Difformità del viso


Da: AA.VV., Identità-Alterità figure del corpo, Biennale di Venezia, Esposizione internazionale d’arte, Marsilio, Venezia, 1995.


1. I Segni visuali: una più grassa Minerva

Il volto non è nuovo alle arti e ai saperi.
Ma se l’arte ritorna oggi ad iscrivere tratti, lineamenti e caratteri, la vulgata concettuale li dichiara illeggibili. Gli eccessi fisignomici, il pericoloso scientismo della frenologia ottocentesca hanno lasciato rughe indelebili. Da Lichtemberg in poi, il paradigma fisiognomico e la decifrazione patognomica dei segni fissi di passione stereotipe, sembra “un pregiudizio coagulato, una sventatezza della teoria del significato”. Ammesso che su di un viso si possa cogliere il segno di storie passate, non si crede più, come la criminologia dei primi del novecento, ad una grammatica di senso, cifra d’accesso all’archivio segreto dell’anima del genio o del criminale. Preclusa ogni ermeneutica e ogni disciplina come estorsioni di segni, tutta una genealogia dell’espressione, una tipologia sottile degli attori del viso è rinviata all’insignificanza o a “collezioni di sintomi d’una grammatica (singolare) dell’inconscio”.
Eppur si muove. Così come esistono arti del piacere sensuale, articolate ma non comprese nella scienza della sessualità, così l’arte della vita pratica fa continuo ricorso alla conoscenza del viso: i risultati della scienza, di cui il volto è luogo comune e privilegiato sono, come tutti i risultati, una piccola parte dell’esperienza.
D’altronde è una pregiudiziale insostenibile quella che vede il cubismo “coprire di lapidi il volto dell’uomo” e pensa alla ricerca scientifica come una metalinguaggio di norme prefissate invece che alla stipulazione di regole della moderna epistemologia. E quanto alla grammatica è lei che “conferisce al linguaggio il necessario grado di libertà”.
Ci vuol dunque, una “più grassa Minerva”, che rinunci in primo luogo alle tipologie a priori. Quelle per cui, in via deduttiva e ricorsiva, ad es. “il naso può distinguersi in radice punta e spina e per l’articolazione dei tratti – lungo/corto; convesso/dritto/medio; asciutto/carnoso, e arriva ad identificarne 81 tipi, corrispondenti a inclinazioni, vizi e definite virtù. Con lo stesso metodo si potrebbero reperire fino a 58, fronti, 43 occhi, 50 menti e 18 bocche” (Fabbri, Effetto Arcimboldo). Va rintracciata invece una genealogia dell’espressione che mostri (i) la rottura della morfologia contemporanea entro la continuità della storia fisiognomica e (ii) le connessioni tra pratiche artistiche e la riflessione sul segno “visivo”.
Se la pittura e la scrittura hanno sempre pensato in termini di espressione eidetica e cromatica degli affetti, anche i grandi fisionomisti-morfologi, come Piderit o Bell, hanno trovato nelle arti un’ispirazione osservativa. Ricordo del primo la mimica penetrante dello “sguardo velato” – questo faux pas del guardare – e del secondo le osservazioni su Michelangelo, e la statuaria classica: il Gallo morente o il gruppo del Laocoonte (CH. Bell, The anatomy and the Philosophy of Expression as connected with the fine Arts, Londra, 1806).
D’altra parte anche la “semiotica degli affetti” (Bühler) è mutata. Il segno “visivo” non è più inteso come la correlazione fissa fra tratti (significanti) e stati d’animo (significati), ma come un esito provvisorio di correlazione tra processi, cioè tra moti del viso e svolgimenti passionali. Dalla psicofisica dell’espressione di Wundt fino agli studi recenti sulle lingue dei segni per sordomuti, nello studio icastico del viso – cioè sul potere di rappresentazione per via iconica (Gestaltungskraft) – l’espressione ha senso solo nel gioco linguistico della mimica; come astrazione dall’azione: “l’espressione, potremmo dire, si dà soltanto in una mimica (Mienenspiel)” (W. II, §355). Questi segni facciali sono autorappresentazioni del corpo che le esperisce e possono essere attivi o passivi (si pensi alla differenza tra movimenti degli occhi o ai gesti di assaggio). Ci informano sulla loro direzione di rapporto, transitiva o riflessiva, cioè sulla loro pragmatica: la loro grammatica, osserva Wittgenstein, è quella di una esclamazione.
I segni del viso non sono interamente arbitrari. Incipit indeterminati dei movimenti, sono piuttosto gli etimi, i radicali passionali dei processi affettivi. I moti, non gli stati, dell’animo stanno con questi cenni in una relazione ‘motivata’: sono shifter di corpo e senso, indefiniti in principio e precisati volto per volto, singolarmente. (v. Fabbri, Effetto Arcimboldo). È una modalità di senso che sta al senso iconico del viso come la metafora sta al linguaggio vocale. In questo senso che “è proprio il significato quello che vedo” (W. I, § 869) oppure “Il timore – in generale – io non lo congetturo in lui, lo vedo” (W. II, §170).
La questione cambia faccia. Il segno “epigonale” della vecchia fisiognomica, aristotelico e tomistico, ci chiedeva di inferire cognitivamente da in tratto o da un ammiccare del volto all’emozione. Per Bühler, attraverso Husserl e A. Marty, il senso espressivo è una dipendenza esistenziale che comporta un’empatia e limita l’arbitrario e il relativismo segnici.
In questa direzione le ricerche morfologiche delle scienze dell’ espressione convergono con gli esiti di L. Wittgenstein, ostinato sperimentatore del volto e delle sue emozioni, attento – ben oltre Carnap e James – ai giochi di linguaggio inauditi della fisionomia e alla diffusa cecità alla forma e al significato. Imparare a leggere un volto non è decifrare. Si tratta invece di scoprire come forme diverse – ad es.; un viso di faccia e di profilo – possano essere percepite come varianti e sopratutto integrate ad una storia di passioni vedute e dipinte con forme e colori. Per lui la rappresentazione artistica è letterale. “Immagina un volto rappresentato contemporaneamente di faccia e di profilo,come in alcuni dipinti moderni. Una rappresentazione in cui è rinchiuso un movimento, un mutare, un errare dello sguardo. Non rappresenta realmente ciò che si vede un dipinto del genere?” (W., I, § 968).
Meglio ancora, per W. la comprensione fisiognomica degli affetti non è un’estensione di una semantica linguistica. È la parola ad avere una fisiognomica, un volto e una emozione. “Ogni parola (…) può avere in contesti diversi un carattere diverso, ma ha pur sempre un carattere, un volto. Ci guarda comunque. – Ci si potrebbe davvero immaginare che ogni parola sia un piccolo volto, il segno scritto potrebbe essere un volto. E si potrebbe anche pensare che l’intera frase sia una specie di ritratto di gruppo, dove attraverso l’incrociarsi degli sguardi, si produca tra i volti una relazione tale che dall’insieme emerga un gruppo dotato di significato” (W. I, 322).
Le lacune del sapere migrano, come le sue certezze, ma penso che il segreto del volto e delle sue passioni dovrebbe cominciare dentro questa chiarezza. C’è sempre tempo per fare della spiegazione un enigma ed è probabile che cercando chiarimenti di cose dichiarate incomprensibili ci si imbatta in qualche buona idea.

2. Fisionomie linguistiche dei sembianti

Le parole che significano i sembianti umani hanno lineamenti propri: somiglianze e diversità di famiglia. Faccia, volto, viso non sono sinonimi. Variano in modo non riducibile alle categorie stilistiche che le dispongono sulla scala di un valore: più popolare la faccia, poi il viso e, più elevato, il volto. Intanto non sono commutabili in espressioni quali: Faccia di bronzo (ma non Volto né Viso); Faccia a Faccia (e Viso a Viso ma non Volto a Volto); far buon Viso a cattivo gioco (ma non Faccia né Volto) e così via.
Sono parole con diverse fisionomie. Il viso è una animazione della faccia e il volto il suo orientamento di relazione. La faccia, più prossima al portamento, è una superficie d’iscrizione dei tratti offerti allo sguardo altrui. Anche la faccia vede e si dispone (s’affaccia, fa voltafaccia e faccia a faccia), ma il viso – e più ancora il volto – sono maggiormente orientati: guardano all’altro nella intensificazione della sinergia o dell’allergia. Per questo forse si ritrae la faccia, cioè se ne prelevano informazioni (ritratto, in italiano o spagnolo), mentre siamo colti dal volto che cogliamo (por-trait nella lingua francese o inglese)?
Non c’è spazio qui per ravvisare i prototipi semantici dei sembianti iscritti nelle sequenze delle nostre metafore, (come i linguisti hanno fatto per i segni della collera,) ma è certo che esse riflettono e nascondono più dei nostri specchi e delle nostre maschere (come non riconoscere prima facie, la connessione tra vultus e vulva?).
Una sola osservazione sui lineamenti e i caratteri. Concentrazione degli organi di senso, il viso spicca dalla testa. I lineamenti, coro variabile d’attori attivi e passivi, sono l’insieme dei suoi tratti distintivi, ma anche i suoi contorni. I caratteri invece esibiscono le proprietà che vi sono state iscritte. Il viso è sempre stato testo e letto caratterialmente dalle antiche fisiognomiche – Alberti e Della Porta erano crittografi – fino a Klages. Ma come capita nelle scienze, la metafora, se pur superata (penso alla metafora planetaria dell’atomo), come principio euristico non è esaurita. Il segno scritto potrebbe essere, secondo Wittgenstein, un volto mosso dall’affetto: anche la scrittura, come la voce ha una sua fisionomia. Si può leggerla come il luogo della tensione e della distensione, dello staccato e del legato, della sincope e della duratività che sono gli “etimi” dei nostri ritmi emotivi.
In ogni caso si tratta di uno scrivere che ha tutti i lineamenti dell’ambiguità testuale. La faccia è fattura in tutti i sensi del termine, luogo di immedesimazione e di alterazione. Garante morale della persistenza nell’essere, dispositivo di soggettivazione identitaria, il viso è esposto (o travolto) allo sfaccio – alla perdita, provocata o subita, d’ogni regola di ritegno o pudore. E le fattezze sono sembianti, artifici delle maniere, etichette di riconoscimento e luogo cerimoniale di trasfigurazione. Il sembiante, infatti, punto estremo della somiglianza del volto, è anche la sua apparenza, luogo della finzione e della dissimulazione, dei voltafaccia della verità. La sua cosmetica è davvero ‘cosmica’: col trucco, le protesi e le acconciature varia le estensioni e i rilievi del viso, le relazioni al corpo e al capo; non finisce mai di nascondere rivelando e animando attori minuziosi che fanno valere quella totalità. Rime di sopracciglia, di labbra, di palpebre: la magia, bianca o nera degli occhi non può brillare che in quel viso, dipinto in quel modo, diceva Wittgenstein (W. I. 267), e Canetti “Cosa sarebbero gli occhi senza la loro accortezza, senza le palpebre”. Una poetica del viso che è anche un contributo alla conoscenza: lo studio delle ombre proiettate che ci permettono di calcolare l’altezza delle montagne su lontani pianeti, ha preso modello dal sapere dei maquillage e dalla profondità pittorica.

3. Smorfie, sfregi, metamorfosi

Il volto? A quale trasformazione alludi?
(Wittgenstein)

Il viso non è un blasone che assegna il soggetto, con ripartizioni e colori, ad una livrea e a un lignaggio. La fisionomia è disparità, relazione tra differenze che si somigliano, sfumature di cui diventiamo consapevoli solo nel mutamento (v. W. II, § 615). Un’espressione si coglie (o se n’è colti) nel travisare. Ora nulla di amorfo può trasformarsi. Ha ragione Simmel quando vede nel viso un principio d’ordine, un collimatore in cui il memomo spostamento dei tratti (una mal-formazione) dà esiti pieni di senso. La caricatura è là per provare la “felicità” di queste procedure di commutazione che, più che scoprire significati ed affetti, ne inventa di nuovi. (Nel gioco delle correlazioni tra categorie di forma e di senso V. Nabokov ha invertito il geroglifico medioevale che vedeva scritto sul volto O O, il nome dell’uomo: ha scritto OJO, dove la sparizione delle sopracciglia e il prolungamento del naso rovesciano il volto in apparato genitale.)
La smorfia è torsione della forma, la deformità (forse originariamente della bocca) che introduce ad una lettura sfigurale del viso e delle passioni. Un esempio, che ha la Laguna per teatro: in Morte a Venezia solo una smorfia altera l’indicibile bellezza del polacco Tazio davanti all’invisa famiglia russa: “Una tempesta di irato disprezzo gli annuvolò il volto. La fronte gli si rabbuiò, la bocca si contrasse verso l’alto, le labbra si tesero da una parte in una smorfia di irritazione che gli deformò la guancia e le sopracciglia erano così fortemente aggrottate che gli occhi sprofondavano sotto la loro pressione e di laggiù, malvagi ed oscuri parlavano il linguaggio dell’odio”. Sfigurazioni che implicano il trascolorare e il cambiamento di temperatura e consistenza. Così Svevo ritrae nella Coscienza di Zeno, il faciès della donna già invano amata ed uscita da una lunga malattia: “La faccia di Ada era male costruita, perché aveva riconquistato le guance ma fuori di posto, come se la carne, quando ritornò avesse dimenticato dove apparteneva e si fosse poggiata troppo in basso. Avevano perciò l’aspetto di gonfiezze anziché di guance. E l’occhio era ritornato nell’orbita, ma nessuno aveva saputo riparare i danni che esso aveva prodotto uscendone. Aveva spostate o distrutte delle linee precise e importanti. (…) al sole invernale abbacinante vidi che tutto il colorito di quella faccia non era più quello che io avevo tanto amato. Era impallidito e sulle parti carnose si arrossava per chiazzette rosse. Pareva che la salute non appartenesse più a quella faccia e che si fosse riusciti di fingervela.” Così si sforma il volto amato e non sapremo mai se non sia immutato ma visto così da un amore mutato.
Il viso può anche essere stravolto dai tic, smorfie compulsive generate da “la lotta incessante tra un tratto visificante che tenta di sfuggire alla organizzazione sovrana del viso e il viso stesso che si rinserra su questo tratto, lo riprende, gli chiude la linea di fuga, gli impone la sua organizzazione” (Deleuze, Guattari). Qui il viso è visto come un diagramma virtuale, una “macchina di voltaggio” che può imprimersi ad ogni cosa, a cominciare dalla testa dell’uomo. il destino dell’uomo sarebbe proprio sfuggire alla inumanità del viso con tutte le possibili smorfie. L’arte e la scienza, la follia e il sogno generano senza soste dispositivi di sfida alla norma del viso,. Ritorni alla indifferenziazioni del capo, perdite o scambi di volti e di tratti, moltiplicazioni e fratture, (“efelidi che sfuggono all’orizzonte, capelli al vento, occhi attraversati anziché guardati…”) condensazioni e dilatazioni metamorfosi animali o paesaggistiche. “Non c’è viso che non celi un paesaggio sconosciuto o inesplorato, non c’è paesaggio che non si popoli di un viso amato o sognato, che non sprigioni un viso a venire o già trascorso. Quale volto non ha invocato il paesaggio che amalgamava, il mare o la montagna, qual paesaggio non ha evocato il volto che l’avrebbe completato, che gli avrebbe dato il suo inatteso complemento di lineamenti e di tratti?”
Penso ai visi di Bacon, che dipinge bocche spalancate come aurore; ai volti dei filosofi metafisici di De Chirico a volte riassorbiti nel capo, a volte ritratti come still life, vite silenti, profondità inquietanti abitate da segreti; alle nature morte fotografate da Salgado nelle Morgue.
Ritrarre è travisare cioè per il dizionario: “trasformare intenzionalmente un aspetto”, o “esporre o interpretare la realtà in modo alterato” e svisare: “alterare la realtà e presentare altrimenti i fatti”. Sia che si tratti della faccia dell’uomo, (da leggere alla rovescia, con un esperimento caro alla teoria della Gestalt), o di quella della terra (le mappe geologiche virtuali sono visualizzazioni provvisorie di un sistema di relazioni in evoluzione e continuamente aggiornato, deformazioni coerenti e permanenti).
Ma svisare, come il francese devisager significa anche operare un sfregio sul volto, iscrivere sul sembiante in trasformazione la legalità di un tic permanente. C’è un personaggio di Verga che accarezza l’adultera con una moneta arrotata: “Hai mostrato ad altri che a me il segno della natura – dice – ora tutti ne vedranno il segno”.
Travisamenti questi delle fattura del viso, all’opposto delle trasfigurazioni, con le loro dissolvenze incrociate:

Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circumspetta,
dentro da sé del suo colore stesso,
mi parve pinta della nostra effige:
poiché il mio viso in lei tutto era messo.
(Dante, Paradiso, 127-131)

4. Il mostro e il muso

Per i linguaggi il nome è soltanto un fondamento in cui si radicano gli elementi concreti. Ma gli elementi astratti del linguaggio sono radicati nella parola giudicante, nel giudizio
(Benjamin)

Il volto mostruoso non è un errore di sintassi (genetica o visiva). Il suo compito non è rappresentare né mostrare. Mostro deriva, come la parola Mostra, da moneo, verbo latino di consiglio e d’avvertimento. Ha a che fare con l’esibizione di proprietà che non sono né descrittive né referenziali, ma morali.
Era il caso della faccia bestiale, del muso antropomorfo, mostruosità paradigmatica dell’alterità che abita gli altrui totem e le nostre favole. Qui risiede principalmente quanto rimane di allegoria e di “mitismo” nel concetto di metamorfosi.
Ma la scienza (Darwin, al contrario di Della Porta, ha sovrapposto la fisionomia umana a quella animale ) ha esorcizzato l’indecifrabilità del muso, che trionfa, ormai docile nelle pagine patinate della divulgazione ecologica. Si tenta di vincerne il mutismo: ne spia i segni e sogna di trapiantarvi la nostra parola. Nella messa a morte sperimentale (la vivisezione) mette a distanza definitiva l’ intimità del sacrificio, che ci legava alla bestia, pur conservandone l’alterità. Se dal muso è tolta la maschera del valore etico, non si può più pensare per animali così come si pensa per concetti.
Con la fascinazione dello spettacolo anche i media moderni, prolifici in musi insostenibili, hanno esorcizzato il monito ambivalente della animalità, ricco di tutte le reversibilità e fonte di ogni terrore intimo. Da quando King Kong passa dalla giungla al music hall, solo la dilatazione dell’obbiettivo genera mostri: il mostro è fatto a macchina.
Infatti i mostri, di cui era povera la natura e ricca l’immaginazione, sono e saranno prodotti in serie dalla veglia della ragione scientifica. Ma il controllo genetico ci promette mostri sconsigliati, senza pesi morali, come i cloni, dai visi replicanti che temeva Wittgenstein: “Con esseri diversi da noi le cose potrebbero essere diverse? – Se ad es. questi esseri avessero tutti la stessa figura e gli stessi tratti del viso, già molte cose sarebbero diverse” (W. II, §611).
Il volto mostruoso è solo una tattica retorica – una correzione d’immagine – per la prassi cognitiva. Perduta la forza passionale e l’ allegoria etica, il mostro può frequentare, senza ossessionarla, la cultura di massa.
L’arte allora è quel che ci resta d’esposizione e di risposta morale, di responsabilità nel trattamento del volto ? Incisioni, trapianti e ablazioni: la mutilazione di Van Gogh, l’estensione del naso di Giacometti?

5. Quel viso mi è nuovo

Il nostro volto, ripetiamolo, non è un codice che connette l’araldica dei tratti allo zodiaco delle emozioni.
Ma cosa ci resta, una volta dichiarata la fine della sua conoscenza? Una maschera neutra animata da un’etichetta meccanica di passioni manierate? Una carte du tendre, offerta alla chirurgia (che l’ironia vuole “estetica”)? Il paradigma iconico del viso finirebbe allora per essere la maschera funeraria, priva di quel linguaggio che pur viene dal viso.
Ci servono nuovi concetti e nuove distanze, da cercare nei saperi e nel fare delle arti e delle scienze contemporanee, quelle almeno che non si limitano a rappresentare e a descrivere, ma che esibiscono proprietà valorizzate.
Il cinema ci ha dato, nei visi bianchi dei divi, il solo mito contemporaneo di una intensa seduzione. All’incrocio dei giochi delle masse e dell’immagine riproducibile troviamo questi artifici freddi che sono però grandi effigi seduttrici e iniziatiche e che pratichiamo come riti (la nostra isola di Pasqua, direbbe Baudrillard).
Ci sono altri luoghi in cui le forze dell’affetto sono convocate e disposte? Dov’é possibile trovare il modello incarnato di una distanza che permetta un’altra lettura delle passioni del viso, queste “icone del valore” (Nozick)? Una semio-gnomica che risponda al richiamo intrecciato degli organi e veda immediatamente la passione, senza inferenza logica. Una poetica del viso che disponga un corpo di senso aperto e vario; volto segreto, asoggettivo e metamorfico come le tavole “curiose” di Arcimboldo; testo indiretto e libero, iscritto nel viso proprio dal viso dell’altro a cui questo si apre. Narrazione di tratti-attori, diversi nel ritmo e nell’intensità, che presenta, mostra e risponde di passioni non ancora pronunciate.

Non tutti ci vedono da quest’orecchio.
Resta una possibilità. Anziché comprendere come l’occhio sorrida in quel viso (del nostro più ardua è l’autopsia) si può rispondere col sorriso: “E se ora dici di quel volto che è sorridente, – cosa è più facile: descrivere la posizione e la forma corripondenti delle parti del viso, oppure sorridere a tua volta?” (W. I, § 1072).

Wittgenstein aggiunge: “ora so come andare avanti”.


Bibliografia

AA.VV., L’âme au corps: Arts et sciences 1793-1993, Electa, Paris, 1993

AA.VV., À visage découvert, Fondation Cartier, Flammarion, Paris, 1992

AA.VV., Effetto Arcimboldo, Bompiani, Milano, 1987

K. Bühler, Teoria dell’espressione, Armando Editore, Roma, 1978

J. Clair, Le nez de Giacometti, Gallimard, Paris, 1992

G. Deleuze e F. Guattari, Mille Plateaux, Minuit, Paris, 1980

L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Adelphi, Milano, 1990

Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento