solo gusto estetico quello per cui: “soltanto il pensiero che queste potessero essere le fattezze del Figlio fatto Uomo mi getta nell’abisso di un amore pazzesco”. Chi si avvicina con la fede sa che: “È morto eppure è vivo (…) è un morto che vive”. Nel tempo del Giubileo.
Un segno diafano
La “statua” della Sindone pone alcune domande alla semiotica e all’antropologia dell’immagine, alle sue modalità rappresentative, alla percezione estesica e patetica, alla sua efficacia catartica. Sono domande di lunga durata, di struttura più che congiunturali o evenemenziali; domande che rispondono ad un regime di discorsi e di segni che da tempi lontani continua a manifestare i suoi effetti. Porre queste domande alla replica sindonica di bronzo, ci permette di pensare il suo singolare statuto di senso. e di situarlo nella cultura contemporanea.
(i)
In primo luogo va interrogata la scelta di passare alle tre dimensioni. Si tratta di un movimento “aptico” destinato a rendere tattile l’immagine bidimensionale e senza sfondo della Sindone. Oggi l’impronta della figura non basta più a garantire la sua verità: è necessario rafforzare quella somiglianza che per la cultura cattolica dell’immagine ha sempre fondato l’effigie del Cristo. David Freedberg6 ha notato incisivamente che, per i cattolici, le immagini del Cristo e degli Apostoli non erano solo i pegni simbolici d’una coerente ontologia dogmatica. Per tutta la retorica apologetica, la pietra angolare era “che certe immagini antiche fornivano testimonianza sicura dell’aspetto dei Cristo e dei Santi e che questo fattore giustificava la loro interessante rappresentazione”. Caso paradigmatico del rapporto tra precisione (riflessiva) e verosimiglianza (transitiva) è l’immagine del Cristo, Veronica o Mandylion. Dato il dogma dell’incarnazione noi “possiamo conoscere il Cristo solo se si incarna come uomo e dunque dobbiamo essere in grado di rappresentarlo (…) nella forma più esatta, altrimenti mettiamo in discussione la sua integrità e unità divina”. Nella sua effigie, in tensione permanente tra dettaglio e idealizzazione, l’assenza diventa presenza. Per questo il lenzuolo impresso o epitapfios, è sempre miracoloso ed “è la sola classe di immagini che non permette inesattezze – l’impronta diretta della sua faccia e del suo corpo. Tutte le altre immagini devono sforzarsi di ottenere la maggior verisimiglianza possibile”. A partire dalla Sindone quindi “abbiamo a disposizione un’immagine che si ritiene sia stata impressa dai veri tratti del Cristo e quindi provvista d’ autorità al fine della rappresentazione”.
Nella terminologia di N. Goodman7, il testo “impronta” della Sindone è l’autografo di una presenza da cui possono legittimamente essere tratte altre copie allografe dotate degli stessi caratteri. Nonostante le variazioni di sostanza e di forma, la Sindone è uno spartito visivo da eseguire che permette variazioni importanti, suscitando sempre, come si dice in musica, l’originale. Il bronzo della Sindone nella Gerusalemme bolognese non è copia o rifacimento, ma una Esecuzione, nel senso forte del termine, al di là di ogni distinzione tra vero o falso. Essa è, per chi abbia fede, assolutamente fedele. E forse suscettibile di produrre ulteriori esemplari.
(ii)
Ma questa immagine autografa dai connotati esattamente somiglianti, ha una strana semiosi. È un segno che vale più per il suo rinvio che per la sua fattività. Segno diafano nel senso di dia-fanein, apparenza che rinvia ad altre apparenze. Come diceva Tommaso d’Aquino (e poi C. S. Peirce): la relazione semiotica per sua natura non habet quod ponat aliquid sed ad aliquid. Non si riferisce a qualcosa ma rinvia ad altri. È un segno ostensivo: non rappresenta fattezze ma dà a vedere a qualcuno; non è mimesi ma deissi8. L’effige è etimologicamente Sfinge, ma in movimento. Come dice M.-J. Monzain, il Cristo non sta nell’immagine-impronta o nella sua replica “è questa che va verso il Cristo che continua a ritrarsene. E nel suo ritrarsi confonde lo sguardo per farsi occhio e sguardo a sua volta”9. Il senso dell’icona risiede in questo faccia a faccia. È questo che è in gioco nella Sindone, non la sua mimesi, ma la grazia efficace nello scambio degli sguardi Il più sublime dei pensieri è senza sostanza se è senza allocuzione, diceva Bachelard.
La Sindone si dà appunto come allocuzione, meglio, come apostrofe; ma questa apostrofe, che è l’oggetto e la forza d’uno sguardo fisso e lontano, qui è una prosopopea, cioè evocazione e allucinazione del morto. Il prosopon è viso e maschera e la Sindone un’apostrofe visiva ad occhi chiusi, un vedere senza guardare. Anche oggi, di fronte alla sua esecuzione in bronzo, c’è chi chiede di vedere gli occhi di Dio, di guardare quello che hanno visto10. E si comprende che coloro che sono presi in questo universo discorsivo, in questo regime di segni possano infinitamente replicarne il dispositivo. Non per il fatto della faccia, ma per volere quel che il volto vuole.
Che senso ha allora l’accanimento scientifico di cui è oggetto?11
Ma questa è un’altra storia.
Note
- V. “Il corpo dell’uomo della Sindone”, in Settechiese, a. V, n.1, luglio- settembre 1999.
- Il professore (e monsignor) Fiorenzo Facchini (direttore dell’Istituto d’Antropologia dell’Università di Bologna), il professor Lamberto Cuppini (direttore dell’Istituto di Anatomia dell’Università di Bologna e delegato per l’Emilia Romagna del Centro internazionale di Sindonologia) e per le ricerche meccaniche, il professor Guido Fanti (ingegnere meccanico dell’Università di Padova).
- V. relazione tecnica a cura di L. Mattei.
- Settechiese, op. cit.
- Settechiese, op. cit.
- Freedberg D., Il potere delle Immagini, Einaudi, Torino 1993, cap. 9, §2.
- Goodman N., I linguaggi dell’arte, Saggiatore, Milano 1984.
- Martineau E., “La mimesis dans la Poétique”, Revue de métaphysique et de morale, n. 4, 1977.
- Mondzain M.-J., Image, icone, économie, Seuil, Paris, 1996.
- Settechiese, op. cit.
- V. il Simposio di Villa Gualino, che ha avuto luogo dal 2 al 5 marzo 2000, che si proponeva di fare il punto sui risultati della ricerca scientifica e storica che ha portato allo stato attuale di conoscenza. “Lo scopo – per il prof. Silvano Scannerini, presidente del Simposio – è di determinare esattamente cosa conosciamo e cosa non conosciamo sulla Sindone in termini strettamente scientifici. Miriamo ad ottenere una fotografia completa degli studi attraverso le opinioni dei diversi esperti qualificati”.