L’italicità in termini di sottrazione

Università IULM

Seminario
Glocalismo e lingua italiana: sfide e prospettive

Milano

6 luglio 2006

Parto da un’esperienza molto banale: ho diretto per qualche anno un istituto culturale italiano all’estero e ho avuto, in un periodo non particolarmente felice per questi istituti, la responsabilità dell’insieme degli istituti culturali in Francia; inoltre, ho insegnato lungamente in Canada, soprattutto a Toronto.
Vorrei portare un esempio che mi ha molto colpito. Una volta una signora di Montreal mi disse: “Mi vesto italiano, ho una casa ricca di arredamenti italiani, ma non parlo italiano. Posso ritenermi italiana o no?”. La risposta è stata ovviamente che non era italiana, ma italica. Anche se la lingua sarebbe un sistema di segni privilegiato per la definizione identitaria.
Nello stesso tempo ero cosciente che un collega francese, davanti alla frase “vesto francese, ho cultura francese, mangio francese ma non parlo francese” avrebbe risposto “lei non è francese” e a nessuno sarebbe venuto in mente di fare la differenza tra francese e “franco” o “franciliano”. Questa forma di flessibilità mi era sembrata interessante e mi sarebbe piaciuto fare una piccola prova di commutazione semplice. Nel suo libro sulla costituzione dell’identità nazionalista sudamericana nell’800 (e poi sulla sua diffusione europea) Benedict Anderson scrive che il più grande semiologo del XIX e poi del XX secolo è il nazionalista. Secondo Anderson, il nazionalista inventa centinaia di sistemi di segni, di immagini, dai francobolli alle mappe, dagli inni alle uniformi, dai colori ai corpi, dall’architettura della memoria agli edifici e costituisce un’identità.
Mi sembra interessante provare a immaginare una prova di commutazione tra i termini “italianità” e “italicità”: essa provocherà una variazione di significato accettabile?
La prova di commutazione (secondo la linguistica classica) consisterebbe nel verificare se, togliendo l’elemento italiano, resta qualcosa di “italico”. Ad esempio, di recente, un calciatore della Nazionale italiana, nato in Argentina, ha detto che non essendo nato in Italia non avrebbe cantato l’inno italiano, ma nonostante questo, avrebbe comunque giocato per l’Italia, per il Paese che rappresentava. Certamente, io non lo considero un italiano, perché se non vuole cantare l’inno gli manca un importante fattore di identificazione, ma lo considero un italico. Naturalmente, si tratta di un esempio paradossale.
L’idea sarebbe quella di chiedersi quali sono i sistemi semiotici inventati nell’ambito del nazionalismo ottocentesco e costituti come identità italiana che, per prova di commutazione sottratta, fanno in modo di negare l’appartenenza all’Italia e capire se la lingua è uno di questi sistemi semiotici. È un problema delicato.
In Canada ricordo di aver sentito un italiano d’origine, membro dell’Alta Corte Costituzionale, che non conosceva la lingua italiana. Gli fu chiesto se era italiano e rispose di sì adducendo come motivazione il fatto che mangiava i peperoni sott’olio. Quali sono i tratti essenziali a partire da cui il nazionalismo ottocentesco ha costruito l’identità italiana? E quali sarebbero, sperimentalmente, i modi adatti per sottrarre questi elementi arrivando a vedere se, in seguito a questa sottrazione, l’identità italiana resiste o se invece in questo caso si trasforma in italicità? Si può essere italici senza avere la nazionalità italiana, senza parlare la lingua italiana, senza salutare il tricolore, senza conoscere l’inno.

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