Pinocchio


Folco Quilici, Il Giornale, Agosto 2001.


Chi lo incontra nelle piazze di paese dove si fa mercato, lo chiama “il Pinocchiaro”.
È un singolare personaggio che si muove, d’estate tra i boschi dell’Italia Centrale, soprattutto in Umbria, tra Orvieto e Todi.
Cerca tra rami caduti a terra un legno di forma particolare. A volte può essere anche un ramo tra le fronde a essergli utile; e se è a portata di mano, lo taglia. Porta con se pochi ma essenziali strumenti per “lavorare” il legno raccolto. Se fa il caso suo, da lui ottiene quanto si prefigge: un primo abbozzo della figura di Pinocchio. Nella parte più consistente del pezzo di legno tagliato incide il corpo, gli occhi e la bocca; e fa in maniera che un ramo cresciuto dal tronco scelto, diventi il lungo naso del famoso burattino.
“Il naso non dev’essere attaccato artificialmente alla testa” mi dice “ma dev’essere parte naturale di quel ceppo di legno, se si vuole veramente ritrarre Pinocchio”.
Proprio come volle Mastro Ciliegia quando “da un ciocco buono da bruciare in un caminetto” creò il suo personaggio; sempre attuale, sempre provocatore di infinite varianti, libri illustrati, pieces teatrali e film (è in lavorazione, in queste settimane, un Pinocchio versione Benigni che vedremo il prossimo inverno).
Proprio per discutere e analizzare una tanto perenne attualità, all’Università di Urbino si è tenuto un Convegno di Studi su Pinocchio organizzato da due professori che da tempo si occupano di lui e il suo rapporto con il tempo presente, Isabella Pezzini e Paolo Fabbri.
Nell’aula del convegno, ascoltando tante parole difficili d’analisi, e riflessioni complesse, m’è tornato a mente quanto mi disse “il Pinocchiaro” quando lo seguii, tempo fa, per vederlo all’opera. Era polemico con “i pinocchi di plastica” in commercio. Difendeva la natura lignea del suo burattino con convinzione: “A rendere Pinocchio immortale e unico è il fatto di essere di legno”.
Al Convegno qualcuno degli intervenuti ribatté con forza proprio questo concetto: “Il destino di Pinocchio” disse “in effetti è condizionato dall’essere di legno: sul fuoco i suoi piedi bruciano; se l’impiccano non muore; se cade in acqua galleggia; i pesci non lo mangiano”.
Nel rispetto di questa “natura originaria”, ma nella sterminata varietà d’interpretazioni figurative del famoso burattino, il Convegno di Urbino ha offerto molti spunti di riflessione. Paolo Fabbri premettendo che: “Pinocchio è uno dei grandi libri della letteratura italiana, della letteratura di questa Italia” si è chiesto come sia stato possibile “che quest’opera così toscana, così legata alla lingua, quasi vernacolare di Firenze sia diventata un’opera universale? Come è stato possibile che un racconto a puntate uscito per qualche anno alla fine dell’800, a dispense, in un giornale per bambini sia diventata un mito generale?”. Rispondendo a questi interrogativi ha offerto la sua risposta. “Il libro di Pinocchio non è né un semplice racconto né di un regesto di favole. Si tratta di un mito. Ovvero la capacità che ha un racconto di mediare tra grandi opposizioni come natura e cultura; tra la vita e la morte, tra gli animali e gli uomini; tra l’animato e l’inanimato. Pinocchio burattino animato senza fili che parla con gli animali e con gli uomini che alla fine gradualmente si trasformerà in un bambino e dunque uno dei grandi miti della letteratura se è vero che è un mito è, appunto, una di quelle figure ambigue che mediano le grandi contraddizioni della cultura degli uomini”.
Pinocchio non è solo il testo italiano più tradotto e letto dopo Dante. È un caso eccezionale anche perché immediatamente traducibile e divulgabile nel mondo. E non solo: ma si prestò a continui adattamenti.
Al Convegno elencando gli esempi di questi infiniti adattamenti di Pinocchio, che ancor oggi continuano qualcuno ha ricordato che lo scorso anno Stefano Benni ha messi in scena una “Pinocchia”.
Il racconto di Pinocchio, come fosse uno spartito universale, viene rieseguito in libri, teatri, balletto, cinema, fumetto.
Alla Fondazione Collodi, dove si conservano centinaia di opere in tutte le lingue del mondo, un libro del 1910, è illustrato con figure ritagliate che, sfogliando le pagine si muovono. Quasi una premonizione del destino di questo racconto a diventare animato con l’avvento del cinema.
Due storici del “muto” Raffaele De Berti e Ruggero Ruggeri, hanno illustrato la nascita del Pinocchio prodotto dalla “Cines” del 1911. Una produzione, per quei tempi, colossale come oggi realizzano le grandi case americane: una star come protagonista, costruzioni scenografiche imponenti, e copie a colori! Qualcosa di miracoloso per quei tempi, quando non esisteva la pellicola a colori. La “Cines” superò l’ostacolo tecnico facendo colorare con inchiostri speciali tutto il film, fotogramma per fotogramma. Le parole a commento di alcune sequenze del film hanno seguito la proiezione d’alcuni brani sullo schermo dell’Università, utilizzando la copia “rinata” dal restauro dei colori originali. Straordinario miracolo che si deve alla Cineteca Italiana di Milano.
I due relatori, commentando il film, hanno messo in risalto che il primo attore a interpretare Pinocchio “storia tipicamente italiana” è l’attore francese Ferdinand Gaillome, detto Polydor; e hanno sottolineato come sia stato questo il film proiettato (nel 1912 e 13) nelle scuole italiane.
A conclusione, è stato di particolare interesse il dibattito tra il professor Alain J. Choen (P.h.D. dell’Università di California) e Paolo Fabbri. Insieme hanno spiegato che un altro motivo dell’attualità di Pinocchio è la sua singolare appartenenza non solo ai tempi passati, ma alla più fantascientifica realtà attuale. Ovvero all’era dei cyborg, dei robot che ci fanno immaginare un mondo popolato da esseri artificiali così perfetti da essere nostri replicanti, anche nell’esprimere sentimenti, paure, gioie, e nell’essere buoni e cattivi allo stesso tempo. Proprio come Pinocchio.
Uno spunto che non era sfuggito a un regista come Kubrick nel preparare il film A.I. (Artificial Intelligence) realizzato da Spielberg e che debutta con successo nelle sale americane in questi giorni: storia di un “bambino artificiale” che potrebbe anche essere il fratello di Pinocchio.
Nel chiudere il Convegno, l’ultima annotazione di Paolo Fabbri è stata una sorta di confessione: “Come accanito studioso di Pinocchio” ha detto “mi accorgo spesso, riflettendo su lui, di ricordare il finale di Petrushka di Stravinsky. Quando il balletto finisce, con la danza delle marionette, e le stesse finiscono immobili, morte, rivelando la loro natura di esseri senza vita propria, uno spiraglio s’apre sopra il palcoscenico. Appare allora una marionetta ancor viva che osserva con curiosità il pubblico nel teatro”. Qualcosa di simile accade allo studioso di Pinocchio impegnato in un’analisi, in uno studio approfondito del personaggio. Tratte le sue conclusioni, alza lo sguardo dal foglio dove ha finito di scrivere e gli sembra di vedere “lui” che l’osserva. Beffardo, scanzonato.

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