Intervista con Angela Mengoni, Carte Semiotiche, Acronie. La temporalità plurale delle immagini, vol. 13, 2013.
PF: La questione dell’anacronismo mi pare interessante anzitutto da un punto di vista “strategico”, per così dire, come “domanda” che incontra un’esigenza. Sarei tentato di dire che la questione dell’anacronismo è “una risposta falsa a una domanda giusta”, ma ritengo che sia soprattutto l’attrattore di domande, domande pertinenti alle quali tuttavia non corrispondono necessariamente risposte interessanti. Direi, allora, che la questione dell’anacronismo, così come è stata posta dal dibattito evocato da questa etichetta, ci aiuta a cercare le domande che orientano la ricerca. Alla condizione di lasciare il peggiorativo in –istico per quello –cronico, anacronico.
Un altro punto rilevante è quello del prefisso ana-. Per Lyotard, ad esempio, quella del postmoderno è, un’operazione propriamente anacronica (Lyotard 1982 e 1986). Per lui Montaigne è un postmoderno, perché presenta già le caratteristiche critiche dei fondamenti della modernità – una modernità riflessiva: il post-, che sembra indicare in modo a-problematico il “dopo”, una successione post hoc propter hoc, rifonda in realtà il nunc acronico del paradigma moderno. È per questo che «il postmoderno dovrebbe essere inteso in base al paradosso del futuro (post) perfetto (modo)» (Lyotard 1982, 33)1.
AM: Tra l’altro queste osservazioni di Lyotard ci introducono anche ad un tratto fondamentale dell’anacronismo che è il suo tratto produttivo o euristico, per cui l’operazione anacronica produce nuovo sapere sugli oggetti che vi sono reciprocamente coinvolti; l’ana- lyotardiano di cui parli, infatti, segna proprio il cambio di passo tra un’idea di feedback o mera ripetizione (post) e, appunto, un “processo ana-” anche nel senso di processo di anamnesi, processo analitico attraverso il quale, come dicevi la modernità rifonda se stessa. E non è forse un caso che Lyotard ricorra estesamente alle arti visive per illustrare questo “postmoderno anamnesico”2.
PF: Basti pensare ai Preraffaelliti: la loro operazione non è “anacronistica” nel senso di una “cattiva cronia”, è un tentativo di ri-fondazione teorica della pittura anteriore ai modi classici, rinascimentali, “pagani” della pittura. Direi, allora, che la questione dell’anacronismo è attivatrice di una domanda necessaria; in quanto ana-, cioè in quanto rifondamento riflessivo delle pratiche di senso.
AM: Sempre a proposito della questione ana-, nell’ambito della storia e teoria dell’arte è soprattutto Hubert Damisch ad aver messo l’anacronismo al lavoro a partire dalla sua proposta di iconologia analitica, appunto, formulata all’inizio degli anni Novanta nel libro sul Giudizio di Paride, che porta come sottotitolo Iconologie analytique 1 (Damisch 1992). Nel suo caso la domanda è così sintetizzata: «che senso ha convocare Kant, se non Freud, a proposito del giudizio di Paride? Cosa ci autorizza, da un punto di vista storico e critico, a manipolare, se non alterare la sostanza stessa della leggenda antica versandola in uno stampo che le è estraneo?» (1992: 198). La risposta è che non si tratta di “interpretare” la leggenda nei termini di Freud o Kant, ma di riconoscere che il lavoro [travail] del mito – che non si limita alle sue versioni letterarie, ma comprende le immagini – non si lascia «contenere in una cornice temporale – per quanto estesa – che lo precederebbe logicamente», bensì produce «qualcosa come una cornice temporale, sostanziale, formale pratica, ideologica…» o – cosa ancor più difficile da concepire, dice Damisch – lo «implica» o lo «contiene» (1992, 199).
PF: La formula iconologia analitica in Damisch rinvia anzitutto al suo marcato interesse per la psicanalisi ed è esplicitamente formulata secondo una precisa definizione: «un’iconologia che, per brevità, definiremo “analitica”: cioè una teoria, una scienza, un “discorso in immagini” che non solo non si limita ai contenuti coscienti, e pienamente gestibili, che queste stesse immagini sono suscettibili di veicolare, ma che accorda il più ampio spazio alla questione della bellezza […] e alla connivenza originaria che tale bellezza intrattiene tanto con il regno definito come quello del visibile […], quanto con quello del desiderio, e rifiutando ogni idea di psicanalisi applicata, ma facendo propria l’ipotesi dell’inconscio […] questa iconologia si vorrebbe centrata (proprio in quanto analitica) sulla questione della figurabilità» (Damisch 1992, 272).
Ad essere genuinamente “anacronica” per Damisch è, allora, anzitutto la psicanalisi, è l’interpretazione freudiana, dal momento che l’inconscio è, come dice Freud, zeitlos, atemporale e che il lavoro delle immagini è esplicitamente assimilato da Damisch alle operazioni dell’inconscio3. Ne è esempio il lavoro di Damisch su Piero della Francesca (Damisch 1997) in cui l’immagine della Vergine incinta lo riguarda non solo come motivo religioso, ma in quanto pone la questione della “maternità” e della filiazione: un «problema» psicanalitico dotato di un certo grado di universalità e di pertinenza e che è la “lente” dell’iconologia analitica. In questo senso Damisch parla del riconoscimento “sotto” il motivo o il racconto che traversa la storia, di «un problema o almeno un tema d’interesse più generale, se non universale, e al quale il mito stesso fa segno » (1992: 202). Si tratta di “miti entificati”, per così dire. Dal mio punto di vista, invece, la trifunzionalità della protostoria di Dumézil, ad esempio, è indubbiamente di lunga durata, ma è il risultato di una ricerca comparativa, non fonda il nucleo “universalmente simbolico” di cui tratta Damisch. È una differenza radicale. Al di là di questo aspetto e di questa base freudiana, c’è poi il lavoro di tessitura intertestuale che Damisch designa spesso con termini che rinviano all’intreccio (tresse, tresser etc.) e che è interessante per una semiotica del testo4. Non dimentichiamo che se il termine latino di textum ha prevalso rispetto al greco sumploché è per la visibilità del grafema ” x”, il nodo che contiene…
AM: Sarebbe dunque la costruzione di nuove “serie” o costellazioni su base strutturale che la questione dell’anacronismo ci permette di individuare come punto di contatto tra la costruzione di un corpus in prospettiva semiotica e al lavoro di una teoria dell’arte di matrice strutturale à la Damisch?
PF: Sì, ma soprattutto è fondamentale distinguere questa operazione testuale dalla catalogazione d’un mero lessico dei motivi. La /nuvola/ in Théorie du nuage (Damisch 1972) è definita strutturalmente cioè in termini saussuriani di differenze (che non sono necessariamente opposizioni logiche, come vorrebbe Jakobson). Dire che il segno “nuvola” è “il contrario della prospettiva”, significa che sfugge costitutivamente alla costruzione prospettica (v. Correggio); se non si compie questa operazione di relazione differenziale – che non richiede che la nuvola assurga a panofskiana “forma simbolica”- si ricade nella mera sequenza cronologica del motivo,con tutti problemi connessi, primo tra tutti quello del senso di tale operazione. Perché la nuvola? Solo se la risposta consiste in una definizione strutturale l’operazione anacronica si differenzia dalla mera convocazione erudita di testi di varie epoche e luoghi intorno a un motivo definito in modo aproblematico.
AM: Da questo punto di vista, tra le condizioni di possibilità di un “buon anacronismo” mi pare che la questione della figurabilità così come posta dallo stesso Damisch, ma anche da Louis Marin, come lavoro dell’immagine, costituisca un ancoraggio fondamentale contro la deriva cui hai appena accennato.
PF: Il concetto di figurabilità è di matrice psicanalitica, lo abbiamo visto, e iscritto nel lavoro onirico insieme alle operazioni di spostamento, condensazione etc. da leggere in relazione con le osservazioni di Benveniste sul rapporto tra linguaggio e paradigma freudiano e lacaniano5, in particolare con il ruolo della retorica. È bene ricordare questo nesso: «Il progetto di un’iconologia analitica, deriva parte del suo senso dall’ipotesi cui rinviano le osservazioni di Benveniste sull’incidenza del riferimento la linguaggio nella scoperta freudiana, la quale vuole che i termini di paragone tra inconscio e linguaggio siano da reperirsi – indipendentemente dalla differenza nella sostanza dell’espressione – non tanto al livello della lingua, quanto delle operazioni stilistiche, (le “figure”) che sono quelle del discorso: l’arte, come l’inconscio, farebbe uso di una vera e propria retorica che avrebbe i suoi tropi e sintassi e in cui […] quel che costituisce la sostanza dell’espressione, sino a ciò che essa ha di più materiale, gioca evidentemente un ruolo cruciale ma che resta da precisarsi» (Damisch 1992, 276). Ora, questa idea di figurabilità e della retorica che ne costituirebbe/descriverebbe le operazioni, rischia di essere limitarsi a quella che chiamo una “retorica ristretta”, cioè alla accezione ristretta dei tropi come la metafora e la metonimia. Il lavoro di analisi testuale della cd. iconologia analitica – in vari autori – a partire di questa idea ridotta e puramente linguistica del figurabile rischia di essere limitato e poco euristico. Dal canto loro, i semiologi hanno “ampliato la retorica” mostrando che come il principio di metaforicità non è strettamente linguistico bensì semiotico cioè generalizzabile a diversi tipi di sostanze e di forme espressive, e che è possibile pensare a molte altre figure discorsive, per esempio l’apostrofe, in termini di strategie enunciative6. (Mentre la metafora è lo spostamento da segno a altro segno, l’apostrofe è lo spostamento, la “strofe” appunto, da un interlocutore ad un altro). L’interrogazione sull’anacronismo può fornire alla semiotica l’opportunità di rispondere con i propri concetti e categorie suscettibili di giocare un ruolo nel definire, appunto, le condizioni delle operazioni anacroniche e i loro effetti di senso. Un altro esempio è dato dalla nozione di montaggio, anche in questo caso si cita il fatto che il lavoro onirico compie delle operazione di montaggio, per esempio si può sognare una faccia composta dai tratti di persone differenti. Si tratta di operazioni e concetti molto generali – montaggio, mito, metafora etc. – i quali, piuttosto che ancorati al paradigma freudiano e lacaniano, possono essere ripensati entro un modello più culturale, direi più antropologico, di cui questo costituisce una variante. Direi, dunque, che l’anacronismo ci impone di ripensarne l’orizzonte di senso e di discuterne gli assunti “analitici”.
AM: C’è però un altro versante della questione dell’anacronismo che mi pare interessante in prospettiva semiotica ed è la sua vocazione polemica volta a scardinare un modello “storicista” della storia (dell’arte). È su questo versante, mi pare, che il dibattito sull’anacronismo tocca il punto cruciale, anche per la semiotica, dell’articolazione tra l’orizzonte dei modelli o della teoria e quello della diacronia.
PF: Sì, questo è il secondo punto importante. Didi-Huberman, nel suo libro su Storia dell’arte e anacronismo delle immagini contrappone, da una parte, quella «attitudine canonica dello storico [la quale] non è altro che ricerca della concordanza dei tempi, ricerca della consonanza eucronica» fondata sulla legittimazione delle fonti e di categorie e concetti compatibili con l’epoca studiata e dunque “storicamente pertinenti”, dall’altra, il riconoscimento della «necessità dell’anacronismo» e la messa in opera di costellazioni e relazioni anacroniche (Didi-Huberman 2000, 13-16). Egli costruisce dunque la coppia oppositiva eucronia/anacronismo. Ora, mi chiedo se non sarebbe più produttivo sottrarre la questione dell’anacronismo a questa opposizione -per reinserirla all’interno della tensione tra sincronia e diacronia. Ed allora sarebbe più appropriato parlare del termine neutro anacronia che non di anacronismo, ancora preso nella come ho detto nella polarità dell’eucronia o ortocronia vs dis-cronia.
AM: Questo potrebbe meglio definire il cosiddetto anacronismo precisamente come il punto in cui diacronia e sincronia sono chiamate a pensarsi reciprocamente…
PF: Mi sembra una buona idea. Non sempre questa articolazione è pensata in profondità e spesso la questione dell’anacronismo è ricondotta al contrasto tra un buon anacronismo doverosamente controllato e un anacronismo “indebito”. È l’idea, cioè, che vi siano “gioie e dolori dell’anacronismo” come recita il titolo di Daniel Arasse (“Heurs et malheurs de l’anachronisme”) che, in effetti, non sembra sottrarsi al principale equivoco sulla questione. Da una parte Arasse dice: «Lo storico è sempre anacronico in rapporto al suo oggetto» (Arasse 2004, 145), che è un assunto condivisibile, però, allo stesso tempo, il fatto che «la parola psicologia ha un senso preciso e attuale, moderno [che] credo prenda a partire dalla fine del XVIII secolo» dovrebbe impedirci di usare quella categoria per un artista del passato poiché lui stesso «non si pensava in termini di psicologia, cioè di sviluppo storico della costituzione della personalità» (147-148)7. Dopo aver enunciato una serie di “errori” anacronistici Arasse ammette tuttavia che l’opera d’arte «mischia tempi diversi» – il che coincide con la «definizione dell’anacronismo» – ed elenca tre tempi che sono il presente nel quale l’opera è conosciuta come «mia contemporanea», il tempo della sua produzione e il tempo che intercorre tra le due in cui si deposita la patina degli sguardi e della interpretazioni (149-150). Mi pare una concezione molto diversa da quella di Damisch nonostante l’esplicito riferimento di Arasse. Lo si evince anche dall’analisi delle grandi fotografie di cadaveri alla morgue, di Andres Serrano, in un altro libro intitolato Anacronismi, laddove è la co-presenza del neo-classico e del barocco come “stili” a costituire l’opera di Serrano come “anacronistica”, in quanto attraversata da linguaggi e tempi differenti etc.: «Il y a du néoclassique chez lui – pas seulement du baroque. Plusieurs fois, j’ai pensé à cette “calme grandeur” que Winckelmann admirait tant dans l’art antique» (Arasse 2006, 42).
In altre parole, se Damisch ha proposto un’idea radicale di anacronismo “analitico”, nelle sue implicazioni epistemologiche e euristiche, altrove si prosegue a ragionare nei termini diversi di un “anacronismo controllato”. Si può ricostruire questo secondo filone – v. il capitolo iniziale di Devant le temps di Georges Didi-Huberman (2000, 28-39) – che prende avvio dalle posizioni classiche di stigmatizzazione dell’anacronismo, come quella di Lucien Febvre che nel suo testo del 1942 su Rabelais lo indica come “peccato mortale dello storico”; non solo in quanto errore di documentazione materiale, ma soprattutto perché «l’anachronisme comme outillage mentale» che è l’uso storicamente “scorretto” delle categorie descrittive, per esempio della psicologia, “applicate” ad oggetti di un passato che precede la loro elaborazione. Ora, in un articolo importante, Nicole Loraux ha preso le distanze da questa “psicologia storica” à la Vernant, difendendo il diritto e anche la necessità per lo storico di usare – inevitabilmente – dei concetti «che l’epoca in questione è supposta non aver conosciuto» così come l’uso di analogie tra «congiunture che sono separate da secoli»: «avere l’audacia di essere storici significa forse assumere il rischio dell’anacronismo (o almeno di una certa dose di anacronismo), a condizione che ciò avvenga a ragion veduta» (Loraux 1993, 23-24). Questa “pratica controllata”, condivisa da autori come Rancière, dell’anacronismo “regolato” è però problematica8: che cosa vuol dire “regolare” l’uso dell’anacronismo, quali sono i criteri di questo “controllo”?
In un’antologia che raccoglie gli scritti semiotici di René Thom, ho incluso un testo utile per collocare i termini della questione: per Thom «tutte le metafore sono vere, se controllate.” (Thom 2006)9. Questa frase di un grande matematico e scienziato introduce un interessante mutamento nel modo di affrontare, non l’ammissibilità o inammissibilità dell’anacronismo, bensì le sue condizioni di possibilità, la riflessione su che cosa si intenda per “regolare” l’impiego e gi esiti dell’anacronismo. Non ci sono metafore false – la frase di Thom sgombra il campo dalla questione del vero e del falso come non pertinente – possono tuttavia esistere metafore appropriate ed inappropriate. Il problema per chi ragiona in termini di salienze e di pregnanze non è la verità, bensì la pertinenza e l’efficacia. Con Goodman potremmo parlare allora di right e wrong anachronism, ma non avrebbe senso parlare di true e false anachronism. In fondo un paradigma concettuale è una promessa di successo: può reggersi anche malamente in piedi- come è il caso di un’accezione paradigmatica dell’anacronismo – ma se promette successo, se è efficace, se è produttivo allora è appropriato.
AM: Questo non solo sgombra il campo da ogni criterio positivistico e filologico di regolazione dell’anacronismo, ma sottolinea anche quello che è forse il tratto più importate di una euristica anacronica e cioè la sua capacità di produrre un’emergenza di senso che investe o reinveste gli oggetti coinvolti nella relazione anacronica. Proprio all’assenza di questo tratto produttivo mi pare si riferisca, ad esempio, Yve-Alain Bois quando fa una critica di quelle relazioni anacroniche “inappropriate” che si fondano sulla mera “somiglianza” delle forme e che costituisce oggi un problema anche per le pratiche e politiche espositive dei musei. Lui parla di pseudomorfismo10.
PF: Senza emergenza di senso questo tipo di relazione non avrebbe interesse. Per la distinzione hjelmsleviana tra forma dell’espressione e forma del contenuto la semiotica sa bene che anche i contenuti – i significati – sono formati e che non sono possibili scelte di “purovisibilismo”- cioè di solo significante, che è, sono d’accordo, è un rischio permanente dell’analisi iconica. I semiotici si interessanto alle forze e alle forze discorsive: sono, ripeto, dei “formalisti del contenuto”, cioè dei morfologi del piano del significato, dei “formalisti” dei dispositivi degli enunciati e delle istanze delle enunciazioni.
Abbiamo forse l’opportunità di precisare la doxa delle discipline storiche circa la semiotica e della sua concezione di sincronia. C’è un libro di Hjelmslev, Sistema linguistico y cambio linguistico (1976), nel quale si tratta della trasformazione del sistema linguistico: la grande sincronia è per lui, un sistema che prevede nel proprio funzionamento un mutamento lentissimo. Nella lingua, ad esempio, ci sono alcuni elementi come il lessico che cambiano vertiginosamente, poi ci sono altre componenti come la struttura fonetica o grammaticale che, anch’essi, sono sottoposti a una forma seppur differente di mutamento e si modificano con tempi quasi “tettonici”. In mezzo ci sono concrezioni come i generi, le norme, i quali cambiano con una temporalità propria. Noi non dobbiamo criticare la polarità norma/sistema a nome della parole e del suo mutamento relativamente rapido, per la ragione che il sistema, la langue, ha tempi lunghissimi di mutamento che sono iscritte nel suo funzionamento stesso. Se mai varrebbe la pena di verificare come i mutamenti di altre serie semiotiche e sociali influiscono in modo conservatore o trasformatore su questi creodi, cioè queste vie privilegiate di trasformazione. Si potrebbe fare l’ipotesi che il dinamismo delle altre forme ostacoli o arresti questo mutamento iscritto! Questo riprenderebbe quando la semisfera recupera un suo ordine. Comunque sia le forme apparentemente stabili della norma – Greimas faceva sempre l’esempio dell’opposizione, non scalfita da secolari configurazioni economiche e politiche, tra forma allungata del pane nei paesi del nord e forma tonda nel sud, tra l’uso del burro e dell’olio – sono sottoposte a mutamento, non sono o “iscritte” nella natura umana. Mentre ho l’impressione che nella critica alla tradizione, pensata come un equivalente della langue e presente nella questione ana- così come l’abbiamo definita, non si tenga conto della tettonica di lentissimo mutamento della norma, Eppure abbiamo presente la lezione di Hobsbawm: la reinvenzione della tradizione è un esempio perfetto di anacronismo e non è un processo “eccezionale”; è il proprio della letteratura, delle dinamiche cognitive, della letteratura e dell’immagine, che se oggi quest’ultima sembra portare tutto il peso della mutazione culturale.
AM: Forse un ruolo è giocato dal fatto che “immagine” (Bild) ha un ruolo cruciale in un modello di temporalità e di conoscenza storica centrale per il dibattito sull’anacronismo che è quello di Walter Benjamin con la questione dell’immagine dialettica (dialektisches Bild) (Benjamin 1982). Immagine non coincide naturalmente, in questa prospettiva, con un supporto percepibile visivamente – Benjamin dice esplicitamente che il luogo in cui l’immagine dialettica si rivela è il linguaggio -, tuttavia, l’immagine dialettica è utilizzata per sviluppare un’epistemologia della conoscenza storica basata su una concretezza di natura visiva (Anschaulichkeit) che non è mera illustrazione, ma perno di una storiografia che deve rappresentare il suo oggetto come immagine. Veder passeggiare – a pagamento – il sandwich-man coi suoi cartelloni pubblicitari, significa dischiudere la conoscenza storica della figura del passato che esso “contiene” – il flâneur – così come del presente che lo porta a compimento, che ne è la modificazione. Anche in questo caso si tratta di un anacronismo (o anacronia) produttore di conoscenza e dunque, come dicevi, appropriato perché efficace.
PF: Dal punto di vista semiotico dobbiamo anzitutto dire che questo tipo di operazione è resa possibile dal concetto di isomorfismo e dalle forme di declinazione e di coniugazione che danno conto degli scarti e dei mutamenti tra quelle figure, per cui il sandwich-man è un flâneur “prefissato” e “suffissato”. Ma quel che ci interessa in questo modello è che si tratti di immagini e se ne colgano le trasformazioni. Per caratterizzare la relazione che queste immagini intrattengono, la semplice dichiarazione di isomorfismo non è sufficiente, dobbiamo capire cosa aggiunge o sottrae la condensazione anacronica.
Ed inoltre, pur nella specificità del concetto benjaminiano, l’idea del “dialettico” è stata esposta, ad un abuso e ad un’usura semiotica che l’ha come “svuotata”. Se noi sostituiamo l’idea d’immagine dialettica con immagine complessa, cioè un’immagine nella quale entrambi i piani e i termini sono come condensati e ripiegati l’uno sull’altro in modo partecipativo, diamo conto del modo in cui la semiotica se ne interessa.
Vorrei però tornare però all’esplorazione discorsiva di questa euristica anacronica. Uno dei motivi per cui, mi pare utile sgomberare il campo dal prefisso eu-, è che esso rinvia a una concezione di “ortocronia” legata alla sola dimensione dell’enunciato, di anacronismo dell’enunciato, quando si dovrebbe invece tener conto di un anacronismo dell’enunciazione. Benveniste, com’è noto, ha caratterizzato il discorso storico proprio a partire dalle istanze della sua enunciazione, attraverso il debraiaggio in terza persona. Il discorso storico infatti non è anacronistico perché esso reinventa sistematicamente e inevitabilmente la tradizione è anacronistico, o, meglio, anacronico, nella sua strategia discorsiva dove richiede la giusta attenzione. Naturalmente ciò riguarda anche l’enunciazione visiva. Nel suo noto testo su frontalità e profilo Meyer Schapiro (2002, 120-191) aveva mostrato che quelle strategie di enunciazione visiva erano anacroniche, nel senso attraversano la storia della cultura visiva e si fanno carico in modo trasversale e trans-istorico di ruoli tematici patemici e, secondo configurazioni culturali specifiche. La correlazione tra le due posizioni ha una caratterizzazione semi-simbolica variabile. A volte il traditore è raffigurato di profilo e a volte di fronte secondo un rapporto inverso al personaggio “leale”.
I modi dell’enunciazione consentono di riformulare la domanda: come si enuncia il passato? Io potrei raccontare la storia facendo leva sull’articolazione di differenti strategie enunciazionali: ad es. e in modo intenzionalmente fittizio: “Ruggero secondo arriva in Sicilia, abolì la tassa sul macinato e sarà il più grande dei re dell’isola”. Manovrando a “leva del cambio” dell’enunciazione – passando dal presente al preferito poi al futuro – non metto in causa che l’enunciato storico sia accaduto nel passato – che tratta della storia di Ruggero II – ma fa intervenire l’enunciatore – cioè l’istanza discorsiva intersoggettiva che narra di Ruggero II. Le storie possono essere “eucroniche” sul piano enunciativo, ma variamente “dis-croniche” sul piano enunciazionale, là dove esprimono il punto di vista narrante sulla sequenza di eventi narrati. Il tempo futuro ad es. può rappresentare il tempo “cronico” degli avvenimenti o lo sguardo del soggetto dell’enunciazione su una storia proferita al futuro anteriore. La semiotica sottopone il discorso storico ad una disanima delle tattiche enunciative che ne articolano il dispositivo e che necessariamente lo mettono in rapporto con istanze di (inter-)soggettività. La plasticità ed efficacia di questa “leva del cambio” – immagine isomorfa all’articolazione greimasiana di embrayage/débrayage – permettono ad es. di caratterizzare una particolare posizione “acronica”, o “in folle”: quella, incoativa o terminativa, in cui non è attivata alcuna istanza discorsiva: un grado zero dell’enunciazione.
La cultura e l’esplosione (Lotman 1993) è una teoria semiotica della storia dov’è affrontata la questione del futuro anteriore. Lotman prevede la possibilità di scrivere una “storia del futuro”, così come, specularmente, Fellini, parlando della Roma del suo Satyricon, definisce il film come «un saggio di fantascienza del passato». Mi sembra che, oltre al rapporto tra presente e passato che è privilegiato nel dibattito sull’anacronismo, sarebbe illuminante riflettere su un’anacronia del (o a partire dal) futuro.
AM: Anche in questo caso si torna, mi pare, alla questione dell’efficacia o produttività dell’anacronia; il futuro del “se fosse stato così” è in effetti una posizione temporale costruita per guardare, da lì, quel passato che è il nostro presente e per produrre conoscenza su quel presente, per comprenderlo, per dischiuderlo ad una nuova leggibilità. In altre parole, allestire futuri permette di riconoscere o “attivare” regioni di senso del presente. Questo mi pare importante poiché, ancora una volta, è a questa condizione che l’anacronia – in questo caso del futuro – è felice o appropriata.
PF: Certo. Le profezie, come le teorie scientifiche della previsione e le narrazioni fantascientifiche, servono per ripensare lo “specioso” presente. Lotman afferma chiaramente che c’è «un modo di guardare il presente dal futuro, cioè di dischiuderne il senso a partire dal futuro possibile», configurando quella che chiameremmo una “storia contro-fattuale” fatta delle conseguenze pensabili di eventi che avrebbero potuto accadere. Questo non ha niente a che fare con l’idea logica di “mondi possibili”; come dice Goodman tutti i mondi sono reali, cioè il possibile appartiene al mondo reale che contiene mondi attualizzati anche se non ancora realizzati.
Un esempio e quasi un’allegoria: prima di Otto e mezzo, Fellini aveva firmato il progetto mai realizzato di un film di fantascienza – tratto da un libro di F. Brown, What Mad Universe! – in cui un’astronave-arca doveva abbandonare una Terra divenuta inospitale; Fellini nella celebre scena conclusiva di Otto e mezzo inverte il senso della sequenza: costruisce una enorme struttura metallica da cui fa scendere tutti i personaggi della sua pellicola e della sua vita. Un’astronave che giunge dal futuro per dar senso al presente del soggetto dell’enunciazione.
Mi piace qui ricordare la figura letteraria non lineare di cui è portatrice l’idea di plagiat par anticipation, un ironico husteron proteron elaborato dai membri dell’Oulipo. Un es. l’offre Borges, nella prefazione a Il manoscritto di Brodie,quando dice che Quevedo «per non cadere in una forma di anacronismo che alla lunga sarebbe stato scoperto» ha avuto cura di non leggere le lunghe introduzioni di George Bernard Shaw. Questa “creazione dei propri predecessori” instaura relazioni anacroniche per segnalare in Quevedo i germi di sperimentazioni letterarie successive e, parallelamente, in Shaw la riattivazione di modelli precedenti, indipendentemente dalla reale conoscenza o influenza degli autori. Lotman le definisce appunto «filologie inconsce».
Già Greimas in Semiotica e scienze sociali aveva proposto una distinzione tra storia evenemenziale e storia fondamentale, quest’ultima «organizzata strutturalmente è a un livello più profondo di quello della successione di eventi» (Greimas 1976, 160). È proprio questa storia fondamentale, disposta a vari livelli di profondità e con una struttura a pasta a sfoglia (pâte feuilletée), a permettere di ripensare l’evento come qualcosa che contiene dentro di sé strutture molto differenziate ma articolate. Si tratta di un intervento al convegno del 1970 Geschichte und Geschichten i cui atti sono stati pubblicati da Koselleck e Stempel. I punti di contatto con la semantica storica di Reinhart Koselleck (1979) sono interessanti: questi introduce due “sottoarticolazioni” ermeneutiche della dimensione storica, una è l’Esperienza e l’altra è l’Attesa la cui messa in tensione configura “regimi di temporalità” specifici. Si può avere, ad esempio, una debole tensione d’Attesa rispetto al futuro – stiamo vivendo uno di questi momenti storici fatti di no future, fine della storia e principi di precauzione. C’è una dilatazione dell’Esperienza ed una contrazione della dimensione dell’Attesa, uno schiacciamento sull’esperienza e un’atrofia della dimensione temporale futuribile (il lavoro di François Hartog sul cd. presentismo nel suo Régimes d’historicité è mossa da questa riflessione). Oppure ci sono periodi in cui è l’Esperienza ed il passato ad essere ridimensionato e prevale invece l’apertura verso il domani e l’utopia (v. il movimento Futurista italiano).
Questa convergenza tra la semiotica di Greimas e la semantica di Koselleck va colta per quanto coincide con la critica radicale dello storicismo da parte delle scienze dell’uomo in cui il paradigma semiotico ha svolto un ruolo significativo. E ci riconduce alla ri-definizione foucauldiana di genealogia; queste costellazioni anacroniche tra “eterotopie interne” cosa sono se non delle genealogie? Basti pensare alla definizione di storia data da Foucault in Le mots et les choses come «nodo inestricabile di tempi differenti a lui [l’uomo] estranei ed eterogenei gli uni con gli altri» (Foucault 1966, 395).
AM: Avevi accennato al problema dell’immagine come luogo privilegiato di montaggio e di conoscenza anacronica. Che cosa privilegerebbe l’immagine nel farsi carico di questa eterogeneità di tempi?
PF: La risposta più banale è quella strategica che ammette l’anacronia come modo di funzionamento della cultura in generale che vede nell’immagine un terreno privilegiato per la sua temporalità “complessa” e per questo al centro dell’interesse dell’iconic o visual turn. Premetto che per me l’anacronismo questa non privilegia ad una sostanza dell’espressione- basterebbe pensare alla musica – e collocarsi nell’orizzonte già dispiegato di una “svolta semiotica” (Fabbri 2001, 52-57). Comunque sia l’iconic turn è una risposta alla proliferazioni iconica della nostra cultura e un gesto polemico nei confronti dell’episteme filologica e storicista nello studio dell’arte che avrebbe a lungo privilegiato il linguaggio verbale come fonte e modello di significazione. Un approccio che in linguistica somiglierebbe alla grammatica storica, precedente alla rottura saussuriana. Basti pensare al modo con cui il primo capitolo delle Parole e le cose ha riaperto il dossier delle Meninas di Velasquez! Quel che attrae nella “svolta dell’immagine” non è la sua collocazione nel bric à brac teorico e metodologico dei cultural studies. È di aver aperto a ciò che è rimasto teoricamente escluso o marginalizzato e che si offre e afferma nella pratica e nello studio dell’arte contemporanea: le sostanze espressive, i generi, i diagrammi etc. Per es. l’allargamento della nozione di immagine, con le sue implicazioni estetiche al problema del aggirando così anche i limiti legati al carico mimetico che, in qualche modo, accompagna in modo privilegiato l’iconismo e la sua storia. Non si tratta solo di ampliamento del canone. Il visibile non è riducibile all’immagine anche astratta. Penso ai diagrammi, che si situano ad un livello più “profondo” e consentono, a partire dalla teoria del segno in Peirce, le operazioni di traduzione intersemiotica, le trasformazioni di schemi, etc., un’intelligibilità specificamente visiva. (Che la teoria di Peirce sia euristicamente inetta è altro problema).
AM: La complessità anacronica non si dispiega dunque in modo privilegiato, com’è ovvio, in alcuna sostanza dell’espressione. Bisogna indagare l’anacronia che attraversa l’universo delle immagini secondo i modi specifici di articolazione e trasformazione di ogni singolo testo.
PF: A questo proposito, c’è un testo di Benedetto Croce su un tarocco del Mantegna che mi pare significativo (Croce 1941). È un emblema: la figura femminile della “Loica” appunto – che tiene in mano e sorregge una sorta di un piccolo drago. Croce procede ad una tradizionale analisi iconologica del tarocco, la fonte letteraria che ne narra la storia, un testo della prima metà del V secolo, in cui che il mostriciattolo è semplicemente un attributo, un epiteto della figura. Tuttavia, il filosofo è portato ad attribuire all’immagine un senso e un valore perfettamente anacronico: diventa la filosofia -la Logica del Mantegna – che fa fronte agli errori, alle «combinazioni irrazionali», alle falsità e storture è capace di “guardare in faccia il mostro”, di scuotersi dallo smarrimento e dalla paura e di tenerlo alla giusta distanza. Il gesto e lo sguardo della figura, irrilevanti nella composizione tradizionale, vengono riletti come segni simultanei di disgusto e di attrazione verso il male. Una condensazione anacronica. Croce traccia la storia eucronica del tarocco, la sua “buona sequenza ” iconologica, però nell'”oggi” in cui scrive,1940, è il valore che quell’immagine assume ad imposi; la Loica appesa alle pareti del suo studio gli ricorda quale sia il compito dell’intellettuale di fronte alla minaccia di guerra e ai «fantasmi [che] si sono via via addensati e ingombrano ora tutto il cielo di Europa»: guardare in faccia il mostro e, nonostante il moto di repulsione e di fuga -avere il coraggio di restare, impugnare saldamente e fronteggiare il serpente dell’errore, delle «torbide immaginazioni» (Croce 1941, 271). Mi pare un bel caso di anacronia, praticata da un grande storicista, che ci aiuta a distinguere le interpretazioni proiettive e ingiustificate, dalle messe in relazione pertinenti. La Loica, letta dapprima in chiave iconologica e allegorica attraverso il contatto con uno sguardo “presentista” che attiva certi investimenti valoriali esemplifica nuove proprietà dell’immagine. Il doppio gesto di repulsione e di presa c’è, come anche l’esitazione del passo raffigurato. L’ekfrasis di Croce attiva delle proprietà virtualmente presenti nell’opera stessa ed il cui reperimento è dunque giustificato in base a criteri strutturali: nulla a che vedere col vero e il falso, è questa giustificazione a far la giustezza delle relazioni anacroniche.
AM: Contro lo pseudomorfismo lo sguardo semiotico gioca allora una anacronia giusta perché giustificabile?
PF: A differenza dello pseudomorfismo, lo sguardo semiotico permette di reperire diversi livelli di isomorfismo e di individuare punti di embrayage. Nella scelta di queste isotopie di contenuto e di espressione è necessario giustificare oltre alla chiusura dei corpus non ereditari, i tratti scelti per esemplificare un oggetto d’analisi, (Goodman, 1984). Si tratta di quel percorso che va, non dal segno al referente (percorso di referenziazione), bensì dal referente al segno (percorso di esemplificazione) per estrarre, le proprietà – anche teoriche – significabili e poi manifestabili. Quest’operazione di semiosi è generativa, non genetica ed è importante in un ottica di appropriatezza: parte dal mondo naturale – che è già articolato di senso – e costruito per esemplificare, cioè selezionare ed estrarre, un certo numero di proprietà semantiche ed espressive.
In secondo luogo, la giustezza è anche il risultato di una “discussione”, dipende cioè dall’accordo sui criteri di comparabilità dei risultati ed è dunque, in fin dei conti, essa stessa il risultato di un fare interpretativo in condizioni di dibattito. In questo senso intersoggettivo si può parlare di oggettività teorica come fa Damish e faceva Calabrese. Anche in un’opera d’arte contemporanea ad es. è possibile esemplificare un livello metalinguistico “connotativo” che attiva e interpreta relazioni presenti in un’altra opera o di un paradigma teorico.
AM: Su questo fare interpretativo reciproco tra opere d’arte – e tra sostanze dell’espressione eterogenee – mi viene in mente il tuo lavoro su Ebdomero di De Chirico e sulla pittura di Savinio, cui hai dedicato una serie di conferenze all’Università di Siena qualche anno fa e un libro (Migliore,. Allora parlasti del fatto che in Ebdomero si aprono a più riprese delle descrizioni di “spazi interni” di cui si compie una descrizione come se fossero dei quadri; aggiungevi che quelle «in qualche modo sono fonti», ma non nel senso che forniscono motivi, piuttosto sono portatori di alcuni aspetti di teoria della rappresentazione che gli interessano (facevi alcuni esempi: la questione della proiezione nelle ombre etc.). Mi pare interessante come esempio di “giusta anacronia” che si costruisce intorno a nodi teorici piuttosto che intorno a motivi.
PF: Senza dubbio. Ma direi che in quei testi si ritrova anzitutto quel tratto di produttività che abbiamo attribuito ad ogni “anacronia giusta /giustificata”: l’idea della necessità in ogni traduzione intersemiotica – anche anacronistica – d’un’emergenza di senso che ha luogo nell’interstizio dei linguaggi: non nella statica differenza, ma nello luogo attivo di separazione e passaggio, di contatto e conflitto che fa senso. Ma perché questa emergenza avvenga va riscontrato il diagramma immanente alle forze in gioco. Si tratta cioè di porsi la medesima domanda sollevata a proposito dell’isomorfismo inerente alle relazioni anacroniche: su quale piano o livello operare raffronti e diverbi tra i due linguaggi, per es. quello pittorico e quello verbale? Esistono concetti mediatori, come quello di figurativo, e dispositivi comuni come quello di enunciazione, all’opera nei due linguaggi e si dispongono su di un piano discorsivo comune. A partire dalle forme dei contenuti e dalle tensioni enunciative si potranno poi esplorare le equivalenze e le equipollenze, i valori e le forze dalle quali potrà affiorare o no quella che Deleuze chiama l'”incognita straniera”, irriducibile al semplice montaggio segnico.
La questione ana- che ci interessa qui è pertinente nello studio dei due Dioscuri, i fratelli De Chirico e Savinio, scrittori e pittori provvisti di una propria teoria “connotativa” a vocazione filosofica della lingua e dei segni legata a un comune progetto “metafisico“- ispirato a Shopenhauer, Nietzche e Weininger. Per De Chirico infatti, l’arte pensa con «pensieri del corpo», cioè con immagini che sono «i segni eterni dell’alfabeto metafisico»11. Questi segni sarebbero leggibili sui due piani dell’immanenza e della trascendenza: oltre l’evidenza figurativa si troverebbe, infatti, uno strato più profondo, geometrico e topologico («la superficie d’un tavolo o i fianchi d’una scatola») dotato di un senso “altro”.
Lo stesso o quasi accade con Savinio: «segni la cui natura non è ancora possibile determinare avvertono il signor Dido ogniqualvolta stia per venire in contatto con lo psichismo delle forme»12. Ed è su questa base che si installa una semiotica dell’anticipazione. Nella sua opera si trova una vasta tipologia e tassonomia di segni d’intelligenza, segni “parafulmini”, segni “minimi” e segni “di silenzio”. Anche l’acquisto di una casa per lui va effettuato «dopo attenta esaminazione di segni e di presagi per la metafisica salubrità del luogo»13. È una semiologia rivelatrice e anticipatrice di un senso più profondo, che ci rinvia alla questione dell’immagine complessa, dove non appare “al di là delle cose fisiche”, ma al loro interno come spettro, anatomia, architettura, geografia.., Questo retorica “metafisica” sarebbe anacronica, in virtù della sua capacità di attivare una doppia vista (o doppio ascolto) che riveli – scopra ed esprima – la “psiche” di oggetti e animali, statue e dei monumenti. Questa deuteroscopia o ambivisione, che è anche retrospettiva, darebbe «i segni certi» di una pregnaza più profonda e più originaria. Il visibile per i Di oscuri è abitato da un misero da decifrare, il dicibile da un indicibile da dire altrimenti; la loro “metafisica” è metalinguistica e meta-ottica: legge il mondo fisico, naturale e costruito, come dispositivo astratto topologico e geometrico. Dalle opere emerge una dimensione semiotica astratta di forme e spazi amati o odiati, una topo-filia o una topo-fobia (Bachelard 1957, 26). La chiusura iterativa del cerchio, ad esempio, è “segno di prigionia” anziché di perfezione, come dimostra la fobia dell’artista per la giostra, cerchio rotante irto di animali infantili. La spirale, aperta e mobile, per contro, è sottesa a figure euforiche come il sole o la testa dell’Hermaphrodito disteso (come nel dipinto Il riposo dell’Hermaphrodito).
La percezione di questa “internità” – direbbe Deleuze – metafisica è attiva al livello macroscopico – le città contemporanee trasformate in giostre – e microscopico – una scala come insieme di volute, trapezi e cerchi; riguarda processi concreti – «un vecchio che camminava a grandi angoli tracciando sul marciapiede l’immagine di un fulmine» come si legge nei racconti di Casa “La vita” del 1943 – e astratti – il cerchio che va dal futuro al passato e dalla morte alla nascita.
Certamente questa retorica metafisica è giustificata, non solo dai riferimenti classici o simbolisti ma dalla permanenza di schemi profondi che organizzano nelle opere rapporti di anticipazione o retrospezione – statue classiche e treni, dei e mobili: un esempio efficace mi sembra di anacronica giustezza.
Note
- Ove la citazione sia in italiano e il riferimento bibliografico rinvii all’edizione originale in lingua straniera, come in questo caso, le traduzioni sono sempre degli autori.
- «Per capire in modo adeguato il lavoro dei pittori moderni, diciamo da Manet a Duchamp o Barnett Newman, si dovrebbe paragonare la loro opera a una anamnesi in senso analitico. Proprio come l’analizzato cerca di elaborare i propri problemi associando liberamente elementi apparentemente incoerenti con il proprio passato, scoprendo così significati nascosti della propria vita e del proprio comportamento, così possiamo capire il lavoro di Cézanne, Picasso, Delaunay, Kandinsky, Klee, Mondrian, Malevitch e infine Duchamp come una perlaborazione (durcharbeiten) intrapresa dalla modernità sul suo proprio senso» (Lyotard 1986,127).
- Si legge, ad esempio, ancora ne Le jugement de Pâris: «Se si considera, in effetti, che Raffaello e/o il suo incisore, hanno lavorato su un’occorrenza che era stata tramandata loro dall’antichità […] la catena significante che ha ricostruito Warburg assume tutto l’aspetto di una catena significante che, estendendosi su più di quindici secoli, verrebbe a coincidere con un insieme di operazioni analoghe a quelle dell’inconscio (quando esse non ne fanno direttamente parte)» (Damisch 1992, 301).
- Cfr. su questo il capitolo finale nel Jugement de Pâris: «Il lavori di Picasso su Le Déjeuner sur l’herbe avrà avuto il merito di radunare una volta ancora tutti i fili della treccia […] Ed è proprio una treccia, dai fili aggrovigliati, che avrà preso progressivamente forma, nel orso di queste pagine, piuttosto che una serie […] Una treccia, un décor, in cui la simultaneità e l’imbricazione prevalgono sulla concatenazione e sulla successione e che implicherebbe il rigetto di ogni modello di evoluzione, come di ogni principio di spiegazione lineare» (Damisch 1992, 401-402).
- Cfr. il saggio “Remarques sur la fonction du langage dans la découverte freudienne” (Benveniste 1966, 75-90).
- Cfr. su questo: Fabbri 2001, in particolare il paragrafo “Metafore e cognizione”, pp. 58-63.
- Jacques Rancière critica precisamente questo giudizio degli storici sul presunto anacronismo del possibile: «C’est précisément là où s’arrête le domaine du vérifiable que commence à s’exercer l’imputation d’anachronisme. L’imputation d’anachronisme n’est pas l’allégation qu’une chose n’a pas existé à une date donnée, elle est l’allégation qu’elle n’a pas pu exister à cette date.[…] L’historien n’a pas à prononcer des verdicts d’inexistence en fonction d’impossibilités dont le statut est indéfini. Il n’a surtout pas à identifier les conditions de possibilité et d’impossibilité à la forme du temps. C’est l’idée même d’anachronisme comme erreur sur le temps qui doit être déconstruite. […] Dire que Rabelais a été un incroyant est une hypothèse que nos connaissances sur les formes de la croyance de son temps et sur sa propre biographie nous permettent de tenir pour fortement suspecte. Dire en revanche qu’il n’a pas pu l’être parce que son temps ne rendait pas cette incroyance possible, c’est faire un usage indu de la catégorie du possible comme de celle de temps» (Rancière 1996, 58 e 66).
- «Fare la storia sarebbe dunque una questione di tatto?» riassume Didi-Huberman, che sottolinea come in questo caso cambi il valore d’uso dell’anacronismo, sottoponendolo al rischio di «un delirio di interpretazioni soggettive» (2000, 34).
- Cfr. Fabbri 2001, 69-71.
- Y.A. Bois, “Pseudomorphism: What to make of look-alikes?”, conferenza, University of Chicago, Art History’s Department Smart Lecture Series, Novembre 2007.
- G. De Chirico, Sull’arte metafisica, 1919, ora in: De Chirico 1985, 83-88.
- A. Savinio, Il signor Dido (1949) ora in: Id. 1995, 766.
- A. Savinio, La casa ispirata (1925) ora in: Id. 1995, 197.
Bibliografia
Benveniste É., Essere di parola. Semantica, soggettività, cultura, a cura di P. Fabbri, Bruno Mondadori, Milano, 2009.
Fabbri P., “Transcritture di Alberto Savinio: il dicibile e il visibile”, Il Verri, Parola / Immagine, Milano, n. 33, 2007.
Fabbri P., Introduzione a Essere di parola di Émile Benveniste, 2009.
Fabbri P., Fellinerie. Incursioni semiotiche nell’immaginario di Federico Fellini, Guaraldi, Rimini, 2011.
Lotman J., La cultura e l’esplosione, Feltrinelli, Milano, 1993.
Migliore T., Paolo Fabbri legge Ebdòmero. Letteratura e pittura nell’opera di De Chirico, Aracne Editrice, Roma, 2008.
Uspenski B., Storia e semiotica, Bompiani, Milano, 1988.