Da: AA.VV., Studi di strategia. Guerra, politica, economia, semiotica, psicoanalisi, matematica, a cura di Luciano Bozzo, Egea, Milano, 2012.
Percorsi della strategia (2012)
di Luciano Bozzo
Pochi sostantivi possono vantare un successo comparabile a quello conosciuto da «strategia» nel corso degli ultimi decenni. Ne dà un’idea un’incursione in rete. Digitando il termine inglese strategy su un noto motore di ricerca1 si ottengono 960 milioni di risultati; 148 milioni è il corrispettivo del francese stratégie e anche il più modesto dato italiano, 41.500.000, resta significativo. Come è significativo che in italiano, agli oltre 4 milioni di risultati ottenuti da «strategia militare», si aggiungano i quasi 2 milioni e mezzo di «strategia aziendale». Esiti non meno eclatanti danno «theory of strategy», con 202 milioni di risultati, e «strategic planning», 141 milioni, mentre il più tradizionale «military strategy» arriva a 76.800.000; infine, «strategic thought» si colloca attorno ai 37 milioni. Né il fenomeno riguarda solo il mondo occidentale: ai corrispettivi in russo e in ideogrammi tradizionali cinesi corrispondono infatti, rispettivamente, 693 e 340 milioni di risultati. Per contro, restando all’ambito dei termini di origine militare noti, digitando «tactics» si ottengono 161 milioni di risultati e il corrispettivo italiano è di circa 5 milioni.
Per quanto significativi i dati riportati non danno piena ragione della diffusione del sostantivo strategia nei più diversi ambiti dell’azione ed interazione individuale e sociale. Il fenomeno non è nuovo ed è stato spesso evidenziato, soprattutto dagli autori francesi, tradizionalmente attenti alle dimensioni linguistiche della strategia. In un saggio la cui prima versione risale al 1971 fu il generale Lucien Poirier a rilevare l’allora già ampia «estensione semantica» del termine2, attribuendola alla «double coupure», di natura prasseologica ed epistemologica, della strategia prodotta dall’avvento dell’arma nucleare. Secondo Poirier la bomba atomica, rendendo impensabile l’esito bellico del confronto tra grandi potenze, non solo enfatizzava il valore aggiunto del sapere strategico nell’interazione conflittuale «indiretta», imposta appunto dallo stallo nucleare, ma favoriva la traslazione del concetto di strategia ai più diversi ambiti di quel confronto, le cui dimensioni e complessità erano in forte aumento3.
Lo «stiramento» semantico evidenziato da Poirier proseguì ininterrotto nei due successivi decenni. Tanto che nel 1990 un altro francese, Jean-Paul Charnay, lamentava la possibile perdita di senso del termine, la sua applicazione a forme, livelli e modalità d’azione del tutto eterogenei4. Charnay elencava dodici casi comuni di confusione tra strategia intesa in senso proprio e altre forme di pianificazione non-strategica, aggiungendo otto accezioni improprie del vocabolo5.
Negli anni trascorsi da allora la tendenza non ha mutato di segno. Alle tradizionali strategie militare e politica, e alle oramai classiche strategie sindacale, elettorale, sociale, economica, dello sviluppo, aziendale, di vendita o marketing, si sono aggiunte quelle culturale, del sapere e della conoscenza, didattica e pedagogica. Alle consolidate strategie etica, religiosa, teologica, pastorale e missionaria si uniscono oggi le strategie psicologica, analitica, medica, terapeutica e di prevenzione in tutte le possibili varianti. Le strategie architettonica ed urbanistica si collegano a quelle territoriale, di tutela nei confronti dei disastri naturali, ambientale, ecologica, demografica, biologica ed evoluzionistica. Alle strategie semiotica, semantica e linguistica si accompagnano quelle narrativa, discorsiva, mediatica e comunicativa. Con l’aiuto della rete è inoltre facile individuare strategie filosofiche, estetiche, «dell’arte», informatiche, di gara o di gioco riferite a casi diversi, geografiche e persino «turistiche». L’elenco, già eccessivamente lungo, potrebbe senza dubbio essere esteso, senza riuscire probabilmente a risultare esaustivo.
Tutto è oramai «strategico»: la deriva semantica si è compiuta. «Strategico» è oggi una sorta di «aggettivo-bandiera», utilizzato sempre più spesso solo per attirare l’attenzione, per segnalare una sequenza d’azione che è – o s’intende presentare come – cruciale, particolarmente rilevante, centrale; ovvero sta a indicare una qualsiasi forma di pianificazione finalizzata, di vasta portata e/o lungo periodo. È paradossale che persino nel lessico tecnico-militare, dove il termine è nato, all’aggettivo sia oramai attribuita un’accezione di questo genere. Ecco allora che un dato sistema d’arma viene definito «assetto strategico», mentre da tempo si è affermato l’uso di locuzioni quali «bombardamento strategico» e «trasporto strategico»6.
Né stupisce, stando così le cose, che un capo di Stato Maggiore faccia riferimento alle capacità di «evacuazione medica strategica»7; dove evidentemente l’aggettivo rinvia al raggio d’azione e/o alla capacità di carico dei mezzi impiegati, nel caso specifico aerei. Quasi che la qualità di «strategico» potesse essere attribuita a dipendere dalla potenza, dal raggio d’azione o dal carico utile di un certo mezzo, o sistema d’arma, e non piuttosto, come è corretto, dal genere di effetto prodotto, cioè dal risultato (politico) che il suo impiego consente di raggiungere nel conflitto8. L’esplosione lessicale, in altri termini, ha fatto perdere di vista, dentro e fuori dall’ambito militare, la natura agonistica che è essenziale all’interazione strategica; quando non il fatto stesso che «strategico» dovrebbe comunque essere attributo di un rapporto interattivo, violento o meno che sia. Una relazione, questa, articolata su più livelli – rapporto delle forze/capacità, dialettica delle volontà e confronto delle intelligenze – nella quale oltre all’Altro, l’antagonista, entrano in gioco parti terze e l’ambiente del confronto.
Eppure, come dichiarato in alcuni saggi di questa raccolta, non è detto che lo stiramento del concetto, la sua deriva semantica e la sua diffusione producano conseguenze soltanto negative. Il successo della strategia, escludendo gli usi impropri e non significativi del sostantivo e dell’aggettivo, ha fatto sì che ad essa s’interessassero ricercatori e studiosi delle più diverse provenienze scientifiche e disciplinari. Potrebbe derivarne uno straordinario arricchimento degli studi strategici; rimasti spesso legati, ancora in anni recenti, all’analisi in ottica tradizionale delle diverse forme e modi d’impiego dei mezzi militari per il raggiungimento dei fini dell’attore politico considerato, di solito lo stato.
L’approccio interdisciplinare allo studio della strategia che qui proponiamo intende in effetti trarre vantaggio dall’indebolimento semantico e dall’attuale condizione di polisemia segnalati. Il progressivo offuscamento dell’originaria connotazione militare favorisce infatti il ripensamento della strategia, una rielaborazione aperta al contributo di conoscenze e competenze diverse, alla ricerca dei fondamenti di una «teoria generale» i cui principi valgano dai giochi da tavolo, o di ruolo, alla guerra.
1. Genesi di un interesse interdisciplinare
Al contrario di quanto a volte avviene nel caso dei volumi collettanei, la presente raccolta non è frutto occasionale, la ricaduta di un incontro, seminario o convegno. Si tratta invece del risultato ultimo di un processo, fatto di contatti, scambi e reciproche influenze, protrattosi a lungo.
Nell’anno accademico 1993-94 chi scrive assunse la titolarità del corso di Studi strategici nella facoltà di Scienze Politiche dell’università di Firenze, che tenni sino al 20089. Il corso, istituito nel 1985-86, nei suoi primi undici anni di vita aveva conservato l’impostazione classica propria di simili insegnamenti di matrice politologica, nati nel mondo anglosassone dopo la seconda guerra mondiale, cresciuti vertiginosamente di numero e poi diffusisi altrove10. L’attenzione era focalizzata su quanto legato all’impiego nell’arena internazionale della violenza organizzata per il conseguimento degli obbiettivi politici di attori statali e non.
Nel maggio del 1996 un gruppo di giovani semiologi allievi di Paolo Fabbri, allora docente di Semiotica e Semiotica dell’arte nella facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna, invitarono il loro maestro, Emidio Diodato, chi scrive ed altri a tenere una serie di seminari su «Semiotica e strategia» nella sede del DAMS11. Quell’esperienza mi mise in contatto con Fabbri, Juan Alonso Aldama, giovane studioso del terrorismo basco appena arrivato a Bologna per gli studi post-dottorali, e Federico Montanari.
A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, durante gli studi dottorali condotti a Parigi sotto la direzione di Fabbri12, Aldama e Montanari iniziarono ad occuparsi di analisi in chiave semiotica della strategia partecipando a vari seminari organizzati dal primo. Dal 1977 Fabbri era associato con vari incarichi all’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi e nel 1984 svolse attività di ricerca presso il CIRPES (Centre Interdisciplinaire de Recherches sur la Paix et d’Etudes Stratégiques alla Maison de Sciences de l’Homme). In quell’occasione tra l’altro ebbe modo di collaborare con Alain Joxe13, introducendolo alla semiotica generativa di Algirdas Greimas, che co-diresse con Fabbri il seminario di Semantica Generale dell’EHESS dal 1984 al 1991. Joxe venne così a contatto con la scuola greimasiana, in particolare con Eric Landowski, che per parte sua già si era avvicinato al tema della strategia14. A questi primi contatti e collaborazioni di Fabbri ne seguirono di nuovi anni dopo, con alcuni dei maggiori esperti francesi di conflitto e strategie militari: Jean-Paul Charnay, direttore del Centre d’Etudes et de Recherches sur les Stratégies et les Conflits della Sorbonne, e altri15, tra i quali spicca il generale Poirier. Nei primi anni Settanta quest’ultimo, esponente di punta con i generali André Beaufre e Pierre Gallois della scuola strategica francese, aveva iniziato ad applicare la semiotica all’analisi strategica16.
Sino alla fine della guerra fredda l’attenzione degli autori citati rimase concentrata soprattutto sulle strategie di deterrenza nucleare; quelle teorizzate negli Stati Uniti, la versione francese e i possibili modelli alternativi. Nella condizione di stallo imposta dalla mutua minaccia di distruzione totale tra le superpotenze gli «studiosi di strategia chiedevano alla semiotica modelli di azione e manipolazione e la semiotica trovava interessanti gli esempi […] tratti dallo studio dei conflitti»17 familiari ai primi.
Tra il 1992 e il 1996 Fabbri, Directeur de Programme Correspondent al Collège International de Philosophie sino al 1995, diresse l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi. In quella sede e all’EHESS egli invitò a parlare su conflitto e strategia – si era allora all’inizio delle guerre nell’ex-Jugoslavia e il tema suscitava molto interesse – alcuni maîtres à penser: il già citato Joxe, Jean Baudrillard, Paul Virilio18 e, tra gli italiani, il generale Carlo Jean, che dal 1994 al 1997 diresse il Centro Alti Studi della Difesa (CASD) dello Stato Maggiore della Difesa, a Roma. A partire dalla prima metà degli anni Ottanta Jean si era fatto promotore degli studi di strategia e politica militare in Italia, riunendo un gruppo di ricercatori di varia estrazione disciplinare, giovani e meno giovani, curando alcune pubblicazioni pionieristiche sul tema e fondando nel 1987 il Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS), di cui fu primo direttore19. Sempre all’inizio degli anni Novanta Fabbri s’interessò agli studi del sinologo e filosofo François Jullien, allora ancora pressoché sconosciuto nel nostro paese, sui classici della strategia cinese e la teoria dell’azione in Occidente ed Oriente20. Per il tramite dei semiologi bolognesi la lezione di Jullien sarebbe giunta di lì a poco a Firenze, prima al sottoscritto e poi a Cristiano Ciappei.
Dopo l’incontro della primavera 1996 il gruppo bolognese continuò ad occuparsi di analisi del conflitto, nuove guerre e strategia, privilegiando un approccio attento alle dimensioni culturale ed antropologica. Attività che condurranno nel 2004 al seminario «Forme e parole della guerra», organizzato da Montanari presso la Scuola superiore di studi umanistici diretta da Eco21. Al seminario, oltre a Eco, Fabbri, Joxe, Franco Cardini e Jean, parteciparono nuovamente Diodato e il sottoscritto. Nei due anni accademici successivi al seminario della primavera 1996 a mia volta chiesi ad alcuni studiosi, accademici e non, che in ambiti diversi si occupavano di strategia – tra cui Jean, Cristiano Ciappei, titolare della cattedra di Strategia d’impresa nella facoltà di Economia dell’Università di Firenze, Falco Accame, lo psicanalista Giorgio Nardone, direttore del Centro di terapia strategica di Arezzo e Rodolfo Ragionieri, matematico esperto di teoria dei giochi – di contribuire con loro interventi al corso di Studi strategici. Lo scopo era di analizzare il concetto di strategia in diverse declinazioni disciplinari, non solo in quella tradizionale politico-militare.
Nella medesima ottica, in occasione del convegno annuale della Società Italiana di Scienza della Politica (SISP) tenuto nella facoltà di Scienze Politiche dell’università di Milano dal 18 al 20 giugno 1998, organizzammo con Umberto Gori uno dei workshop, cui parteciparono studiosi di varia estrazione22. Quest’interesse per l’analisi interdisciplinare della strategia avrebbe condotto nel 2001 all’istituzione presso il Dipartimento di Scienza della Politica e Sociologia (DISPO) dell’università di Firenze del Centro Universitario di Studi Strategici ed Internazionali; divenuto l’anno passato Centro interdipartimentale di Studi Strategici, Internazionali e Imprenditoriali (CSSII)23. Sempre nella facoltà «Cesare Alfieri» sul finire degli anni Novanta anche Giovanni Bechelloni iniziò ad interessarsi alle strategie comunicative, organizzando seminari e lezioni. Da quelle iniziative nascerà nell’anno accademico 2005-2006 il corso di laurea specialistica, divenuta poi magistrale e sopravvissuta sino al 2011-2012, in Comunicazione strategica.
L’occasione che avrebbe dato origine di lì a qualche anno al presente volume fu però la XIV giornata di studio «I percorsi della strategia», organizzata il 26 maggio 2005 dall’Istituto di Studi Militari Marittimi (ISMM) della Marina Militare italiana all’Arsenale di Venezia24. Anche in quel caso l’intento del Centro Studi dell’ISMM era di sollecitare al confronto sul concetto di strategia discipline e competenze diverse. Che l’idea fosse nata in seno alla Marina Militare non è un caso. Per ragioni che saranno chiarite nel prosieguo del volume, questa forza armata si è sempre dimostrata, beninteso non solo in Italia, aperta ad una concezione allargata e «fluida» del concetto, che includesse tra i mezzi e le modalità d’azione messi al servizio dell’obbiettivo politico non solo quelli classici di natura militare.
2. Qualche chiave di lettura
Considerata l’eterogeneità degli approcci e le diverse sensibilità messe in campo forse non è inutile evidenziare in partenza alcune linee comuni ai saggi inclusi in questo volume. Segnalo solo le più importanti ed evidenti.
In primo luogo, da quanto già è stato osservato dovrebbe risultare chiaro che questa non è una raccolta di scritti sulla strategia intesa in senso classico, ad una dimensione, cioè militare. Strategia non è qui sinonimo di arte della guerra, o almeno non è solo l’arte della guerra – anche perché le caratteristiche della guerra tra la seconda metà del Novecento e l’inizio del nuovo millennio sono profondamente mutate –; è invece l’arte del successo di fronte a un’opposizione consapevole, dunque in un contesto comunque conflittuale, ma non necessariamente violento.
Gli autori condividono l’attenzione per la relazione tra pensiero, linguaggio e realtà, per i diversi modi e forme della percezione e rappresentazione del reale, il rapporto tra ciò che è e ciò che appare, e la teoria della conoscenza. In molti dei saggi si giudica possibile la costruzione di una teoria generale della strategia, ove a quest’ultima si guardi come a un linguaggio: gioco di figure linguistiche che svelano e nascondono. Se strategia è, anche, l’arte di persuadere mediante l’uso del linguaggio non sorprenderà scoprire nel contributo di Virgilio Ilari che: «la locuzione con cui retori e sofisti indicavano l’arte di disporre gli argomenti in un discorso (téchne taktiké) fu presa in prestito per indicare l’arte di disporre gli opliti in falange e la falange sul terreno». Né, considerato che lo spazio della comunicazione è qui spesso visto come il campo di battaglia di una guerra per segni, stupiranno i richiami al contributo che lo «sguardo semiotico» può offrire, e in non poca misura ha già offerto, agli studi strategici.
Nel volume emerge inoltre l’interesse costante per il ruolo che la dimensione culturale gioca nell’interazione strategica. L’attore strategico non viene considerato cioè un soggetto indifferenziato nel tempo e nello spazio, che agisce alla ricerca dell’ottimizzazione della propria utilità entro un quadro dato di vincoli e opportunità di natura strutturale. Per spiegarne il comportamento si riconosce invece spazio anche, se non soprattutto, alle culture e agli «stili strategici»: modelli storici coerenti e persistenti che influenzano la maniera in cui gli attori pensano e organizzano l’impiego delle risorse di varia natura a loro disposizione, tra cui la violenza, per il perseguimento dei propri fini. Ne sono testimonianza i ripetuti riferimenti a quell’«Altro», affascinante e inquietante, che è il pensiero strategico classico cinese.
Ancora, la relazione strategica non è considerata semplice duello, rapporto tra due antagonisti, dialettica delle volontà contrapposte. Sebbene questa indubbiamente sia la natura di ogni rapporto conflittuale, viene più volte in evidenza che simili rapporti prendono forma con l’intervento di parti terze ed entro un particolare ambiente. Ambiente che è parte in gioco, non semplice contenitore neutro dell’interazione, e che di conseguenza ne condiziona l’evoluzione.
Infine, il fatto che parecchi dei coautori si siano formati, o vivano e operino a Firenze non è estraneo ai ripetuti richiami all’eredità filosofica e politica classica filtrata attraverso la sensibilità rinascimentale. I riferimenti al pensiero «mobile e inquieto», per dirla con Giovanni Bechelloni, del Machiavelli tornano a più riprese. Osservazione che ne sollecita immediatamente un’altra: ultima ma certamente non meno rilevante.
È impossibile affrontare il tema dell’azione finalizzata al successo in presenza di opposizione consapevole senza porsi qualche interrogativo sulla natura e la qualità dei fini che con quell’azione si vogliono conseguire e che inevitabilmente ne influenzeranno le modalità di condotta. Lo studio e la pratica della strategia sono destinati a divenire, come molti segni lascerebbero presagire, dominio incontrastato di una filosofia dell’azione neo-sofistica? In ultima analisi dare risposta alla domanda presuppone una definizione del concetto stesso di «azione di successo», che può essere inteso come «pay-off» positivo, soluzione soddisfacente di uno specifico problema, oppure acquisizione di «competenza esistenziale» da parte dell’attore strategico. Sul punto gli autori della raccolta, o almeno alcuni di essi, sono divisi e mostrano sensibilità assai diverse.
3. La struttura del testo
Da quando, all’inizio dell’ultimo quarto del XVIII secolo, il termine strategia entrò per la prima volta nel lessico militare francese, per poi diffondersi lentamente nel resto d’Europa, esso ha percorso parecchia strada; prima dentro e poi fuori dell’originario ambito di pertinenza. È possibile descrivere questo percorso e comprenderne le ragioni? Come si giustifica lo straordinario successo, che si è cercato di documentare in apertura con pochi dati significativi, conosciuto dal concetto di strategia nei contesti più diversi? E cosa ne è oggi della strategia tradizionalmente intesa? A simili domande tenta di dare qualche risposta il contributo del curatore che apre la presente raccolta di saggi.
Ad una lettura classica della strategia, centrata sull’impiego dei mezzi militari per il conseguimento di fini politici, parrebbe far riferimento il saggio di Carlo Jean sulle «guerre ibride» o di «quinta generazione»25. Non è così. Nel dibattito in corso da almeno un ventennio sull’evoluzione della forma bellica26, Jean si è costantemente schierato con chi ritiene che non sia la «natura» della guerra ad esser mutata, bensì che siano cambiate le sue caratteristiche e modalità di condotta e che dunque debba cambiare la strategia. La prima si presterebbe ancora ad essere compresa tramite le tradizionali categorie analitiche clausewitziane; l’ultima non più.
Le guerre di «quarta generazione»27 si identificano con i conflitti asimmetrici, o «a bassa intensità» – forme evolute di guerriglia, guerre civili, «insurgency» seguite agli interventi militari del post-11 settembre –, che hanno progressivamente ma non completamente sostituito quelle di «terza generazione»: inter-statali e basate sulla manovra, combattute nel Novecento dalle forze meccanizzate. Il passaggio è conseguenza di molteplici fattori: i processi di globalizzazione, gli sviluppi tecnologici, la radicalizzazione del confronto religioso-culturale, l’avvento di media globali e nuovi media, ecc. I quali segnalano la crisi del monopolio pubblico dell’uso legittimo della forza affermatosi nella modernità, favorendo l’emergere di attori non-statali in grado di utilizzare ai propri fini una varietà di mezzi, violenti e non.
Le «guerre ibride», di quinta e al momento ultima generazione, sarebbero il prodotto di un ulteriore salto evolutivo28. In esse si sommano caratteristiche proprie delle diverse generazioni di conflitti bellici che le hanno precedute: guerre tradizionali, ma ad alta intensità tecnologica, si mescolano a guerre irregolari e di irregolari. Le dimensioni del confronto si estendono dallo spazio tridimensionale a quello extra-atmosferico, al cyberspazio e allo spazio delle comunicazioni dominato dalle nuove tecnologie e dai media globali. La forza di gruppi e individui collegati in rete, aumentata esponenzialmente dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nonché dal più facile accesso a quelle di distruzione di massa, consentirebbe inoltre ad attori non-statali di sfidare con successo gli Stati a livelli diversi: militare, psicologico, informatico, comunicativo.
Nel nuovo calcolo strategico, osserva Jean, le dimensioni non-convenzionali e non-militari divengono di conseguenza componenti perlomeno altrettanto importanti di quella militare. Il confronto è culturale e psicologico, prima ancora che materiale, diretto tramite la manipolazione delle informazioni e delle percezioni a spezzare i vincoli sociali e a provocare il collasso mentale e morale dell’avversario; guadagnando «i cuori e le menti» delle società entro le quali – in senso letterale – si svolge lo scontro29.
Maggior limite dell’Occidente è continuare a considerare quelle società delle entità fisiche, anziché culturali, ovvero «piramidi, anziché reti di gruppi autonomi» per dirla con Jean. L’impasse non sarà risolto dall’innovazione tecnologico-militare, bensì abbandonando il modello strategico occidentale fondato sulla concentrazione della forza militare contro il «centro di gravità» dell’avversario. Nei conflitti di ultima generazione lo scontro decisivo, che si traduce nella rapida e risolutiva conclusione del confronto, non è più possibile. Conflitti paradossali, questi, per l’Occidente che, non potendo più vincere e di conseguenza consolidare un ordine politico stabile post-bellico, deve però ad ogni costo scongiurare la sconfitta, salvare, osserva Virgilio Ilari: «se non la faccia, almeno la memoria e il giudizio».
Continua Ilari, citando un’affermazione del generale americano Petraeus che parafrasa Aron: nelle guerre contemporanee più importante di vincere è «convincere di aver vinto», ma se questo è vero allora la «strategia della storia» è ben più di una sorta di suggestivo palindromo. La storia della strategia, intesa come analisi del percorso etimologico del sostantivo o ricostruzione del pensiero sul modo di fare guerra30, in effetti sarebbe l’assai più scontata componente d’apertura di una raccolta di scritti come la presente. Tuttavia, l’approccio strategico alla storia – sotto le specie di costruzione e rappresentazione di tradizione, memoria pubblica, identità – fa di essa uno strumento bellico di straordinaria potenza; non solo e non tanto nella forma più banalmente intuitiva della comunicazione propagandistica. Se le guerre si sono sempre fatte per incidere sui processi storici è altrettanto vero che la ricostruzione storiografica è assurta a mezzo al servizio dell’obbiettivo politico; micidiale strumento di una guerra combattuta non solo sui campi di battaglia.
Il palindromo svela così la sua non inattesa dimensione tautologica: non in quanto ogni storia sia storia del presente, ma perché la narrazione del modo in cui sono state, sono o saranno combattute le guerre è parte non secondaria del piano d’azione del narrante. Non si tratta, vale la pena ripeterlo, di fare della propaganda efficace come nel Novecento, o falsa storia, o magari la contro-storia degli sconfitti. Bensì, con Ilari: «di produrre realmente una sequenza complessa e coerente di eventi pensati in funzione del loro futuro e permanente effetto narrativo», che possa costituirsi in giudizio storico attendibile e condiviso, in grado di modificare sino a ribaltarli i risultati, presunti inoppugnabili, del «campo». Non potendo più vincere le guerre in modo tradizionale, l’Occidente ha la necessità di rappresentare l’exit strategy di turno nella forma narrativa la più accattivante e convincente possibile. L’«arma storica» entra così a far parte a tutto titolo della panoplia di una rivisitata «grand strategy» post-moderna31, quale costruzione narrativa a fini persuasivi, coercitivi o dissuasivi, spendibile sia nei confronti dell’Altro che nelle relazioni con i terzi al conflitto: alleati, neutrali, opinioni pubbliche interna ed estere.
Alle condizioni di esistenza ed efficacia di una «grande strategia» di tal genere fanno riferimento Emidio Diodato e Umberto Gori. Ciò che oggi appare manifestamente insufficiente è infatti la capacità dei leader di «pensare strategicamente» la politica estera e internazionale. Nella tradizione occidentale, tuttavia, non si dà strategia di alcun genere se non nel rapporto con l’Altro ed è da tre diverse declinazioni di «altro» che prende le mosse il saggio.
Primo, nella dialettica antagonistica si contrappongono due attori e due strategie, che divengono dunque interdipendenti. Ma l’interazione strategica non è semplice «dialettica delle volontà»: coinvolge non solo gli antagonisti, ma anche l’ambiente. Nella dialettica delle volontà contrapposte entra il Terzo, il sistema. «Flessibilità», la condizione di efficacia di ogni strategia, nella politica internazionale contemporanea non significa (solo) capacità di reazione alle mosse dell’avversario, quanto capacità di «agire in conformità agli effetti sistemici» generati dalla rete delle forze interconnesse. I quali non sono semplicemente più della somma delle azioni/forze stesse, bensì diversi da quella somma. Da ciò, secondo Diodato e Gori, origina la stessa «logica paradossale» che domina l’agire strategico32. Secondo, lo sguardo gettato sulla strategia di un «Altro» lontano, l’estremo Oriente, da un lato consente di guardare, per così dire, dall’«esterno» alla strategia occidentale, evidenziandone la connotazione culturale; dall’altro coglie l’elemento che accomuna le due tradizioni: lo «stratagemma», manifestazione dell’astuzia della ragione. Terzo, «altri» sono infine gli strumenti e modalità d’azione – politici, economici, comunicativi o di diverso genere – che, sebbene non tipici della strategia tradizionalmente intesa, assumono un ruolo cruciale nei conflitti odierni, date le caratteristiche di questi ultimi.
Il saggio presenta due linee di sviluppo. La prima è di tipo metodologico: al presupposto di oggettività delle scienze strategiche si contrappone una visione che dà spazio all’ignoto e alla capacità di risposta soggettiva alla sua evenienza. È a tal fine sottolineata la necessità di costruire un lessico della «coercizione strategica», in cui abbia un ruolo centrale la nozione di minaccia, strettamente connessa a quelle di: rischio, nella scelta degli scenari in cui impegnare l’azione; intelligence, per la selezione delle opzioni più appropriate alle condizioni di contesto; infine velocità, nel ri-orientare la propria azione da un piano all’altro, da una logica all’altra. La seconda linea è una riflessione sul paradigma realista, in particolare nella versione neo-realista33. Quest’ultima riconduce il significato del politico alla produzione di sicurezza; a tal fine la complessità del sistema è ridotta tramite la distinzione interno-esterno, lungo il confine che separa lo stato sovrano dall’ambiente internazionale anarchico. L’aumento in numero, qualità e provenienze delle potenziali minacce minerebbe oggi l’utilità/efficacia di una simile semplificazione, enfatizzando al contempo il ruolo cruciale dell’elaborazione strategica nella definizione e conduzione della politica estera.
Falco Accame affronta una delle due componenti tradizionali di quest’ultima, la diplomazia, evidenziando le tante affinità elettive che, contrariamente alle apparenze, la legano all’altra, la strategia, in particolare nelle situazioni di tensione internazionale, di crisi e in quelle belliche. L’originalità del contributo sta nell’ottica psicoanalitica utilizzata dall’autore, con particolare riferimento ai lavori di Freud e Lacan, nel tentativo di chiarire l’essenza del «cogito» dei due soggetti, il diplomatico e lo stratega.
Sia il primo che il secondo sono parte di, e trovano la loro definizione entro, un triangolo edipico: in entrambi i casi il «padre» è politico; ma, laddove «madre» del diplomatico è la dimensione giuridica, quella dello stratega è militare. L’emancipazione dell’uno e dell’altro soggetto avviene tramite l’intervento regolatore della politica. La quale, così come proibisce – o dovrebbe proibire – alla strategia di compenetrarsi, con-fondendosi, con l’ambito puramente militare (la «madre-guerra»)34, ovvero di sostituirsi al padre-politico, allo stesso modo vieta al processo diplomatico di risolversi nell’ambito giuridico.
Sono così evidenziate le funzioni condivise dalle due attività: invenzione e interpretazione; simulazione e dissimulazione; capacità di «transazione»35; infine, ricerca di un «di più» che accresca il potenziale dell’azione rispetto ai mezzi immediatamente disponibili. Quel «di più», l’inattesa «eccedenza» che sorprende l’avversario minandone la reazione, nella prospettiva di Accame è la capacità di fingere e ingannare, l’artificio e lo stratagemma: le «armi» più efficaci e in fondo più naturalmente proprie sia della diplomazia che della strategia. Nel riferimento al linguaggio psicanalitico di Lacan lo stratagemma diviene l’«oggetto a» designato a colmare la mancanza del soggetto. Lo stratagemma colma la mancanza del piano strategico, è ciò di cui esso ha bisogno per risultare completo, il «di più» che lo rende straordinariamente efficace, il cavallo di Troia.
È possibile, dunque, rintracciare comuni fondamenti filosofici ed epistemologici nell’agire diplomatico e strategico, tali da rendere proficui la coesistenza e i reciproci apporti tra i due relativi campi del sapere? Tanto la diplomazia quanto la strategia secondo Accame dipendono dalla funzione transattiva36, essendo costrette ad operare tra esigenze contrastanti di vario genere: politiche, militari, giuridiche, economiche, etiche. «Transazione» è capacità di dare per prendere, di sacrificare qualcosa nel breve periodo, un interesse immediato e locale, cioè tattico, per ottenere qualcosa d’altro e migliore, o strategico, nel lungo. Transazione significa anteporre alle ragioni della pura vittoria, concetto cui già Clausewitz riconosceva esclusiva valenza tattica, non strategica37, il consolidamento di un equilibrio politico stabile dopo il conflitto, che richiede il reinserimento nel sistema del nemico di ieri.
La riflessione sulla relazione strategia-diplomazia consente in definitiva di distanziare nuovamente la prima delle due dalla logica bellica cui è spesso associata e assoggettata nella cultura occidentale. Logica che, essendo condizionata dal principio dell’annientamento, ha fatto spesso della distruzione delle forze armate nemiche il proprio obbiettivo preferenziale. Il momento del non-essere, nei termini di Accame, si è così imposto sull’essere; laddove, a ben vedere, sia la diplomazia che la strategia mirano invece alla preservazione dell’essere nel divenire.
In meno di un secolo, nel Novecento, dall’originario ambito militare la strategia è spostata verso quello politico, assumendo la forma di «grande strategia» nazionale. Considerata la crescente importanza dello strumento economico nei conflitti internazionali del Novecento, bellici e non, era inevitabile che la migrazione proseguisse verso l’ambito economico. Il transito si è compiuto con la seconda guerra mondiale, quando, in conseguenza dello stretto legame creatosi ai fini dello sforzo bellico tra sistema militare, politica e complesso scientifico-industriale, l’uso del termine strategia si è consolidato nelle scienze economiche ed aziendali, nella teoria del management38.
L’approccio alla strategia proposto in quest’ottica da Cristiano Ciappei privilegia tuttavia la riflessione su una componente tanto rilevante quanto ignorata dell’agire strategico: la «saggezza» o sapienza, intesa come «saper fare», il sapere pratico. La strategia è sapienza pratica delle situazioni, abilità nel volgerle a proprio vantaggio. Grazie ad essa è possibile cogliere il senso dell’azione, che sempre è prima di tutto coinvolgimento esistenziale, rapporto dell’agente con il mondo e i suoi aspetti casuali e caotici che sollecita capacità ermeneutiche e spirituali. La saggezza è la componente dell’azione strategica che consente di superare i vincoli stretti posti dalla contingenza, il tramite grazie al quale l’azione si proietta in una prospettiva ampia, tale da rendere manifeste le motivazioni nascoste ad arte dall’apparenza, i limiti prima facie non percepibili dal soggetto. Funzione, questa, essenziale nella realtà contemporanea caratterizzata dall’apparenza, in cui solo una mente «arguta, acuta e laterale» è in grado di svelare gli inganni, di vanificare gli stratagemmi con cui inevitabilmente si confronta ogni progetto d’azione.
La saggezza incide sulla definizione dell’azione, favorendo l’adozione di strategie ampie e «profonde»; dove il successo non è inteso come efficacia rispetto al fine, comunque parziale, bensì come «successo esistenziale». L’approccio strategico «saggio» punta insomma ad una definizione di strategia che si apre alla riflessione sulla prassi del vivere, su senso e significato dell’agire, più che sul conseguimento di successi parziali. Nella prospettiva d’indagine di Ciappei trovano largo spazio sia una ricostruzione della distinzione tra poiesi e prassi, che attraversa la riflessione filosofica occidentale da Aristotele sino all’età contemporanea, sia il confronto tra i diversi tipi di logica che giustificano le scelte strategiche.
L’avvenuta estensione semantica del concetto di strategia consentirebbe peraltro di farne nel campo della teoria dell’azione «ciò che la semantica è per il linguaggio». Le dimensioni semiotica e semantica dell’agire, così come la capacità pragmatica dell’attore di modificare esiti aleatori, confluiscono in questo modo in una nozione allargata di strategia, base per una teoria strategica dell’azione autonoma rispetto ai tradizionali approcci politici o economici. Qui la strategia è intesa come «rappresentazione simbolica», meccanismo di produzione di senso, fulcro di una teoria dell’agire che si nutre di sapere pratico, o «sapienziale», perciò in grado di orientare soggettivamente l’azione, riducendone l’indeterminata complessità di senso in modo da trarre massimo vantaggio dalla contingenza.
Proprio al contributo offerto dalla semiotica allo studio della strategia è dedicato il saggio di Paolo Fabbri e Federico Montanari. L’attenzione della disciplina come noto è rivolta ai «testi», aggregati di sistemi di significato, al fine di interpretare i processi di costruzione del senso. Testo è anche una maniera, culturalmente e storicamente determinata, di percepire, rappresentare e praticare il conflitto con gli attori in esso coinvolti. Studiare il conflitto in prospettiva semiotica significa guardare alle forme della comunicazione, non solo in riferimento al tema della gestione dei flussi comunicativi in condizioni belliche, ma in quanto parte delle situazioni e pratiche discorsive dei sistemi culturali contrapposti39.
Nell’interazione conflittuale le parti si autorappresentano e rappresentano l’avversario, in vista della definizione del piano d’azione e nella traduzione in pratica del medesimo. Interviene inoltre nel processo, lo evidenziano anche i tre precedenti contributi, il Terzo – opinioni pubbliche, media, attori neutrali –, contribuendo a modificare percezione ed evoluzione del conflitto. Si genera così un nesso tra rappresentazione e strategia in cui l’interazione non è più solo sequenza di mosse e contromosse dei due attori, intesi come soggetti unitari. Essi si costituiscono invece nell’ambiente conflittuale come «inter-attori», legati dalla logica dell’interazione, e «attori ibridi»: aggregati di uomini, armi e tecnologie belliche, per il tramite delle quali avviene il confronto e che sono dunque «soggetti» dotati di proprie competenze e programmi d’azione.
Anche il contributo di Juan Alonso Aldama insiste sull’importanza della dimensione culturale. L’autore ritiene infatti che più proficui dei modelli generali e formali di azione strategica – oggetto del successivo contributo di Rodolfo Ragionieri – siano quelli che danno sostanza culturale agli «attanti» partendo dall’analisi dei diversi «stili di guerra». L’assunto è che ogni cultura strategica sia portatrice di uno specifico modello di razionalità semiotica: diversi ambiti culturali generano altrettante concezioni della produzione di senso, quindi diverse teorie e prassi belliche.
L’opportunità di uno studio semiotico delle culture strategiche è rivendicata attraverso l’esame della ricostruzione teorica operata da Thomas E. Lawrence, meglio noto come Lawrence d’Arabia, della rivolta araba nel deserto contro l’Impero Ottomano (1916-1918)40. All’inizio della campagna Lawrence scopre vano il tentativo di applicare ai modi e alle tecniche di combattimento degli arabi le categorie concettuali dell’arte della guerra a lui familiari, tratte dalla lettura di Guibert, Jomini, Clausewitz, Moltke, Foch. Allo stesso modo quella maniera di combattere sfugge alla comprensione del nemico, i turchi, anche loro prigionieri di una logica semio-narrativa di matrice occidentale. Lawrence lo capisce, si adegua allo stile bellico arabo, ne enfatizza le caratteristiche portandolo alle estreme conseguenze. La rivolta risulta vittoriosa.
Il comportamento degli arabi rinvia ad un modello strategico diverso e lontano dalla tradizionale concezione occidentale della guerra, semmai comprensibile facendo appello a quella cinese classica. I turchi non riescono a decifrare le azioni del nemico, sono incapaci di dare «senso» alla sua condotta bellica perché quest’ultima, semplicemente, risponde ad una logica diversa, «flou». Una logica sfumata ed evanescente, senza forma, «gassosa»; antitetica rispetto a quella di matrice clausewitziana, solida e materiale, basata sulla concentrazione delle forze contro il centro di gravità del nemico.
Ogni guerra ha, o meglio è, un linguaggio dotato di proprie regole grammaticali. La strategia degli arabi è un «testo» bellico la cui forza dipende dal fatto di non avere intelligibilità narrativa o discorsiva per l’avversario/interprete. Agli ottomani la guerriglia nel deserto appare inconsistente, a forte carica «emozionale». Le azioni dei guerriglieri sono «puntuali» e da esse i turchi non riescono a trarre regole per l’azione: accadono in un «non-tempo», apparentemente prive di ogni sequenza logica, e in un «non-spazio», il deserto.
Assai diverso rispetto agli ultimi approcci considerati è quello di Rodolfo Ragionieri, che analizza l’applicazione all’interazione strategica delle teorie formali della decisione razionale, in particolare della teoria dei giochi (game theory)41. L’«interdipendenza delle decisioni degli avversari e le loro aspettative sui comportamenti reciproci»42 è la caratteristica dei giochi strategici. Nel linguaggio tecnico della teoria dei giochi la strategia indica: «un programma completo […] che stabilisce cosa farà [il giocatore] in ogni ipotizzabile situazione in cui può trovarsi coinvolto durante il gioco»43, con l’obbiettivo di massimizzare il proprio pay-off. Definiti gli assunti su cui si fonda il modello formale della decisione razionale e i suoi elementi costitutivi, Ragionieri propone alcuni esempi classici di applicazione della teoria dei giochi a situazioni d’interazione strategica.
La teoria dei giochi pare in grado di dare conto di una logica del paradosso, la cui applicazione spesso si rivela più risolutiva del criterio di razionalità comunemente inteso; attraverso l’analisi della battaglia del Mare di Bismarck e i modelli del poker – l’autore evidenzia come, perlomeno in taluni casi, una decisione del tutto razionale possa condurre ad esiti contro-intuitivi e paradossali.
Più complessa è la questione della funzione e dell’effettiva rilevanza delle teorie formali della decisione razionale nell’analisi dei processi decisionali politico-militari. Lo straordinario sviluppo registrato dalla teoria dei giochi nei decenni scorsi ha portato all’introduzione di modelli per i giochi ripetuti e dinamici, rivelatisi particolarmente utili proprio nel campo dell’analisi della politica internazionale e delle questioni di sicurezza. Nonostante ciò Ragionieri evidenzia il limite maggiore della teoria: gli assunti di tipo lineare sui comportamenti sociali, che non consentono di trattare i meccanismi di retroazione, l’auto-condizionamento risultante dai processi percettivi e cognitivi e gli effetti sistemici tipici, come anche evidenziato sia da Diodato e Gori che da Accame, dei processi d’interazione strategica.
Superare quel limite implica il definitivo abbandono della metafora newtoniana che per almeno due secoli ha dominato il pensiero strategico e le scienze sociali, applicando i risultati delle ricerche più recenti in materia di epistemologia, funzionamento del cervello, intelligenza artificiale, teoria del caos e della complessità. A quei risultati, considerata la rilevanza oggi riconosciuta ai fenomeni di natura non-lineare nella percezione che il soggetto ha di sé e nella sua relazione con la realtà, si richiamano Giorgio Nardone ed Elisa Valteroni nel saggio sull’approccio «costruttivista-strategico» in psicoterapia.
Il saggio propone un percorso di senso inverso rispetto a quello suggerito da Accame: lì si trattava di guardare alla strategia in ottica psicanalitica; qui di applicare alla terapia analitica concetti e metodologie sviluppati dalla teoria strategica. Presentare anche questa faccia del «prisma strategico» potrebbe apparire una bizzarria intellettuale. Eppure il legame tra arte medica e della guerra è stato più volte segnalato, in particolare con riferimento alla tradizione taoista44. La psicoterapia, come la medicina tutta, è conflitto con un nemico che agisce e reagisce in modo subdolo, «astuto», in cui il terapeuta «cerca di prevedere le reazioni ad ogni singola manovra, pianificando possibili varianti tattiche […] alla strategia iniziale sulla base degli effetti rilevati, con l’obiettivo di raggiungere […] la vittoria» [enfasi nostre]»45. Come si vede il linguaggio bellico si presta allo scopo.
Adottare la prospettiva costruttivista significa passare da un modello rigido di conoscenza, determinista e riduzionista, ad uno flessibile e pragmatico, capace cioè di autocorrezione, che sia in grado di delineare soluzioni ad hoc per problemi specifici. In questa prospettiva la «realtà» non è dato oggettivo, bensì un costrutto frutto dei processi percettivi e cognitivi, quindi dei flussi comunicativi e dei loro esiti, a monte dei quali stanno le teorie di riferimento del soggetto considerato. Il disturbo mentale è prodotto da un modo di percepire la, e reagire alla, «realtà». Intervenire sulla percezione, modificandola tramite «stratagemmi» e «manovre», in effetti muta la realtà, e la reazione alla, spezzando il circuito di azioni-retroazioni e risolvendo il problema46.
Limite maggiore dei modelli operativi tradizionali, secondo Nardone e Valteroni, è che nel passaggio dalla riflessione epistemologica alla prassi essi applicano una logica di matrice razionalista-aristotelica, ipotetico-deduttiva, che non prevede meccanismi di auto-correzione. È il problema, in altri termini, a doversi adattare alla soluzione e non viceversa: il modello, ovvero il «piano», s’impone alla realtà. La «logica strategica» costruisce invece i modelli interpretativi in vista degli obbiettivi, secondo un’impostazione costitutivo-deduttiva, favorendo la capacità di auto-correzione del modello sulla base dei risultati dell’intervento sperimentati. Il problema si conosce mediante la soluzione, adattandosi alla situazione per cambiarne le regole di funzionamento47. A tal fine la logica strategica, branca di quella formale non ordinaria, impiega il paradosso e la contraddizione: logiche «non aleatica», dell’autoinganno, della contraddizione, «paraconsistente»48.
In una precedente pubblicazione Giorgio Nardone e Paul Watzlawick avevano sostenuto che l’approccio strategico guarda alla realtà negando ogni assoluto, ogni verità, con un «atteggiamento disilluso e pragmatico» i cui precursori sono da ricercare nella tradizione filosofica greca, «dai presocratici ai sofisti ad Epicuro»49, o nei dettami comportamentali del buddismo Zen, nell’Arte della guerra di Sun Tzu e nel classico cinese I 36 stratagemmi50.
Il Protagora di Platone in effetti dichiarava di voler insegnare51: «riguardo agli affari privati, come reggere la propria casa nel miglior modo possibile; riguardo agli affari pubblici, come parlare ed agire nelle questioni della città con la massima efficacia.» Il pensiero strategico, allora, è forse studio del modo migliore per conferire massima efficacia all’azione? La riflessione strategica si risolve nell’arte del successo, abilità d’invenzione di qualsivoglia artificio e stratagemma in vista del risultato desiderato? Infine, se la realtà è frutto di una costruzione che dipende dalla teoria della conoscenza adottata e la virtù può essere insegnata, quale virtù deve essere insegnata?
Gli interrogativi rinviano alla polemica antisofistica, toccata da Cristiano Ciappei e su cui torna Giovanni Bechelloni nel saggio che chiude la raccolta. Nei sofisti la corretta applicazione alla praxis delle capacità tecniche (téchnai) era garanzia ultima dell’efficacia dell’azione, presupposto del successo e unica preoccupazione del politico-retore-stratega. Furono i sofisti ad additare al pensiero riflesso le «risorse inquietanti della metis, ma è noto come il loro orientamento sia stato presto respinto»52. All’«abilità», alla manovra fraudolenta, alla capacità d’insegnare a chiunque il modo d’impiegare i mezzi più efficaci rispetto al fine, senza riguardo alcuno per la natura di quest’ultimo e anzi in cambio di un compenso, Aristotele contrappose la prudenza (phronesis), che della qualità del fine faceva la ragion d’essere del governo dell’azione53.
Bersaglio polemico di Bechelloni sono i tanti consulenti strategici e «spin doctors» il cui prestigio e la cui popolarità non cessano di aumentare; contemporanei sofisti che rivendicano a proprio campo d’azione la comunicazione e a propri strumenti privilegiati le «strategie comunicative». L’accoppiata dei termini non potrebbe essere più alla moda: negli ultimi decenni il sostantivo strategia ha conosciuto l’eccezionale fortuna anche qui rilevata; ma non meno straordinaria è la sorte toccata alla comunicazione. I due termini, da soli e peggio se in coppia, spesso indicano soltanto, nota però Bechelloni, una maniera «sofisticata» – appunto – di «congegnare inganni, macchinazioni e trappole allo scopo di vincere: negli affari e nella politica, in amore e in guerra». La comunicazione strategica, o dichiarata tale, in tal modo s’identifica con la menzogna, il machiavellismo di bassa lega, e lo stratega politico ama posare a nuovo, ambiguo Machiavelli54: le parole e i segni nascondono le cose.
In effetti come negare – bene lo evidenziava Accame – che sono la dissimulazione e il nascondimento, il «trompe l’oeil», l’apparenza, il velo e la piega barocca, tutti gli artifici volti a stupire e sorprendere, la cifra estetica più autentica della strategia55? Nondimeno Bechelloni ritiene che la veridicità della comunicazione sia la condizione ultima di una strategia efficace, affermazione priva di senso nell’ottica sofistica56. Una posizione ingenua? Forse. Tuttavia, l’incipit di un recente documento di un think tank politico britannico sollecita qualche riflessione:
«L’arte del governo non si riduce alla sola competenza. Per avere successo un governo deve offrire un programma capace di combinare politiche efficaci a un’ideologia in grado di ottenere il sostegno pubblico facendo leva sui principi morali e sui valori intellettuali» [enfasi nostre]57.
Fare «comunicazione strategica» è presentare gli scopi dell’azione nella maniera più comprensibile e accattivante, per guadagnare consenso, motivare e suscitare entusiasmo (di nuovo la «conquista dei cuori e delle menti»): tra gli alleati e potenziali tali, nell’opinione pubblica e in ogni altro interlocutore. Inevitabilmente, la comunicazione che voglia davvero essere «strategica» deve interrogarsi sugli scopi dell’azione e la loro qualità.
Tanta parte della comunicazione contemporanea secondo Bechelloni è invece cattiva comunicazione, conseguenza di una teoria della conoscenza inadeguata e tuttavia diffusa, che taglia le radici della cultura occidentale e pretende di risolvere il problema della comprensione delle «cose del mondo» con la messa a frutto di competenze tecniche e conoscenze scientifiche, entro una concezione limitata di ragione. È la nuova ignoranza di chi presume di capire finalmente la realtà, ma è succube di una cultura pubblica acriticamente accolta e sostenuta da cattiva comunicazione. La risposta è un appello umanistico, nel senso più pieno del termine: il ritorno ad una conoscenza «generalistica», e non generica, che allarghi lo spettro semantico del concetto di razionalità, riannodando i fili che ci legano alle tre città-simbolo d’Occidente: Atene, Roma e Gerusalemme.
Ai coautori di questo volume mi lega un rapporto di stima e amicizia, in taluni casi nato tanti anni fa, in altri più recente. A tutti sono comunque debitore di parecchio di quel che so di un tema così affascinante qual è la strategia. È perciò innanzitutto ad ognuno di loro che va il mio ringraziamento nel momento in cui giunge in porto un progetto pensato assieme e concretizzatosi nel corso degli anni in incontri e iniziative comuni. Al curatore resta naturalmente, e per intero, la responsabilità di ogni limite ed errore del testo. Un ringraziamento speciale e molto sentito debbo infine ad Alessandra Russo, che con la dedizione e l’intelligenza che le sono proprie mi ha aiutato nella revisione dei contributi e in ogni altro aspetto della messa a punto del volume.Note
- Google, consultato in data 13 giugno 2012.
- Si tratta del saggio Langage et structure de la stratégie, Paris, Institut des Hautes Études de Défense Nationale, 1971-1974 , ora in L. Poirier, Stratégie theorique, Paris, Économica, 1987, vol. II, pp. 19-205; cfr. le pp. 146-147 e 217-225.
- Ivi, p. 218.
- J.P. Charnay, Critique de la stratégie, Paris, L’Herne, 1990, pp. 44-45.
- Ivi, pp. 45-49.
- Furono le teorie del «potere aereo», sviluppatesi a partire dagli anni della prima guerra mondiale, a introdurre il concetto di «bombardamento strategico» per indicare azioni di bombardamento pesante condotte in profondità sul territorio nemico e dirette a colpire le città e i centri industriali. Una sintetica quanto oramai classica introduzione a queste dottrine è D. MacIsaac, «Voices from the Central Blue: The Air Power Theorists», in P. Paret., A.G. Gordon e F. Gilbert (a cura di), Makers of Modern Strategy: From Machiavelli to the Nuclear Age, Princeton, Princeton University Press, 1986 (trad. it. Voci dal profondo blu: i teorici del potere aereo, Genova, Marietti, 1992, pp. 257-280).
- Cfr. S. Cosci, «”Entry Into Service” del KC-767A», Rivista Aeronautica, 87(3), 2011, p. 74.
- Quest’aspetto è ampiamente analizzato in E.N. Luttwak, Strategy: The Logic of War and Peace, Harvard, Harvard University Press, 1987 (trad. it. Strategia: la logica della guerra e della pace, Milano, Rizzoli, 2001).
- Il corso, primo in un’università pubblica italiana e secondo se si considera quello istituito nel 1980 presso la LUISS «Guido Carli» di Roma, fu attivato nella facoltà «Cesare Alfieri» durante l’anno accademico 1985-86 per iniziativa di Umberto Gori, che ne sarebbe stato titolare nei sette anni successivi.
- Ottimi per comprendere i temi allora tipici dei corsi di Studi strategici, con inclusi esempi di syllabi e commenti elaborati dai discussant, sono: R. Shultz, «Introduction to International Security», in R. Shultz, R. Godson e T. Greenwood (a cura di), Security Studies for the 1990s, Washington-New York, Brassey’s, 1993, pp. 43-76; e E.A. Cohen, «Strategy: Causes, Conduct, and Termination of War», in R. Shultz, R. Godson e T. Greenwood (a cura di), op. cit., pp. 77-113.
- Nel 1995 mi era stato infatti affidato l’insegnamento di Relazioni internazionali al corso di laurea in Scienze della comunicazione dell’università di Bologna, allora presieduto da Umberto Eco, che tenni per i successivi nove anni accademici. In occasione dei seminari del 1996 mi fu chiesto di parlare sul tema della «cultura strategica», che allora stava suscitando un rinnovato interesse negli Studi strategici. Una stringata sintesi dello stato del dibattito sulla cultura strategica alla metà degli anni Novanta è in A.I. Johnston, Cultural Realism: Strategic Culture and Grand Strategy in Chinese History, Princeton, Princeton University Press, 1995, pp. 4-22.
- Il loro interesse si tradurrà in J.A. Aldama e F. Montanari, «L’attente de l’événement. A propos du concept d'”ultimatum”», in J. Fontanille (a cura di), Le Devenir, Limoges, PULIM, 1995, pp. 77-90.
- Figlio di un ex ministro del generale De Gaulle, Alain Joxe, sociologo ed esperto di politica internazionale, Directeur d’Études all’EHESS e presidente del CIRPES, nel 1985 pubblicò con M. Dobry e P. Fabbri, Dissuasion infra-nucléaire: principes de dissuasion civique, Paris, CIRPES. Tra i suoi lavori più importanti di poco successivi sono: Le cycle de la dissuasion, 1945-1990, essai de stratégie critique, Paris, La Découverte, 1990; e soprattutto Voyage aux sources de la guerre, Paris, PUF, 1991.
- Un’introduzione alla semiotica generativa è A. Zinna, Elementi di semiotica generativa, Bologna, Esculapio, 1994. Sul tema della strategia Landowski e Fabbri avevano collaborato in precedenza; v. P. Fabbri e E. Landowski (a cura di), «Exploration strategiques», Actes Sémiotiques – Bulletin, 6(25), 1983. Molto interessante per l’approccio socio-semiotico alla strategia è in E. Landowski, La société réfléchie. Essais de socio-sémiotique, Paris, Seuil, 1989 (trad. it. La società riflessa, Roma, Meltemi, 1999) il cap. XI, «Explorations stratégiques», pp. 230-244, che in apertura richiama il lavoro del generale Poirier.
- Della ricca produzione di Charnay, intellettuale poliedrico, giurista, storico ed esperto di cultura araba, fondatore e presidente del Centre de Philosophie de la Stratégie, vale la pena menzionare, oltre a Critique de la stratégie, cit.: Métastratégie. Systèmes, formes et principes de la guerre féodale à la dissuasion nucléaire, Paris, Economica, 1990; Stratégie générative. De l’anthropologie à la géopolitique, Paris, PUF, 1992 ; e La stratégie, Paris, PUF, 1995. Interventi di alcuni degli autori menzionati furono ospitati in quegli stessi anni dalla rivista trimestrale Traverses, edita dal Centro Georges Pompidou di Parigi, del cui comitato di redazione facevano parte Baudrillard, Fabbri e Virilio.
- Cfr. L. Poirier, Stratégie theorique, cit. Non mancò qualche sporadica, come solito, ricaduta anche in Italia. Fu Falco Accame, che conosceva le tesi di Poirier, a compiere un precoce tentativo di applicazione della semiotica allo studio della strategia, auspicando al contempo lo sviluppo dell’approccio interdisciplinare agli studi di strategia. Cfr. F. Accame, «Semiotica strategica», Politica e strategia, 2(4), 1973, pp. 35-54.
- F. Montanari, Linguaggi della guerra, Roma, Meltemi, 2004, p. 34.
- In quel periodo la «dromologia», scienza e logica della velocità, introdotta da Virilio alcuni anni prima, esercitava una significativa influenza sulle analisi della politica e della guerra; cfr. P. Virilio, Vitesse et politique: essai de dromologie, Paris, Galilée, 1977. Tracce di quell’influenza si ritrovano anche in questo volume, in particolare nel saggio di Emidio Diodato e Umberto Gori. Dopo la guerra del Golfo ebbe grande risalto di J. Baudrillard La guerre du Golfe n’à pas eu lieu, Paris, Galilée, 1991, in cui l’autore sosteneva che la guerra fosse divenuta la continuazione della non-politica, dell’assenza di politica.
- Il variegato gruppo comprendeva due co-autori del presente volume: Virgilio Ilari e chi scrive. Jean non mirava tanto a favorire lo sviluppo di un approccio multidisciplinare tradizionalmente inteso alla strategia; considerava invece quest’ultima un «attrattore», o «catalizzatore», di conoscenze e campi disciplinari diversi; cfr. C. Jean e C. Pelanda, «L’autonomia metodologica della strategia», Rivista italiana di strategia globale, 4(2), 1984, pp. 369-390. Alla seconda metà degli anni Ottanta risale un trittico di curatele di C. Jean per i tipi della Franco Angeli: Il pensiero strategico, Milano, Angeli, 1985; Sicurezza e difesa, Milano, Angeli, 1986; Studi strategici, Milano, Angeli, 1990.
- Di François Jullien furono pubblicati in quegli anni due degli scritti più importanti: La propension des choses. Pour une histoire de l’efficacité en Chine, Paris, Seuil, 1992; e Traité de l’efficacité, Paris, Grasset & Fasquelle, 1996 (trad. it. Trattato dell’efficacia, Torino, Einaudi, 1998).
- Nello stesso 2004 Montanari pubblicò i risultati del suo pluriennale lavoro di ricerca su semiotica e guerra nella collana dell’editore Meltemi diretta da Fabbri e Gianfranco Marrone; cfr. F. Montanari, Linguaggi della guerra, cit.
- Si trattava del quarto workshop, intitolato «Per una teoria dell’azione strategica nelle relazioni internazionali», cui parteciparono oltre ai due organizzatori: Falco Accame, Carlo Belli, Cristiano Ciappei, Emidio Diodato, Rodolfo Ragionieri, Daniele Ungaro.
- Il centro è oggi presieduto da Umberto Gori e diretto da chi scrive.
- All’incontro, nato da un’idea dell’allora C.F. Giuseppe Schivardi, parteciparono oltre a chi scrive, che in quell’occasione presentò una relazione su «La strategia post-westfaliana»; Paolo Fabbri, con un intervento su «I termini»; il generale Fabio Mini, «L’altra strategia»; Cristiano Ciappei, «Strategia ed Economia»; Luigi Crespi, «Strategia e consenso»; Edoardo Greppi, «Diritto e strategia»; infine Mons. Gianni Ambrosio, «Valori e strategia». Alle citate relazioni si aggiunsero le presentazioni di un gruppo di ufficiali della Marina in servizio presso l’Istituto: i C.F. Giuseppe Schivardi e Massimo Volta e il C.V. Arturo Faraone. Gli Atti della XIV Giornata di Studio «I percorsi della strategia» furono successivamente pubblicati a cura del Centro Studi dell’ISMM di Venezia, come Supplemento n. 2, anno 2005, al Bollettino d’Informazione dell’ISMM, ma hanno avuto circolazione interna alla Marina Militare.
- Per definizione e analisi del concetto rinviamo all’articolo in cui esso è stato introdotto: T.X. Hammes, Fourth Generation Warfare Evolves, Fifth Emerges, «Military Review», 2007, pp. 14-23. Nelle guerre ibride coesistono e s’intrecciano modalità di combattimento convenzionali, irregolari, terroristiche, inclusa la minaccia d’uso di armi di distruzione di massa, cyber warfare e giocano un ruolo importante le tecnologie più avanzate, che aumentano esponenzialmente la capacità di distruzione di piccoli gruppi e singoli individui.
- Il dibattito fu stimolato dalla pubblicazione di due volumi divenuti oramai classici: M. Van Creveld, The Transformation of War, New York, The Free Press, 1991; J. Keegan, A History of Warfare, London, Hutchinson, 1993 (trad. it. La grande storia della guerra: dalla preistoria ai giorni nostri, Milano, Mondadori, 1994).
- L’idea, introdotta in W.S. Lind et al., «The Changing Face of War: Into the Fourth Generation», Marine Corps Gazette, 1989, pp. 22-26, è stata poi sviluppata in T.X. Hammes, The Sling and the Stone: On War in the Twenty-First Century, St. Paul, Zenith, 2006. Il fondamento intellettuale di questi e altri contributi è tuttavia da cercare nel lavoro rivoluzionario del colonnello statunitense John Boyd; cfr. F.P.B. Osinga, Science, Strategy and War: The Strategic Theory of John Boyd, Abingdon, Routledge, 2006 (trad. it. L’arte della guerra di John Boyd. Scienza, strategia, velocità, complessità, Gorizia, LEG, 2012).
- T.X. «Hammes, Fourth Generation Warfare Evolves, Fifth Emerges», Military Review, 2007, pp. 14-23; J. Robb, Brave New World: The Next Stage of Terrorism and the End of Globalization, New York, Wiley & Sons, 2007.
- «War amongst the people» è efficace definizione del generale inglese sir Rupert Smith; cfr. R. Smith, The Utility of Force: The Art of War in the Modern World, London, Allen Lane, 2005 (trad. it. L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Bologna, il Mulino, 2009).
- Cfr. E.L. Wheeler, «Stratagem and the Vocabulary of Military Trickery», Leiden, Brill, suppl. a Mnemosyne. Bibliotheca classica batava, 108, 1988; e V. Ilari, «Imitatio, Restitutio, Utopia: La storia militare antica nel pensiero strategico moderno», in M. Sordi (a cura di), Guerra e diritto nel mondo greco e romano, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pp. 269-381.
- L’espressione è cara alla teoria strategica anglosassone, sebbene negli Stati Uniti sia più spesso utilizzato con significato analogo il concetto di «national strategy», e testimonia dello «slittamento» della strategia (militare) verso la politica. Il termine fu introdotto dalla scuola strategica «marittima» britannica, a partire dalla «strategia maggiore» (major strategy) elaborata da Julian Corbett alla fine del primo decennio del Novecento; cfr. J. Corbett, Some Principles of Maritime Strategy, a cura di E. Grove, Annapolis, Brassey’s, 1988 (trad. it. Alcuni principi di strategia marittima, Roma, Edizioni dell’ufficio storico della Marina Militare, 1995). Il concetto di grand strategy venne successivamente definito da J.F.C. Fuller e poi da Basil H. Liddell Hart. Secondo Liddell Hart funzione della grande strategia è «coordinare e dirigere tutte le risorse di una nazione, o gruppo di nazioni, verso il raggiungimento dell’oggetto politico della guerra – lo scopo definito dalla politica fondamentale»: Strategy, New York, Meridian, 1991, p. 322. La grande strategia, riconosce lo stesso Liddell Hart, è dunque sinonimo di politica della guerra, distinta dalla «politica fondamentale» che definisce l’oggetto di quest’ultima.
- La migliore analisi di questa logica, ad ognuno dei livelli del confronto strategico, si trova in E.N. Luttwak, Strategy: The Logic of War and Peace, cit.
- Il manifesto del modello neo-realista di analisi della politica internazionale è, come noto, K.N. Waltz, Theory of International Politics, New York, McGraw-Hill, 1979 (trad. it. Teoria della politica internazionale, Bologna, il Mulino, 1987).
- La tesi è più compiutamente sviluppata in F. Accame, Il Vietnam, Clausewitz, Freud: appunti per una teoria della strategia, «Punto critico», 10, 1988, pp. 116-132.
- Transazione è qui da intendere in senso giuridico, come superamento del conflitto attraverso la remissione reciproca di pretese, lo scambio, il procedere «aliquid dando, aliquid retinendo» entro una relazione comunque in qualche modo regolata.
- L’autore, familiarizzatosi nel 1970 con la letteratura dei maggiori «strateghi laici» statunitensi cultori di teoria dei giochi, durante il soggiorno presso lo US Naval War College di Newport, a Rhode Island, introdusse in Italia la concezione «transazionale» della strategia in alcuni articoli dei primi anni Settanta. Cfr. F. Accame, «Le funzioni “di pace” dell’istituto militare e la concezione transazionale di strategia», in U. Gori (a cura di), Natura e orientamenti delle ricerche sulla pace (peace research), Milano, Angeli, 1979, pp. 214-242, in particolare le pp. 227-231. Il tema è stato successivamente ripreso e approfondito in F. Accame, Strategia e terrorismo. Carteggio tra Norberto Bobbio e Falco Accame 1993-1994, suppl. a Agorà ’92, 7.
- C. Von Clausewitz, Vom Kriege, Berlin, Ferdinand Dümmler, 1832-1834 (trad. it. Della guerra, 2 voll., Milano, Mondadori, 1970, pp. 180-181).
- H. Couteau-Begarie, Traité de Stratégie, Paris, Économica, 1999, pp. 68-69 e, sulla relazione tra strategia militare e d’impresa, pp. 80-81.
- Cfr. P. Fabbri e F. Montanari, «Per una semiotica della comunicazione strategica», Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici on-line, 30 luglio 2004, www.ec-aiss.it, pp. 27.
- La teoria della guerra nel deserto è esposta nel cap. XXXIII dell’opera più celebre dell’ufficiale inglese; v. T.E. Lawrence, Seven Pillars of Wisdom, Arnold Walter Lawrence Esq., 1926 (trad. it. I sette pilastri della saggezza, Milano, Mondadori, 1971, pp. 214-225); nel 1927 da quest’edizione Lawrence ricavò la versione ridotta Revolt in the Desert (trad. it Rivolta nel deserto, Milano, il Saggiatore, 2004).
- Un classico esempio di questo genere di applicazioni a situazioni di crisi internazionale è G.H. Snyder e P. Diesing, Conflict Among Nations: Bargaining, Decision Making, and System Structure in International Crises, Princeton, Princeton University Press, 1977.
- T.C. Schelling, The Strategy of Conflict, Cambridge, Harvard University Press, 1960 (trad. it. La strategia del conflitto, Milano, Bruno Mondadori, 2006, p. 3, n. 1).
- A. Rapoport, Fights, Games, and Debates, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 1961, p. 142.
- Di vero «parallelismo» tra arti mediche e marziali cinesi parla Thomas Cleary nell’«Introduzione» a Sun Tzu, The Art of War, Boston, Shambala, 1988 (trad. it. L’arte della guerra, a cura di T. Cleary, Roma, Ubaldini, 1990, p. 9). Secondo Cleary tre sono gli elementi comuni ai mondi medico e militare in quel contesto culturale: il principio secondo cui «meno si fa e meglio è»; il fatto di impiegare la strategia per risolvere una «disarmonia»; la necessità di definire correttamente il problema come presupposto per la sua soluzione.
- G. Nardone e A. Salvini, «Logica matematica e logiche non ordinarie come guida per il problem solving strategico», in G. Nardone e P. Watzlawick, Terapia Breve Strategica, Milano, Cortina, 1997, p. 61.
- G. Nardone e P. Watzlawick, L’arte del cambiamento. La soluzione dei problemi psicologici personali e interpersonali in tempi brevi, Firenze, Ponte alle Grazie, 1996, p. 35. Il volume ha introdotto in Italia il modello del «problem solving» strategico. Sui fondamenti filosofici della conoscenza costruttivista cfr. i riferimenti bibliografici in ivi, p. 31; v. inoltre E. Von Glasersfeld, «Il costruttivismo radicale, ovvero la costruzione della conoscenza», in P. Watzlawick e G. Nardone (a cura di), Terapia breve strategica, cit., pp. 19-30.
- Cfr. G. Nardone e P. Watzlawick, op. cit., pp. 13-29.
- V. anche G. Nardone e A. Salvini, op. cit., p. 55.
- G. Nardone e P. Watzlawick, L’arte del cambiamento, cit., p. 47.
- Il libro, di autore ignoto e scritto forse tra la fine dell’età Ming e all’inizio di quella Qing (XVI-XVII secolo), dopo essere stato proibito nell’epoca maoista è oggi molto diffuso in Cina, anche in edizioni popolari, ed è utilizzato come una sorta di prontuario per l’azione. I 36 stratagemmi, lo ha ricordato Nardone in varie sedi, sono stati più volte impiegati con successo nella pratica terapeutica strategica. Cfr. la traduzione italiana dell’edizione cinese del 1978 a cura di Wu Gu, basata sul testo antico riscoperto nel 1941, integrata da commenti, note e da un’introduzione di K. Gawlikowski: I 36 stratagemmi. L’arte cinese di vincere, Napoli, Guida, 1990.
- Platone, Protagora, 318d7-319a2.
- F. Jullien, Trattato dell’efficacia, cit., p. 12.
- L’assenza delle opere originali e la radicale condanna da parte di Socrate e Platone rendono difficile la ricostruzione delle caratteristiche e della storia del movimento sofistico. Per un primo approfondimento cfr. G.B. Kerferd, The Sophistic Movement, Cambridge, Cambridge University Press, 1981 (trad. it. I sofisti, Bologna, il Mulino, 1999).
- È curioso, ma niente affatto casuale, che uno dei più stretti collaboratori e consiglieri di Margaret Tatcher e il Chief of Staff responsabile della comunicazione di Tony Blair per l’intera durata del suo mandato, rispettivamente Alistair McAlpine e Jonathan Powell, abbiano intitolato, o sottotitolato, «il nuovo Machiavelli» i libri da loro scritti traendo spunto dalle passate esperienze. Cfr. A. McAlpine, The Servant. A New Machiavelli, London, Faber and Faber, 1992; e J. Powell, The New Machiavelli. How to Wield Power in the Modern World, London, The Bodley Head, 2010.
- Rinviamo in proposito alle osservazioni su estetica barocca e strategia in F. Accame, Strategia e terrorismo, cit., p. 106; v. anche G. Dioguardi, Viaggio nella mente barocca. Baltasar Gracián ovvero le astuzie dell’astuzia, Palermo, Sellerio, 1986.
- Cfr. M. Bettetini, Breve storia della bugia. Da Ulisse a Pinocchio, Milano, Cortina, 2001, p. 6; il volumetto è un’efficace ricostruzione dell’evoluzione della menzogna e della sua percezione nella storia.
- T. Morgan, The Quest for Change and Renewal, London, Centre for Policy Studies, 2012, p. 1. Stralci del documento sono stati tradotti e pubblicati in Il Foglio quotidiano, 11 luglio 2012, p. I.