Intervista con Tonino Bucci, Liberazione, 14 Settembre 2004.
È nato poco per volta negli appuntamenti di una rubrica sulle pagine dell'”Unità”, fino a guadagnare la dimensione di un libro, l’ultimo lavoro di Paolo Fabbri, studioso di semiotica e docente presso la Facoltà di Arti e Design dell’Università di Venezia. Un vero e proprio lessico sulle parole – vecchie, nuove o in via di trasformazione – che sono entrate nell’uso nei diversi campi della vita sociale, nel dibattito dei media e della politica, come nelle espressioni private e nel costume. Ma l’edificio di termini cesellato da Fabbri – che porta il titolo Segni del tempo. Lessico e dialoghi politicamente scorretti (edizioni Meltemi, pp. 264, euro 20,50) – mostra anche il paradosso di un mondo dove tutto è comunicazione e, però, le parole sono misconosciute nel loro aspetto mitologico, inventivo, costruttivo – trattate come fossero cose trovate in terra.
Strano, oggi pochi studi vengono dedicati ai segni, la semiotica ha il fiato corto, nessuno riflette sulle parole, su come funzioni la significazione. Come si spiega questo paradosso?
Abbiamo pochi casi in cui il linguaggio è sottoposto a un’attenzione fuori dell’ordinario. C’è la letteratura che parla non solo con la lingua, ma anche della lingua. E poi la filosofia del linguaggio che produce un discorso scientifico sul fenomeno della significazione, “scientifico” almeno nella forma. Per il resto siamo in una cultura che considera le idee come cose. Non a caso, nel lessico propongo il termine «fattoide», cioè «un fatto simulato, ripetuto e diventato popolare quanto basta per essere considerato vero» o, meglio, «un quasi-fatto generato dai media, che contiene un misto di constatazioni e di supposizioni presentate come fatti accettati dalla massa». La gente continua a credere ciecamente al fatto, in ciò che si presenta con queste caratteristiche fattuali come se fosse qualcosa di neutro. Questo è vero per lo meno fin dall’Illuminismo, mentre per tutto il Medioevo le parole erano carme, canto, fascinazione. Oggi, invece, prevale nei confronti del linguaggio un atteggiamento “fattuale”. Le parole servono solo per trasmettere le cose. E tutto questo avviene in un tempo in cui le battaglie più importanti avvengono sulle definizioni, sulle parole, sull’informazione, come ha affermato il grande sociologo Ulrich Beck. È paradossale: il linguaggio è centrale, ma domina un’epistemologia funzionalista. Nelle epistemologie medievali la realtà era l’entità spirituale. Era il linguaggio che significava, non il mondo reale. Il linguaggio era l’unica esperienza in cui si poteva rappresentare l’invisibile. Nelle nostre società scompare la centralità dell’invisibile e al linguaggio rimane la funzione di rappresentare il reale. La “dura realtà”, il “linguaggio delle cose”, sono tutte espressioni per nascondere che il linguaggio è «fatto», ma nel senso che è risultato di una costruzione. La parola «indecomponibile», ad esempio, è «fatta» da in-, de-, com-, porre, -ibil e dalla desinenza. Perché proprio questi elementi e perché in questa successione e non in un’altra? Il carattere “montato”, “costruito” del linguaggio non si vede, sfugge a chi lo usa. La gente che parla è insensibile a questa potenzialità del linguaggio. Non restano, quindi, che la poesia e la pubblicità a sfruttare e produrre questa grande quantità di effetti inventivi. La pubblicità sa bene che il linguaggio è efficace.
La lingua, naturalmente, è un organismo vivente, in continua evoluzione. Questa precarietà storica quanto rende difficile il lavoro di un lessico?
Mi sono inventato «davantologia», «devoluzionario», «flussimetro», «cattolaico», «centrinistra», «pacifondaio». La lingua può essere utilizzata in maniera inventiva, giocando con la sua capacità combinatoria.
C’è sempre stata una difficoltà, però, ad accettare all’interno dell’istituzione-lingua, nei dizionari, i nuovi termini coniati dall’uso quotidiano. Qual è la soglia oltrepassata la quale una parola esce dall'”illegalità”?
“Trapiantista” e “badante” sono state accettate con grande fatica dall’Accademia della Crusca. Certo, accade anche, a volte, che la lingua venga strapazzata, che i media si prendano un’eccessiva libertà, che si attinga dall’inglese anche quando non è necessario. Ma, in generale, c’è sempre un ricambio, nei dizionari non figurano mai parole morte, sono sempre nuove. C’è un’alta mortalità dei termini, così come un’alta natalità. Potremmo dire, con una metafora, che la lingua è un “giardino”: alcune piante vanno potate, altre tagliate, altre piantate ex novo, altre ancora lasciate crescere.
Tra i vari campi della vita pubblica, quello della politica mostra un’attività intensa nell’inventare nuove parole, spesso tratte dall’inglese – non sempre con effetti lodevoli, a dire il vero. A cosa è dovuta questa proliferazione di parole, è una ricerca di legittimazione?
Sì, si creano differenziazioni morfologiche che poi subiscono variazioni di senso. Spesso si prendono parole straniere, al posto di un termine italiano, per trasmettere – attraverso un nuovo significante – un significato diverso, con sfumature inedite. Bisogna dire che la politica – come la poesia e la pubblicità, per certi versi – fa grande uso di slogan, di parole inventate: «concertazione», «aprire il tavolo», «flessibilità»… cosa vogliono dire? Ci sono parole che scompaiono e il loro posto viene preso da altre, magari dotate in origine di significato opposto. Che fine ha fatto «materialismo»? È rimasto soltanto «spiritualismo» che ha occupato tutto il campo. Paradossalmente, dovremmo parlare di «spiritualismo dialettico», «spiritualismo volgare», «spiritualismo meccanicista» e via dicendo. È un problema serio. Lo stesso avviene per «immagine»: si dice che le immagini rappresentano le cose, in realtà le immagini “costruiscono” le cose, le sostituiscono. Sono tutti ossessionati dalla diretta.
Le parole non sono mai fisse, la significazione è frutto di rinegoziazioni, scambi e spostamenti. Studiare il funzionamento linguistico può valere per individuare l’ideologia celata nelle parole? E per far questo, è necessario per la semiotica entrare in contatto con altre discipline?
Essenziale, direi. In queste rinegoziazioni delle parole può cambiare sia la forma che il significato, a volte l’uno senza l’altro, altre volte entrambe. Si cambia il significante per mantenere lo stesso significato oppure accade il contrario. La semiotica nasce con Barthes come critica dell’ideologia. E Barthes era un brechtiano, secondo lui la semiotica doveva svelare che il presunto linguaggio neutro della borghesia in realtà contiene significati e stratificazioni ideologiche. Le parole sono miti. Poi, c’è stato un altro indirizzo promosso in Italia soprattutto da Umberto Eco, contro cui ho spesso polemizzato, e secondo il quale la semiotica sarebbe una disciplina astratta, non più tanto distinguibile dalla filosofia del linguaggio. Io, invece, ritengo che la semiotica è una disciplina che indaga i funzionamenti del significato all’interno delle diverse culture. Viceversa, la semiotica si suicida quando si mette in un angolo.