Da: aut aut, Il Saggiatore, n. 378, giugno 2018, pp. 125-136.
Il mondo dell’arte è appunto il mondo estremo dei segni.
G. Deleuze, Marcel Proust e i segni
Nel 1994 ho fatto parte del Monumento a Félix Guattari. Dapprima senza saperlo, persuaso di rispondere all’invito dell’amico Jean-Jacques Lebel (JJ) a un intervento “metalinguistico” sul pensiero e l’attività di Félix Guattari, che conoscevo come semiologo e come attivista politico nel periodo intenso del 1977 a Bologna. Conoscendo anche l’autore del Monumento – “pittore della trasversalità” come lo definiva Guattari -, avrei dovuto sospettare che non era così. Il tavolo e il microfono a cui mi trovai seduto – accanto all’autore, ad Allen Ginsberg, Robert Fleck, Édouard Glissant, Jacqueline Cahen, Bernard Heidsieck, Ilan Halevy, Anne Querrien, Allan Kaprow e altri – appartenevano a pieno titolo alla grande installazione del Beaubourg; io stesso ero un nodo di quell’esteso, aperto agencement collettivo di enunciazione di cui Félix e JJ sono stati entrambi e ciascuno alla sua maniera, teorici e operatori.
L’installazione era parte della mostra Hors limites. L’art et la vie: ogni giovedì artisti, antipsichiatri, poeti, ecologisti, attivisti hanno integrato quel “blocco di sensazioni” con un bricolage di gesti, suoni, improvvisazioni e letture; un moto browniano di concetti e una babele di affetti. Una macchina di segni, come l’avrebbe chiamata Guattari, a cui i novanta e più interventi militanti, artistici e politici che si sono succeduti hanno aggiunto il vigore performativo di un montrage agonista e protagonista. Un evento che ha lasciato il segno.
Come nodo di questo testo collettivo, nutrivo allora due progetti: collocare il pensiero di Guattari nella corrente semiotica che è la mia e operare uno spostamento dell’arbitrario alfabetico, per modificare un errore che sfiora l’aberrazione ottica. Nel corso del mio intervento avevo citato infatti come Guattari e Deleuze – e non come Deleuze e Guattari – gli autori dei due volumi di Capitalismo e schizofrenia: L’anti-Edipo e Mille piani, di Kafka, di Rizoma, di Che cos’è la filosofia?. Nonostante le dichiarazioni esplicite dei due autori e la documentazione di genetica testuale è al solo Deleuze che viene attribuita un’opera filosofica e teorica elaborata congiuntamente a Guattari. Eppure Deleuze ha esplicitato il senso di ciò che li legava. Opponeva l’Et all’Est: a differenza dell’ontologico Est (È), Et (E) è la molteplicità e la diversità e soprattutto “non è né l’uno né l’altro, sta sempre tra i due, è la frontiera […] una linea di fuga o un flusso”1. Il guattareuze, com’è stato definito, è l’accettazione della singolarità, a partire dall’affetto di una distanza amativa (cfr. Jankélévitch) e un generatore duale di concetti, comparabile a quello di Marx ed Engels. Un’enunciazione a variazioni che Deleuze riprenderà poi da Pasolini come un Discorso Indiretto Libero.
Alla corporazione filosofica – come a Badiou – sfuggiva allora e ancora oggi l’apporto originale del pensiero teorico di Guattari, che si manifestava con un’incessante invenzione neologica, dovuta alla sua formazione psicoanalitica, linguistica e semiotica. Il rimprovero che gli veniva rivolto “di voler mettere la semiotica dovunque”2 era fondato, perché per lui “produrre desiderio, è questa la sola vocazione del segno, in tutti i sensi in cui l'(es) si macchina”3. E ancora: “La significazione del mondo, il senso del desiderio, una volta colto al di fuori delle ridondanze dominanti, esigono di allargare la gamma delle nostre risorse semiotiche”4.
La semiotica è parte della formazione intellettuale e artistica di JJ insieme all’antropologia sociale, alle arti plastiche e al collage d’ispirazione neodadaista. Vorrei quindi tornare sul mio intervento “monumentale” per replicare due concetti essenziali alla teoria di Guattari e Deleuze, e alla prassi creativa di JJ: macchina astratta di segni e “agencement d’enunciazione”.
L’espressione “macchina astratta” proviene dal semiologo Hjelmslev per cui il senso si dà come intersezione di due forme: la forma dell’espressione (il significante) e la forma del contenuto (il significato)5. La reciproca sostituzione dei due piani – l’espressione può diventare contenuto di una nuova espressione e viceversa – assicura l’elasticità e la mobilità trasformativa in cui può articolarsi il desiderio. Per Guattari era la sola teoria moderna del linguaggio: una linguistica dei flussi e dei processi “che spezza il doppio gioco del dominio voce/grafismo che fa scorrere forma, sostanza, contenuto, espressione secondo i flussi di desiderio e taglia questi flussi secondo punti-segno o figure-schize”. Una trans-semiotica immanente che può manifestarsi in tutte le sostanze percepibili e che sarebbe “la sola adatta sia alla natura dei flussi capitalisti che a quelli schizofrenici”6.
Quanto all’agencement collettivo d’enunciazione7 il concetto è mutuato dal linguista Benveniste e dalle sue istanze discorsive – “l’impronta del processo d’enunciazione nell’enunciato”8. Guattari, e JJ con lui, ne traggono il modello pragmatico della meccanosfera: concatenazioni simboliche e modi di soggettivazione, variabili e turbolenti come il free jazz, che si esprimono poeticamente in regimi nuovi di segni: “Quantità intensive nel corpo sociale, proliferazioni e precipitazioni delle serie, connessioni polivalenti e collettive”9; scambi esistenziali e protocolli sociopolitici per generare nuove differenze di cultura e nuovi contratti di cittadinanza.
A partire dalla varietà caotica delle sensazioni, l’arte produrrebbe un caosmo (cfr. Joyce), un composto imprevisto e non preconcetto. Il paradigma estetico “in regime di mistione” è trasversale rispetto ad altri piani di senso e ne intensifica le macchine autopoietiche10. Come accade nel rapporto dell’arte con la scienza: “Le percezioni e affezioni speciali della filosofia o della scienza si agganceranno necessariamente, e non in misura diversa, ai percetti e affetti dell’arte”11. Spesso le due entità trapassano l’una nell’altra in un divenire che le trascina e con un’intensità che le co-determina.
Memento: il ritratto
Potremmo ritrovare in Guattari e Deleuze altri concetti semioticamente ispirati e artisticamente rilevanti come l’intensità, la trasversalità o il ritornello (cfr. Bachtin), ma ciò che ha condotto JJ all’erezione di un Monumento a un “amico intimo, compagno di lotta fin dal Sessantotto, alleato fondamentale, cooperatore attivo, lucido introduttore, fratello spirituale per trentacinque anni” è il concetto di Arte del Ritratto che incarna una noologia prefilosofica, cioè la possibilità di avere immagini di pensiero.
JJ ha seguito nel Sessantotto, all’Università di Vincennes, poi di Saint-Denis, i corsi di Deleuze per cui la storia della filosofia è comparabile all’arte di un ritratto noetico, mentale e macchinico. Una somiglianza che non è proforma, replica di un enunciato speculativo, ma la costruzione di piani d’immanenza e di concetti nuovi, pezzi di macchina da generare esteticamente, cioè da far esistere come sensibilia12. La filosofia ha bisogno della realizzazione trasversale di un non-filosofico che la comprende13 come i quadri con cui de Chirico ritrae il Nietzsche dello Zarathustra o il Leopardi delle Operette morali. Era anche il proposito della mostra Tinguely a Beaubourg nel 1988: ritratti macchinici monumentali di filosofi14; enunciati plastici come Kant o il Cogito cartesiano che Guattari e Deleuze hanno trasformato in diagrammi15. Il monumento di JJ, grande macchina di segni che mi ha coinvolto nella sua enunciazione, è la miglior realizzazione dell’arte filosofica del ritratto. Dispositivo senza punto prospettico, patchwork di objets trouvés, intreccio di linee di fuga. Documento teorico, ritratto patetico di forze e, sempre nei termini di Guattari, Caoide estetico.
Monumento: l’atto
Il ritratto di Guattari è stato realizzato secondo il piano d’immanenza di un genere artistico consolidato: il Monumento16. Un’opera la cui eloquenza desueta è stata trasposta e tradotta da JJ secondo un’immagine di pensiero condivisa da Guattari e Deleuze. Per loro infatti ogni opera d’arte autentica è Monumento: un ritornello, un sintetizzatore che si trova per intero nell’essere della sensazione e ne mantiene le vibrazioni17. I segni dell’arte ci fanno ritrovare il tempo, ce lo restituiscono in seno al tempo perduto. L’atto del monumento però non è commemorativo ma performativo: è un atto di fabulazione protesa al futuro; “il monumento confida all’intimità dell’avvenire le sensazioni persistenti che incarnano l’evento”18. Un blocco di sensazioni presenti e persistenti che riguardano sofferenza degli uomini, la loro protesta e le lotte. Sensazioni “politiche” che devono la loro conservazione a loro stesse e danno così al monumento la configurazione che lo celebra19.
Guattari l’avrebbe chiamato macchina astratta, non perché dipenda da un modello o da un algoritmo, ma perché combina due forme, quella espressiva (i suoi significanti) e quella dei suoi contenuti (i suoi significati), così come il “Monumento al limite del paese fertile” di Paul Klee (cfr. Boulez).
Il monumento imponente di JJ, installazione multimediale motorizzata e girevole di otto metri d’altezza, è una traduzione concettuale rigorosa e una soluzione inventiva. Ne ho presentato i modelli elettrificati nelle Rencontres rossiniennes di Jean-Jacques Lebel, alla Galleria di Franca Mancini a Pesaro nel 1996. Fissa e mobile, questa macchina è una trans-semiotica, un agencement poetico intensivo, ricco di riferimenti a Marcel Duchamp ed espresso in sostanze differenti: voce, fotografia, scritture e diversi oggetti e manufatti come monitor e schermi, telefoni, cime, caschi. Un grande cuore, girevole organo della memoria, disseminato di etichette plurilingui: segnali di permesso e divieto e numeri – con un significativo 68, rottura instauratrice! Un’automobile Renault 25, come quella di Guattari, che contiene un giardino e la sua foto mentre sta fotografando. Il letto della clinica psichiatrica di La Borde. Ne risulta un montaggio di attrattori, una collezione non di feticci ma di “fatticci” (faitiches), oggetti raccolti e scelti da ascoltare, leggere e vedere.
Anche se la presenza dell’immagine di Guattari, rappresentato dal vivo nella sua auto accidentata, può suggerire una connotazione funebre, l’installazione di JJ non aveva nulla del monumento funerario: la fine della vita non è l’esito di un’esistenza20. La congerie degli oggetti non è una vanitas, ma un genere familiare a JJ, il Wunderkammer, il gabinetto delle meraviglie. La luce interna al neon e il giardino – un terreno seminato a peyotl – danno all’opera la risonanza di un tombeau, di un epitaffio poetico. Per chi sa ascoltare, tutti gli oggetti hanno la parola: i tubi che si protendono come lingue verso il cofano dell’auto alludono forse a un movimento rizomatico di de-territorializzazione.
Dal monitor, la voce di Guattari, registrata in una delle sue performance al festival Polyphonix n. 7 del 1982, racconta “Il sogno di Yasha”, ora pubblicato in Les séminaires de Guattari21. È l’analisi discorsiva ed esistenziale di un sogno che aveva come protagonista Yasha David, con cui Guattari aveva realizzato al Beaubourg una mostra contrastata: Le siècle de Kafka. Un testo e un intertesto onirico, polifonico e polisemico, in cui Félix scambiava automobili e nomi, Yasha e Gilles, David e Deleuze; con quest’ultimo avrebbe poi scritto a due mani il libro su Kafka.
Il monumento, come il sogno, riafferma la presenza di Félix nel luogo che l’aveva respinto. Un agencement collettivo di un’enunciazione onirica, che comprende l’auto-enunciazione di JJ, ironica e senza risentimento, così come l’aveva colta Guattari in una recensione esemplare22. Aristofane avrebbe detto una “paratragedia”, scritta per piani (plateaux) contro ogni arborescenza categoriale.
Il monumento, unificato dal titolo, è un caleidoscopio plurale di oggetti-attrattori scelti e collocati in serie mutevoli secondo i criteri di pertinenza, di selezione e di raccordo. JJ usa la sua passione di raccolta e reperimento come una bacchetta del rabdomante per scoprire fonti nuove. È guidato non dalla dedizione alle proprietà di singoli oggetti comunemente disprezzati o dal piacere rabelaisiano della molteplicità, ma dai loro possibili, imprevedibili agencements. La collezione, se esatta nei riferimenti e completa nell’insieme – virtù che JJ possiede in sommo grado -, può raggiungere i limiti estremi dell’arte. È un tratto che collega JJ a Breton e lo accomuna in modo sorprendente a Fuchs, al quale Benjamin dedicò un memorabile saggio: un collettore d’arte erotica – e vigoroso teorico dell’orgia – e di quell’arte di massa che è la caricatura. Un teorico che colmava le aporie della teoria attraverso le collezioni23.
Aggiungo che la macchina di JJ, memorandum e memento, non è una metafora ma un’apostrofe; figura privilegiata dell’enunciazione che ci richiede di volgere gli sguardi e di incrociarli altrimenti. Ha avuto altre versioni – alla Maison Rouge nel 2009, al Zkm di Karlsruhe nel 2014 e spero che altre ne avrà. Il caleidoscopio dei suoi oggetti ha uno spartito che permette di ripeterne processualmente l’installazione, “che diventa divenire”. Come un ritornello, ogni esecuzione, connessa con i suoi osservatori non è una ridondanza, ma un originale. Ha “la cangiante indeterminatezza tra essenza e apparenza, tra serietà e gioco surrealista”, originale e ingegnoso, che Gunther Anders attribuiva agli happening e alle azioni di resistenza politica non violenta.
Conclusione
Spero mi si perdonerà l’eccedenza descrittiva, ma i segni sensibili della vita racchiudono quella “strana contraddizione tra la sopravvivenza e il niente” che chiamiamo memoria24. Ritrovare il tempo in cui ho fatto parte del Monumento fa appello alle resurrezioni del ricordo, scritte per figure animate, con le effigi dell’arte processuale di JJ. L’animazione enunciata nel suo Ritratto – incontro degli amici e del pensiero25 – è a carico della mia co-enunciazione: il comune impegno artistico nelle mostre italiane a Pesaro e a Milano26, le collaborazioni in riviste come “Alfabeta” e in festival di poesia come Polyphonix.
A distanza di più di vent’anni, vorrei esprimere una conclusione che ammette confutazioni ma spero susciti qualche convinzione. La coerenza nomade, processuale e trasformativa di JJ si oppone a ogni sonora generalizzazione – “L’arte contemporanea è nulla” (Baudrillard). E si staglia per profondità e qualità nel confronto con filiere dell’arte contemporanea, quali il postsurrealismo della Biennale di Venezia del 2013 o le letture rituali di Marx in quella del 201527. L’infaticabile impegno di questo attante di enunciazione, insostituibile nel pensare altrimenti, ci preserva dal cinismo che pretende “lo scandalo laddove non c’è e di passare per audace, ma senza audacia”28. E soprattutto ci scampa dalle “opinioni già fatte, luoghi comuni che testimoniano del fatto che un artista non ha più niente da dire, non essendo più capace di creare sensazioni nuove, non sapendo più come conservare, contemplare, contrattare”29.
La vita artistica e politica di JJ è stata ed è il contrario di questo pensiero stanco. Non ha mai rinunciato alla linea nomade della sua auto-enunciazione, a costruirsi attraverso la propria opera30, a mantenersi nel “prospetto” che era per Guattari: “La folle ambizione di togliere le barriere tra l’arte, la scienza, la vita”. Per diventare un’utopia politica, anche se minore, questo movimento illimitato deve attualizzarsi nel presente: l’anagramma di Erewhon, il titolo del romanzo avveniristico di Samuel Butler (1872) non è No-where, in nessun luogo, ma Now-Here, qui-ora31.
Note
- G. Deleuze, Pourparler (1990), trad. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, p. 64.
- F. Guattari, Lignes de fuite, éd. de l’Aube, Paris 2011, p. 83.
- G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972), trad. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1975, p. 42.
- F. Guattari, “Sémiotique du brin d’herbe”, in Lignes de fuite, cit., p. 406.
- G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie 2, Minuit, Paris 1980, p. 219: “L’espressione ‘macchina di segni’ copre il sistema di segni e il sistema di simboli in Hjelmslev”; “questa solidarietà delle forme (tra forme dell’espressione e forme del contenuto, che qui chiameremo ‘macchine astratte'”; “gli agencements collettivi di enunciazione relativi a queste ‘macchine di segni’ […]; ciò che ‘fa macchina’ sono le connessioni”; “produzione del desiderio secondo delle ‘macchine di segni'”.
- G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo, cit., p. 278.
- Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka, pour une littérature mineure, Minuit, Paris 1975, cap. IX, “Qu’est-ce qu’un agencement?”.
- Idd., L’anti-Edipo, cit., p. 140.
- Idd., Kafka, pour une littérature mineure, cit., p. 130.
- F. Guattari, Caosmosi (1992), trad. di M. Guareschi, Costa & Nolan, Milano 2007.
- G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? (1991), trad. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 1996, p. 130.
- Ivi, pp. 44-45.
- Ivi, p. 230.
- Una serie di meta-macchine col nome di filosofi come Nietzsche, Heidegger, Schopenhauer, Kant, Stirner, Bergson, Sartre, Rousseau, Engels e altri. Cfr. la mostra al Beaubourg del 1988.
- G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., cap. I.
- P. Fabbri, “Faire de l’image un monument”, in AA.VV., Image et politique, Actes Sud, Arles 1998; Id., “La comédie du monument”, in R. Debray (a cura di), L’abus monumental, Actes des Entretiens du patrimoine, Fayard, Paris 1999.
- Guattari e Deleuze avevano così definito il loro concetto di monumento: “D’accordo che ogni opera d’arte è un monumento, ma il monumento non è in questo caso ciò che commemora un passato, è un blocco di sensazioni presenti che devono solo a se stesse la loro propria conservazione e danno all’evento il composto che lo celebra. L’atto del monumento non è la memoria ma la fabulazione” (G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 172); “Un monumento non commemora, non celebra qualcosa che è successo, ma affida all’orecchio del futuro le sensazioni persistenti che incarnano l’evento: la sofferenza sempre rinnovata degli uomini, la loro protesta che rinasce, la loro lotta sempre ripresa” (ivi, p. 182); “I monumenti sono dei ritornelli. L’intero ritornello è l’essere di sensazione” (ivi, p. 191); “Il problema in arte consiste sempre nella scelta di quale monumento innalzare su un certo piano o quale piano sottendere a un certo monumento, e le due azioni sono contemporanee” (p. 203); “La sensazione […] conserva se stessa perché conserva delle vibrazioni: è Monumento” (ivi, p. 223).
- G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit.
- Per riconoscerne l’effetto e l’affetto, non va dimenticato che lo spazio del Beaubourg dove era installato il Monumento era assai diverso dall’attuale. Secondo il suo primo progetto, l’edificio era aperto e il suo Forum pubblicamente accessibile. Nel corso dell’esposizione è accaduto che dei clochard, già rumorosamente presenti nel corso dei nostri interventi, abbiano dormito nel letto di La Borde, come Gavroche all’interno dei monumenti descritti da un autore caro a JJ, Victor Hugo (I Miserabili).
- Sui monumenti funerari Henry James scriveva, nel suo viaggio in Francia del 1885: “Una tomba moderna è qualcosa di scettico […], non resta niente da dire”.
- F. Guattari, “Un oubli et un lapsus dans un rêve”, in Les séminaires de Guattari, 30 ottobre 1984, <revue-chimeres.fr/drupal_chimeres/?q=taxonomy_menu/3/236>.
- F. Guattari, “Jean-Jacques Lebel, peintre de la transversalité”, in J.-J. Lebel, Retour d’exil. Peintures, dessins, collages 1954-1988, Galerie 1900-2000, Paris 1988.
- Il saggio su Fuchs esce a Parigi nel 1937 su “Zeitschrift für Sozialforschung”, diretto da Adorno, Horkheimer e Marcuse, l’anno successivo all’Opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica.
- Cfr. G. Deleuze, Proust e i segni (1964), trad. di C. Lusignoli e D. De Agostini, Einaudi, Torino 2001.
- Sulla visita degli amici, guidati da JJ – A. Ginsberg, E. Glissant e io – col proposito di risollevare Félix dalla gravissima crisi che lo avrebbe portato alla fine, cfr. F. Dosse, Félix Guattari et Gilles Deleuze, biographies croisées, La Découverte, Paris 2007, p. 501.
- P. Fabbri, “Le forze del segno”, in Catalogo della mostra Antonin Artaud, Padiglione Arte Contemporanea, Milano 2005.
- Cfr. M. Perniola, L’arte espansa, Einaudi, Torino 2015.
- G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo, cit., p. 351.
- Idd., Che cos’è la filosofia?, cit., p. 225.
- Cfr. nel dossier di JJ la foto con André Breton all’inaugurazione del Monumento parigino ad Apollinaire nel 1957.
- G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 93.
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