Intervista con Guido Conti in AA.VV., I maestri. Voci e parole del Novecento verso il terzo millennio, Contatto, Parma, 2000.
Quante persone vivono ancor oggi in una lingua che non è la loro? Oppure non conoscono neppure più la loro, e conoscono male la lingua maggiore di cui sono costretti a servirsi?
Gilles Deleuze
Volevo fare un’intervista, ma poi l’incontro con Paolo Fabbri si è rivelato qualcosa di più profondo. Ciò che ho scritto, dunque, non è un’intervista e non è un saggio, è la rielaborazione di un’esperienza con un maestro.
All’incontro mi accompagna il mio amico Mario Guaraldi. Entrambi sono appena tornati da una conferenza internazionale a Berlino sulle nuove tecnologie che stanno rivoluzionando il mondo editoriale e i modi della trasmissione del sapere. È una giornata d’autunno, solare e ventosa. All’orizzonte si vede il mare azzurro come un pezzo di cielo più scuro. La casa di Paolo Fabbri è sulle colline riminesi, a pochi chilometri da quella di Mario. Appena entrato ho avuto la sensazione di una casa spoglia. Non ci sono mobili nel soggiorno. Eppure c’è l’indispensabile, ogni cosa ha il suo posto. Le riviste, sul tavolo rotondo, sono impilate per ordine cronologico accanto a libri d’arte e di fotografia di grande bellezza grafica. Si alternano a grandi pareti nude, quelle con librerie ricolme di libri in ordine. Ha ragione chi dice che una casa rispecchia chi la abita. Fuori dalla finestra le foglie secche si raccolgono negli angoli del terrazzo senza seggiole. La casa è calda, accogliente. In verità vi è l’ordine dell’intelligenza e il rigore dell’eleganza, che sono il segno di un amore profondo per l’abitare, che stride con il sentimento di abbandono che porta con sé l’autunno, oltre i vetri appannati.
Paolo Fabbri ha scritto pochissimo e per anni non ha mai scritto un rigo. “La scrittura richiede un linguaggio che io non ho – dice – io parlo con un metalinguaggio”. Per questo ogni incontro è qualcosa in più di una conversazione, o di un semplice incontro: è un evento, nel senso profondo del termine.
Gli incontri con Paolo Fabbri sono esperienze, dove si riporta alla luce, nel mondo delle tecnologie, la forza e l’esperienza del dialogo col maestro, con tutte le conseguenze che socialmente questo rapporto corporale e fisico dell’insegnamento porta con sé. Paolo Fabbri racconta di Berlino. Nella piazza dove bruciavano i libri durante il nazismo c’è una targa e poi una lastra di vetro posta sopra un buco dove ci sono grandi scaffali vuoti. Si cammina sopra una biblioteca senza libri, interrata in una stanza dove il soffitto è una lastra di vetro. È l’immagine di una assenza, è la forza di una metafora che oggi sembra di grande attualità. “II monumento degli scaffali vuoti è la grande metafora del mondo di oggi. Signori, oggi pubblicate i libri e poi li mandate al macero, ma è la stessa cosa che bruciarli. Bisognerebbe trovare la maniera per imporre di forza questa cosa” dice rivolgendosi a Mario.
Così comincia il nostro dialogo. Mario resta in ascolto, attento soprattutto alle cose che dico. Sento che mi marca, per vedere se reggo il dialogo.
Paolo Fabbri ci parla di un libro di un’amica, di etimologie inventate che bisognerebbe ristampare. Poi fa una riflessione sul valore dell’etimologia, che non sono mai un’archeologia del senso, ma una spinta verso la rifondazione di un valore, è una spinta verso il futuro per una rifondazione del senso della parola. “La verità del nome – dice Fabbri – la verità poetica del nome è a venire, è l’etimologia futura, da rifondare. La letteratura lotta non sull’assegnazione di un genere ma su cosa varrà domani quel genere”.
“Si parla di provincia e di Europa – chiedo a Fabbri – Il problema è complesso e non è nuovo ma attraversa tutto il Novecento letterario. In Europa ci siamo già dal punto di vista economico, ma non culturale. Quali possono essere le coordinate per entrare in Europa anche con la nostra cultura? Non credo sia un problema semplice”.
“L’Europa è un problema. Pensa all’Euro. Stiamo rinnovando tutta la carta moneta e il cambiamento della valuta e dei valori è veramente una cosa seria. Sul tuo argomento, poi, ho riflettuto e ho già preso alcuni appunti. Io ho trovato qualcuno che ha già dato una dritta su questo tema, una dritta metaforica: il libro di Gilles Deleuze su Kakfa1. Quello è uno sforzo di letteratura europea che c’è già. C’è un capitolo dove lui lancia un’idea che solo ad una letteratura minore è possibile un uso maggiore, mentre solo inevitabilmente alle letterature maggiori è destinato un uso minore. Solo lingue minori sono destinate ad un uso maggiore, solo le lingue maggiori finiscono per destinarsi letterariamente ad un uso minore. Comunque questa è una scommessa da fare. Credere è scommettere, puntare su qualcosa”.
Se si ascolta bene un maestro, questo insegna non solo l’argomento su cui si dibatte ma anche il suo metodo di ricerca, il suo approccio alla realtà. E questo fa Paolo Fabbri quando propone continuamente di affrontare un problema da un diverso punto di vista.
“Il problema va però spostato. Si parla di provincia ed Europa, di centro e periferia, ma la questione non è tanto qui, ma sul valore estensivo delle letterature europee.
La storia è nota. C’è un piccolo editore che scova in provincia un autore che pubblica, e poi questo viene assorbito nella grande editoria. È uno spostamento naturale questo dalla periferia al centro. Ma se continuiamo a guardare il problema da questo punto di vista non se ne esce più. Si lavora sulla futura centralità del proprio lavoro. Anche il valorizzare la periferia è sempre in funzione della sua centralità. Ma questo non è un gesto negativo, non è una malversazione: è una ovvia necessità.
Ma il problema è un altro ancora e riguarda anche la natura del territorio. I territori oggi sono centrali o periferici in senso estensivo o intensivo? Oggi il problema del territorio è cambiato profondamente grazie alle nuove tecnologie. Il territorio è diventato un fascio di fibre da dipanare in cui la centralità è variabile? Il problema è il raggio variabile e come e quanto varia.
Non solo. Nei passaggi tra centro e periferia, si va verso una direzione di diminuzione costante della distanza del valore (un tanto al chilometro), oppure ci sono dei salti intensivi del valore? O ti rinchiudi in una idea di dialetto-non dialetto, e non ti poni più il problema, e allora siamo sul piano di un valore minore di una lingua minore. E il problema è risolto. Ma la cosa più interessante è quando tu vuoi fare di una cultura minore un uso maggiore. Quella è la differenza e il nocciolo vero della questione.
Il problema è l’italiano del centro. Quello è destinato inesorabilmente all’estensività. Ecco perché ha continuamente bisogno di andare a riprendere da fuori, dalla periferia. Perché il centro è la perdita dell’informazione intensiva. Il centro non è più il luogo dove si elabora centralmente l’informazione, è invece il luogo cosiddetto maggiore che può fare sempre e solo un uso minore di se stesso. I luoghi minori sono quelli di un uso intensivo del linguaggio”.
Paolo Fabbri, sulle indicazioni di Deleuze, traccia coordinate, elabora strade da percorrere. Ho l’impressione che il suo pensiero sia lucido e fili dentro la realtà come un coltello nel burro.
“Il mio problema – gli rispondo – è di identità, di radicamento e di partire dalla provincia per entrare in Europa, perché il mio orizzonte di scrittore non è la provincia o l’Italia, ma un sistema economico, politico, storico e sociale che io chiamo Europa e che è già una realtà in cui io vivo”.
“Certo, è l’uso maggiore di una lingua che vuol essere minore” mi risponde Fabbri.
“Perché il mio problema – continuo – è uno di quelli della cultura italiana del Novecento, che ha attraversato tutto il nostro secolo; per questo bisogna lavorare su una tradizione italiana della letteratura da portare in Europa, che a sua volta comporta anche un problema di identità”.
“Ma io continuerei a parlare di maggiore e di minore – continua Fabbri – perché in qualche modo non c’è persona più capace di de-territorializzare la lingua che quello che l’approfondisce nel suo significato dentro al posto dove sta. Mi spiego.
Chiamo de-territorializzata non la lingua che sta sul territorio, ma la lingua standardizzata, l’italiano medio per intenderci, televisivo. Chiamo invece minore quella lingua intensiva che approfondendo le sue possibilità, quando parlo nuovamente l’italiano, vale per tutti gli italiani. Io parlo in dialetto. Ma non è questo il problema. Il dialetto diventa un luogo di traduzione nell’italiano per riattivare nuovamente l’italiano. Detesto coloro che identificano una terra-una lingua, altrimenti si finisce non solo di parlare in dialetto, ma anche l’italiano standardizzato quando si parla di Italia e italiano. È la lingua standardizzata della televisione che perde spessore: sapere e sapore. Io userei la terminologia di un mio amico (Paul Virilio) che per saltare l’opposizione tra locale e globale, parla di ‘glocale’ che è un’idea molto carina che amo molto. In questo la strategia ‘glocale’ è di fare lavorare attorno alla tradizione locale, approfondendolo nel minore, ma come proposta di arricchimento del maggiore, mentre il maggiore, nel suo interno, non può fare altro che la proposta di correzione della sua identità specifica. L’uso maggiore di standardizzazione si presta solo ad un uso minore. L’uso minore si presta come proposta per un uso maggiore, come rinnovamento della lingua”.
Sulla pagina la parola perde, inesorabilmente, il calore che Paolo Fabbri trasmette umanamente con la voce e il gesto. Sulla poltrona del salotto sta seduto spinto in avanti, come se da un momento all’altro stesse per alzarsi in piedi. Il suo corpo, come la parola, è una spinta verso chi parla. Il suo corpo è in tensione verso, come il movimento delle sue parole e del suo pensiero. La sua lezione insegna prima di tutto la passione per la ricerca, la pulizia e il rigore del pensiero, dello smontare e rimontare un problema, analizzandolo sotto diversi punti di vista. Insegna che non bisogna mai affidarsi ad un solo approccio, che il punto di vista, nell’affrontare un problema, non è solo una questione di terminologia, ma che le parole offrono concetti che hanno un senso profondo, sono chiavi d’accesso per lo smontaggio della realtà. La ricchezza terminologica è ricchezza di prospettive su cui discutere. Questo insegna Paolo Fabbri. Mentre parla, Mario Guaraldi ascolta taciturno e ogni tanto annuisce. Il nostro parlare sembra allargarsi su temi diversi e scollati, ma in verità il problema della provincia e dell’Europa è un problema complesso, che ci porta a riflettere sul tema della territorialità, dei nuovi sistemi di comunicazione, fino alla definizione di che cosa è una cultura, dei suoi tratti fondamentali.
“La cultura ha almeno due tratti fondamentali: l’identità e la traduzione – continua Fabbri – Darei alla traduzione un senso più ampio, di traduzione e insieme di interpretazione. Se una società vuole una società poliglotta e policulturale, il problema della traduzione è centrale. La traduzione non si limita alle lingue o tra il dialetto e la lingua, ma anche tra tipi di discorsi all’interno di una stessa lingua. Per esempio la traduzione del discorso scientifico, teologico, finanziario… Sono tutte attività traduttive. Una cultura minore deve essere traducibile in un uso maggiore: questa è la prima cosa e ogni cultura deve autoidentificarsi. Una cultura deve prima di tutto avere più voci in traduzioni tra di loro e in secondo luogo un’istanza superiore che dice ‘io sono io’. E aggiunge: questa non è l’ultima parola. Il primo problema è capire cosa è traducibile e non traducibile, e il secondo problema è la traducibilità senza identità. Cioè sei abbandonato al gioco delle costanti traduzioni degli elementi e non puoi mai dire a qualcuno ‘io sono così’. Questi sono i due tratti istituzionalmente necessari per pensare ad una cultura che sia piccola e meno.
Un altro problema è quello delle letterature maggiori e minori nella tradizione della storia letteraria. È nel minore che c’è l’approfondimento del maggiore. È un errore capitale della lettura della storia della letteratura italiana quella di categorie di letteratura maggiore o minore, centrale o periferica. Così capitò ad un convegno di Arcimboldo, in cui si alzò Sgarbi, un pre-Sgarbi televisivo, che disse era un minore e restava un minore. Sono i professori possessori del canone, ma è un errore drammatico questo di leggere l’arte, sia pittorica che letteraria attraverso il canone”.
“Come capita per la letteratura a torto definita ‘per ragazzi”’.
“Pinocchio è una buona idea di quello che stavamo dicendo. Da noi è quasi bamboleggiante. La trama, il plot è passato, ma non la lingua. Sono passati dei modi di dire ed episodi come la buccia delle pere, come per esempio ‘buon pro ti faccia’. Sono diventati completamente indipendenti rispetto al loro contesto di quel toscano denso. In verità è il Collodi che aveva tradotto le grandi fiabe del settecento francese. Collodi è una persona molto colta e quando scrive, scrive un capolavoro ‘per bambini’ con un toscano per bambini, e per certi aspetti una lingua insopportabile. Eppure l’effetto è maggiore”.
Così si è tornati ad un grande capolavoro della letteratura, Pinocchio, il cui autore resta periferico nella tradizione del canone letterario italiano, mentre la sua favola è stata tradotta e diffusa in tutte le lingue del mondo. Così penso a Don Camillo e Peppone per Giovannino Guareschi, e alle storie del cinema scritte da Cesare Zavattini, tutti ‘irregolari’ rispetto ad un canone che non ha capito che l’intensività locale produce metafore che poi funzionano in tutto il mondo. Così restiamo a chiacchierare oltre con Paolo Fabbri, nella penombra di un salone dove Mario, più che chiacchierare, ascolta. Chissà se ho tradotto in parole quella passione che Paolo Fabbri trasmette fisicamente quando spiega. In verità, scrivendo questo, ho tradito il suo insegnamento, lo so, ma spero solo di averlo fatto perché ho la speranza di credere che qualcosa sia passato, che un domani tutto questo possa servire a qualcuno.
Ed è quello che capita quando leggo gli scrittori della mia terra. Guareschi, Zavattini, Cavani e altri autori connotano perfettamente il territorio con un italiano che si sente fortemente caratterizzato dall’emilianità della scrittura.
tratto da Palazzo Sanvitale, n. 1, 10 ottobre 1998
Note