Da: Macchina di visione. Futuristi in Biennale, a cura di Tiziana Migliore e Beatrice Buscaroli, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 9-16.
Viva l’Arte che illude, differenzia valorizza il mondo!
Arte, unica ricchezza, unica regina di ogni Varietà!
Unica divinità!!
F.T. Marinetti, 1922
TRADURRE IL PASSATO
Il passato è un paese straniero con cui abbiamo sempre problemi di frontiera. Vi si parlano molte lingue che ci chiedono traduzioni sempre nuove. Per alcuni di questi idiomi mancano i luoghi e i mezzi delle trasposizioni o i soggetti in grado di pronunciarli, perché non ci sentiamo verso di loro in condizione di debito o in stato di curiosità. Per altri invece esistono censure intenzionali, arti dell’oblio o sviste ignare: molti sono quindi i vuoti, i lapsus e le cancellazioni. È quanto è accaduto alla numerosa e rumorosa memoria futurista, sopravvissuta al collasso postbellico del ricordo e odierno oggetto di retrospettive centenarie, ma di poche retrospezioni, di molte ricognizioni e poche ri-concettualizzazioni. La fine dell’amnesia, testimoniata da un lungo lavorio critico e da molte riprese creative, non ha ovviato del tutto ai tanti difetti di memoria: quelli «memoriali» degli enunciati artistici e quelli «mnemonici» dell’enunciazione politica. Con il noto rischio cerimoniale delle ricorrenze: ricordare il breve tempo necessario per scordare a lungo; celebrare, lasciando poi spazio a silenzi imbarazzati o a insularità rivendicative.
Eppure il compito di richiamare alla memoria il Futurismo sembra urgente nella temperie postmoderna, cioè di modernità riflessiva. Il postmoderno infatti non è una categoria cronologica – quel che viene dopo il moderno – ma concettuale – quel che accade nel ripensare le condizioni fondanti delle modernità e i loro esiti. Dei processi della modernità il Futurismo, pur figlio della Belle Epoque, è l’interprete indubitabile e controverso, che ha ancora molto da dirci sulla litigiosa eredità novecentesca nelle arti e negli stili di vita d’Italia e d’Europa.
La memoria futurista è parte cospicua, dal 1926 al 1942, della dinamica culturale di cui è stata ed è ancora portatrice la Biennale di Venezia. Non è quindi inutile che la conoscenza del vasto periodo della presenza futurista in Biennale – nonostante l’opinione di alcuni ricercatori1 – sia ancora irrisolta. Poiché la comprensione è correlazione a nuovi testi e reinterpretazione in nuovi contesti, anche i «bianchi» nella testualità futurista sono attivatori di interpretazione e riserva di memoria futura. Alla condizione, che può essere soddisfatta dall’ASAC di Venezia, di possedere un vasto archivio che consenta di far di più che non registrare una cronaca: rilevare una cartografia e forse stilare un diagramma. In attesa degli esiti imprevedibili della «grande temporalità» (Bachtin), che permetterà di aprire un terzo occhio sull’«homo futurista» e ridefinire le amnesie necessarie a riaprire il futuro, l’ASAC può aiutarci ad accedere alla luce artificiale del ricordo e mettere a Mnemosyne le sue lenti a contatto.
LA CAMPAGNA DEL 1926
La prima presenza collettiva dei futuristi alla XVII Biennale veneziana non è l’esito di una battaglia, come quelle ingaggiate da F.T. Marinetti (battaglie di Venezia, Milano, Trieste ecc.), ma di una vera campagna condotta, o meglio pro-pugnata, con tutte le armi da teatro delle operazioni futuriste. Durante tre anni, per raggiungere la «quota Biennale», cioè per realizzare la mostra collettiva di artisti scelti direttamente dal capogruppo, si susseguirono dichiarazioni, scandali e tafferugli, conferenze pubbliche e pressioni personali, scrittura di manifesti, allestimenti di mostre, uso dei media, creazione di giornali2, trasmissioni radio. L’episodio, ricostruito analiticamente da G. Bianchi (2004), è tanto più significativo, nel 1926, quanto più vi si riscontrano, già tracciate, le modalità organizzative ed artistiche della successive presenze futuriste, fino alla XXIII Edizione del Salone Internazionale d’Arte più celebre, allora, del mondo. Ma poiché il passato dei futuristi sembra scritto con le stravaganze grafiche e alfabetiche delle loro tavole parolibere, conviene fare una premessa alla vittoriosa Campagna di Venezia condotta da artisti che auspicavano, nel 1920, la soppressione di istituzioni come i musei e la vendita sistematica all’estero dei loro patrimoni «passatisti». I futuristi, soprattutto Marinetti, organizzavano e partecipavano in Europa e in Italia a mostre d’arte; le includevano però nei loro programmi di politica culturale e/o di cultura politica (v. Shnapp) come «rassegna periodica di una produzione quotidiana evolutiva», destinata a quel «proletariato dei geniali» – oggi lo chiameremmo «cognitariato»! – che Marinetti contrapponeva alla mitologia operaista del comunismo. Fin dal 1919, con Il discorso di Firenze, e nel 1920, in Al di là del comunismo, Marinetti propugnava, accanto all’abolizione delle accademie, la creazione di Istituti di esperienze estetiche. E programmava la costruzione «in ogni città di un Palazzo o Casa del Genio per Mostre libere dell’Ingegno creatore» per distribuirvi l’arte, come «alcol intellettuale». Qui, senza giurie e gratuitamente, tutti i cittadini avrebbero avuto il diritto di esporre o far eseguire le loro opere: vi sarebbero state esposte composizioni di 1. plastica; 2. musica; 3. declamati scritti poemi e scritti di scienza; 4. opere di ogni genere e valore. «Acefalismo» – per Marinetti – «meraviglioso paradiso anarchico di libertà assoluta dell’arte».
Accanto a questo programma anarco-massimalista, appare però un manifesto dei «Diritti artistici propugnati dai futuristi italiani», dove si chiede la «difesa dei giovani artisti italiani novatori in tutte le manifestazioni artistiche promosse dallo Stato, dai comuni e private». Prima fra tutte la Biennale di Venezia: «Alla Biennale di Venezia furono invitati avanguardisti e futuristi stranieri (Archipenko, Kokoschka, Campendonk) mentre non furono mai invitati i futuristi italiani (creatori di tutti i Futurismi)». A questo scopo, e fino all’accettazione o alla resa strategica della direzione «camorrista» della Biennale, Marinetti (1925) non esita nell’impiego del blitz tattico, spinto fino a simulare l’attentato anarchico.
All’inaugurazione della Biennale Veneziana del ’24 prendo la parola davanti a S. M. il Re e gli dichiaro a gran voce che ha inaugurato una esposizione di camorristi, dove vengono invitati i futuristi stranieri nostri discepoli, mentre i futuristi italiani hanno l’ostracismo. Tafferuglio, agitazione indescrivibile, irrompere dei carabinieri. Tutti credono ad un attento anarchico contro il Re. Vengo arrestato, condotto in Questura.
Le argomentazioni del vate del Futurismo sono molto spesso ad hoc. Stratagemmi che mirano a vincere più che a convincere: nemici e alleati sono ruoli emergenti, momentanei e reversibili, nel dispositivo performativo della Campagna futurista. La mostra del 1926 è motivata dal «fascino mondiale» di una città, già «piaga purulenta del passatismo»; la presenza largamente improvvisata dei 19 artisti con 63 opere e il ritardo del catalogo starebbero a dimostrare invece che – come Venezia stessa, rifugio imprevisto da invasioni barbariche – «il capolavoro non è necessariamente il risultato di un piano preciso predisposto ma può anche nascere casualmente labirinticamente a vanvera» (FTM). La sorprendente ospitalità, che sembra oggi paradossale, della mostra futurista nel padiglione dell’URSS – la cui rinuncia alla partecipazione permette all’ultimo istante l’ampiezza e l’autonomia della manifestazione – è motivata dall’apprezzamento di «assoluta equità obbiettiva» per gli artisti russi – come El Lissitskij o Malevich – bolscevichi sì, ma pur sempre «figli del Futurismo italiano». Come per Picasso che davanti ai cannoni camouflage della Prima Guerra Mondiale affermava trattarsi di opere cubiste, anche per Marinetti «i treni di Lenin furono dipinti all’esterno con dinamiche forme colorate molto simili a quelle di Boccioni, di Balla e di Russolo. Tutto questo onora Lenin e ci rallegra come una vittoria nostra» (Marinetti 1920). Insomma il caso fa bene le cose e la fortuna aiuta gli audaci.
Plagi per anticipazione
Pur nella sua singolarità, il teatro futurista del 1926, che culmina con l’irruzione alla Biennale, riserva altre sorprese, manifesta altri sensi e si presenta con altri significati; quasi un «plagio per anticipazione» (Queneau) di molti tratti salienti della scena artistica contemporanea.
In primo luogo marca una diversa periodizzazione del lungo svolgersi futurista: diversa dalla piatta enumerazione – il primo, il secondo futurismo – e condotta con criteri storico-politici esterni al divenire autonomo della serie artistica. O esemplificata sul modello di altri movimenti artistici: il carismatico modello surrealista e trotzkista alla Breton e soprattutto il simbolismo nelle sue diverse fasi: solitudine profetica del fondatore, emergenza di altri maestri e comunità affettiva, delimitazione rispetto ad altri gruppi, tentativi di razionalizzazione e lotte interne, fino all’integrazione nel Parnaso e all’Accademia (Jurt 1986). E. Gombrich, sulla scolta di K. Popper e della sua logica delle situazioni, ha distinto limpidamente periodizzazioni esterne e tendenze interne – i pittori manieristi e barocchi non sapevano di esserlo, i cubisti e i futuristi sì. E il Futurismo non è un periodo – parola che i suoi membri detestavano – ma una tendenza.
Per esplicita indicazione di Marinetti, proprio con l’esposizione del quadro di Azari Prospettive di volo nella Grande Sala futurista della Biennale di Venezia, «entriamo nella bella sintesi astratta di una nuova grande arte». Nell’autodefinizione futurista – che è costitutiva della sua identità – la nuova tendenza succederebbe alla pratica parolibera e tattilista. Qui ha inizio infatti la serie di Biennali veneziane dedicate all’aeropittura (nel 1938 a quella d’Africa e di Spagna!), accuratamente descritta da Marinetti ne II paesaggio e l’estetica futurista della macchina (1931).
Ma più rilevante ancora è il passaggio che si annuncia nella Biennale del 1926 tra due diverse «questioni polarizzanti», quelle che caratterizzano, sempre per Gombrich, alcune fasi delle tendenze artistiche. L’accento di senso si sposta dall’opposizione binaria passatismo versus futurismo – persino il D’Annunzio del veneziano Notturno viene arruolato nel movimento! – a quella tra Singolarità avanguardista versus Collettività.
La Mostra veneziana accende soprattutto un segnale di svolta nella traiettoria dell’avanguardia artistica. Non soltanto per l’ibridazione dei linguaggi – quella multimedialità che rende i futuristi leggibili ai semiologi – e la «sensologia» (Perniola 1991), più rilevante e pervasiva della stessa ideologia nazionalista. Sottoposto all’imperativo di singolarità – novità, autenticità, originalità – che è ancora a regime in tutta l’arte contemporanea – e di discontinuità radicale rispetto al passato, il futurista si trova per propria definizione ad operare senza i criteri accademici di riferimento che assicuravano circolazione del valore culturale e valenze commerciali. Il riconoscimento qualitativo dell’operazione trasgressiva trapassa dall’opera all’autore, il cui nome-marca e le cui dichiarazioni (le «poetiche») finiscono per contare più dei suoi risultati e prodotti. Si sollevano allora inedite quanto attuali questioni di qualificazione, accettazione e legittimazione rispetto ai poteri politici, alle istituzioni, al mercato e al pubblico (Heinich – Pollak 2005).
Gli artisti chiederanno infatti alle istituzioni la garanzia di una comunicazione efficace: quella di una pratica che ricusa il pubblico e che il pubblico appunto rifiuta. Il rapporto del futurista al pubblico – «noi non vogliamo essere compresi» e abbiamo «la voluttà di essere fischiati» – risponde bene alla definizione della folla nel pensiero di Tarde o Sorel, ma anche a quella che fu data al Risorgimento: un «sopruso eroico». «Il pubblico con le sue volgari abitudini è la razza abbruttita e vigliacca che bisogna sottomettere […] canaglia che dobbiamo condurre in schiavitù» – scriveva Boccioni nel 1914, in una lettera a Papini. Secondo Marinetti (1915), per «rimorchiare» le masse degli spettatori ci voleva energia provocatoria e capacità di sorpresa: in una mostra futurista gli spettatori «subiscono il suo contenuto incandescente e magnetico» per gli «strani colori esterni di enorme giocattolo inatteso». Ma una volta realizzata l’accettazione, l’artista d’avanguardia, «figlio di se stesso», era tenuto a proseguire, procedendo a nuove sperimentazioni «esplosive» per sorprendere di nuovo il suo pubblico.
Per assicurare il successo dell’atto «schizofrenico» dell’avanguardia, che richiede un’adesione estetica a principi che per definizione è tenuta poi a superare, Marinetti decide di abitare il paradosso – l’antinomia di una anomia programmata – passando definitivamente da interventista ad eventista. Nella sua Campagna veneziana, coglie e attiva con originale coerenza la necessità di supplire a questa asimmetria informativa. La Mostra della Biennale comprende infatti futuristi scomparsi ma altri felicemente chiamati «i Vivissimi». Attraverso la formazione di operatori con nomi collettivi – vere contro-élites di pressione alla Pareto – assicura una trasgressione a ranghi serrati. E con la creazione di una figura, la sua, di mediatore – promotore di eventi e primattore artista – predispone un sicuro avvenire ai curatori contemporanei. Su questi punti, infatti, portava la resistenza alla direzione «camorrista» della Biennale, la quale si riservava il diritto di una scelta senza mediazioni e caso per caso. Sulla ribalta mondiale di Venezia, Marinetti si afferma invece come il traduttore della molteplicità dei linguaggi e l’operatore legittimo di tutte quelle sinonimie ed antinomie di cui seguiamo fino ad oggi le resistibili carriere. L’importanza della mediazione tra opere e pubblico è cresciuta in proporzione al grado di autonomia e di pregnanza di un regime artistico di singolarità, quello che inventa volta per volta i suoi criteri di valore.
Diversamente da altri correnti di avanguardia – Fauves, Cubisti ecc. – con la richiesta al Governo e attraverso l’appoggio di intellettuali e critici, Marinetti inaugura esplicitamente a Venezia il primo modello del circuito singolare che caratterizza il sistema contemporaneo dell’arte: la singolarità artistica inventa parametri di senso sempre nuovi e, nonostante un rifiuto collettivo esplicitamente cercato, viene promossa e finanziata dalle istituzioni pubbliche. Benché dopo la Mostra del 1926 gli acquisti del Ministero della Pubblica Istruzione porteranno solo sulle opere «decorative», il Futurismo impegna ed usa il potere fascista per montare il dispositivo ambivalente di una marginalità elitaria che pretende la pubblica legittimazione. Chi ha manipolato chi? È domanda questa da rivolgere non più all’archivista, ma allo storico. In ogni caso si confonde fin d’allora quella corrispondenza tra avanguardia artistica, marginalità sociale e progressismo politico che aveva regolato la percezione dell’arte fin dal Romanticismo3.
FAR MONDI
Le esposizioni futuriste alle Biennali, che seguiranno fino al 1942, non si riducono allo sviluppo di questo progetto di tendenza artistica e di politica culturale. Le percorre, nella diversità degli esiti, il comune progetto di una Ricostruzione futurista dell’universo4 che va al di là della ermeneutica negativa di tanta critica contemporanea: il formulario stucchevole delle rituali trasgressioni di stereotipi i quali esistono solo quando ne viene dichiarata la frattura. Per esprimere la «vibrazione universale» della modernità non basta spingere i passatisti fuori dal tempo massimo (ma il passato non passa mai veramente!). Bisogna dare nuova cittadinanza alle parole della tecnica e della scienza (ma è difficile trovar «divina la benzina»!), ridefinire la sintassi e il periodo, creare nel gioco polisemico delle lingue e dei linguaggi – pittura, poesia, musica ecc. – «un effetto stereoscopico degli oggetti di esperienza», ridefinire le forme di vita, le tattiche e strategie dei comportamenti (ma è troppo rinunciare alla pasta!). Lo stile futurista per realizzare questa utopia sarebbe un «astrattismo complesso costruttivo e rumorista» che toglie ai sensi le loro immagini, per renderle poi a un loro senso più profondo. Un procedimento poetico che legge, al di sotto della superficie figurativa del mondo, un linguaggio altro, meno denso e più raro, i cui «astratti significati plastici» offrono il destro ricombinante di nuove realizzazioni dinamiche di senso. E incarnano così l’invisibile. I futuristi non si credevano inventori di mondi possibili rispetto a quello reale. Si pensavano – come molti artisti e alcuni filosofi contemporanei – starmakers (Goodman 1978): creatori di mondi perituri, transitori, effimeri e complessi, sottoposti a molteplici e incessanti «versioni» enunciate con verbi all’infinito5.
Venezia ricostruita
Nella Biennale del 1926 si può dire quindi, con Marinetti, che l’arte futurista diventa presenza. Senza perdere però la sua tensione utopica, l’apporto di anticipazione e presagio che riemergerà nella drammatica conclusione della sua avventura.
In questo senso va inteso il mutato atteggiamento dei futuristi dalla battaglia di Venezia passatista alla campagna per la Nuova Venezia, che li accoglie nella sua Biennale. Da decostruzionista, Marinetti si farà il ricostruzionista di una città dei contrari.
«Mi fai male e mi piaci». L’ambivalenza futurista della Venezia elettrica (1911) di C. Govoni6 è la stessa di Marinetti, Boccioni, Carrà e Russolo: la Venezia «che noi pure amammo e possedemmo in un gran sogno nostalgico». Nel 1910, nel Discorso di Marinetti ai Veneziani, la città «morfinizzata» è la «cloaca massima del passatismo», un ossario liquido (E. Notte, Natura morta=Venezia), dove gondolieri becchini scavano cimiteri inondati; piaga del passato da modernizzare con la violenza o da annegare nell’Adriatico come l’isola di File nel bacino della diga di Assuan. La postura di Marinetti varia però progressivamente: in una recensione alla Quadriennale di Roma fa l’elogio di Thayaht, inventore della futurissima tuta: «le forme sintetiche della sua Bautta contengono tutte le moine, i capricci le squisite eleganze erotiche e sentimentali della antica Venezia»7. E via scrivendo, fino alla dichiarazione sorprendente del 1943 quando, in piena guerra e alla fine della sua vita, Marinetti, pur rinnovando alla città l’invito a cessare di essere «coricolta», scrive: «un giorno Venezia entrerà anch’essa in paradiso e […] raffinata la sua bellezza […] sarà perfetta santificata e non vi stupite se siamo noi futuristi a voler compiere il miracolo poiché da soli detentori dell’avvenire possiamo misurare la perfettibilità». Il riferimento è in un «aeroromanzo» inedito, Venezianella e Studentaccio8, dove troviamo queste parole, è «un sogno complicatissimo» mettere insieme le componenti veneziane (e marinettiane) dell’Europa e dell’Oriente; sogno «elucidato», come dice uno dei protagonisti, Negrone, «dal nero che io contengo e dal rosso che contieni tu Studentaccio». Novella allegorica composta di «sibilline parole in libertà» e d’immagini che s’accoppiano a immagini, destinate a redigere, attraverso «la grande ricostruzione raffinata della città», le leggi di una estetica nuova, quella della Nuova Venezia, «isolarte». Il modello è il personaggio di Venezianella, figlia di Venezia e di un doge conquistatore d’Oriente, nata a Portovenere, «bea come una dea» e tornata ferita da Tobruk – città così tragicamente prossima all’Alessandria natia di Marinetti. Ella è la sola a possedere «il coibente sublime per amalgamare i mosaici della nuova Venezia dei contrari». Con un «accompagnamento chimico di Fusione e Velocità» e «uno scambio tattile che fa combaciare tutti i punti senza slittamento», Venezia raggiunge l’Armonia9. Assistita dagli ultimi futuristi, Venezianella resiste ai falsari e alle funebri pantegane («che vogliono inghiottire il Mostro di novità» – il Futurismo- «e mastica mastica la sua muscolosa gioventù perché sono vecchiaia vecchiaia vecchiaia e polverume e detriti di rughe e cenere d’arte raffinatissima, cipria per la defunta beltà»), per offrirsi ad una fantasmagorica, solenne vestizione onirica di tutti i monumenti e le opere, classiche e moderne, della Nuova Venezia.
FUTURISMO E TURISMO
I poeti del presagio vanno spasimando
(Lucini)
Dire che l’arte è diventata presenza, al di là delle speranze di Marinetti, e che l’oggetto artistico si è spostato nella sfera quotidiana, come presagivano i futuristi, è una tautologia. Ed è un eufemismo dire che i conflitti di cultura, se non di civiltà, tra Oriente ed Europa persistono. Che resta allora dell’estrema utopia estetica di Marinetti, quella di una Venezia mediatrice culturale e del proposito futurista di «rallegrare l’universo»? Il turismo di massa e il breve transito dell’élite artistica delle Biennali?
Il legato futurista non è stato interamente investito. In primo luogo riguardo al tempo: per il futurista i tempi non si coniugavano al passato o al futuro remoti, ma in quel futuro del presente che è l’iniziativa, memoria della volontà. Solo così, infatti, si può torcere la freccia lineare di Cronos: a partire dal progetto, rivolgersi al passato prossimo per attingere alle riserve di senso con cui tornare alla complessità «speciosa» del presente.
Venezia dispone nell’ASAC di tutta la sorprendente ricchezza di proposte concettuali e sensibili che sono il lascito poetico delle sue mostre d’arte. Tra queste, il «deposito futurista delle nuove forme plastiche» è ancora disponibile per l’ambizioso progetto di un rinnovo estetico della città. La storia non ci sembra più magistra vitae, ma per promettere il futuro prossimo vale la pena di ricaricare le pile della memoria.
Note
- Cfr. Belli 2009.
- Il primo numero del periodico «La Nuova Venezia» esce il 25 aprile 1924, il giorno dell’inaugurazione della Biennale.
- Cfr. Heinich – Pollak 2005.
- È il manifesto firmato da Balla e Depero e pubblicato a Milano l’11 marzo 1915.
- «Noi possediamo un nuovo istinto, l’istinto del complesso» (Boccioni).
- Cfr. Lasala (a cura di) 2008.
- Cfr. Marinetti 1931.
- Cfr. Fabbri 2001-2002.
- Questa armonia non è proprio quella che per De Maria caratterizzerebbe il passaggio all’ultimo Futurismo: dallo stadio prometeico a quello di Orfeo, una natura riconciliata con l’uomo.