Da: J.-C. Coquet, Le istanze enuncianti. Fenomenologia e Semiotica, a cura di Paolo Fabbri, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2008.
La storia delle idee non dovrebbe mai essere continua; dovrebbe guardarsi dalle somiglianze come dalle discendenze e dalle filiazioni. E limitarsi a marcare le soglie che un’idea attraversa, i viaggi che compie e ne cambiano la natura e l’oggetto
(Deleuze, Guattari, Mille piani)
1. Paradigmi in semiotica
I paradigmi sono “acquisizioni generalmente riconosciute che per un certo periodo forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a chi pratica un campo di ricerca” (Kuhn). Sono anche promesse di successo: le discipline “normali”- con le loro restrizioni prospettiche, le procedure collaudate di descrizione, scoperta e valutazione – sono le condizioni fiduciarie per realizzare queste promesse.
Sull’esistenza di un paradigma “standard” della semiotica, perché ci sia consenso non dobbiamo essere esigenti nella definizione. Nella ricerca attuale sui segni e sui linguaggi – o sulle forme, le forze e i processi di significazione – c’è un tacito accordo sull’esistenza di un paradigma ma non sulla sua interpretazione o razionalizzazione. D’altronde nel caso di una “semiotica normale” meglio sarebbe non provarci neppure: i paradigmi possono orientare la ricerca anche in assenza di regole se le promesse di successo vengono mantenute.
Purtroppo non è questo il caso: nonostante il moltiplicarsi di introduzioni semplificate alla disciplina semiotiche (o forse per questo) il paradigma semiotico è in piena deregulation. In primo luogo per una sua peculiarità: nello stesso ambito disciplinare c’è una convivenza disagiata tra un’episteme linguistica del valore differenziale (Saussure) ed una logica delle interpretazioni inferenziali (Peirce). L’effimero successo mediatico e le scarne esigenze didattiche delle università hanno fatto il resto. La semiotica alterna oggi un lessico passe-partout di parole chiave mal definite e interdefinite ed una collezione di portolani descrittivi del territorio del senso – scienze, arti, media, stili di vita – difficili da assemblare in una sola carta.
Vane le geremiadi sui molti ritardi scambiati per anticipazioni, sui saldi permanenti di risultati acquisiti e la vendita d’indulgenze teoriche. Diciamo che questa condizione” liquida” può rivelarsi feconda se vi riconosciamo lo spostarsi di un accento di senso. Nei momenti di dissenso si rilassano le condizioni e si sfocano le articolazioni, cambiano le anomalie e le lacune- che hanno senso solo sullo sfondo di un paradigma – ma si propongono anche nuove riflessioni filosofiche, nuovi punti di vista teorici, nuove regole e nuovi fatti rilevanti.
Rispetto alla sua vulgata iniziale, talora imperante, la semiotica attuale si è mossa infatti dal segno al sistema, dal codice al processo; dall’enunciato alla enunciazione, dalla frase al discorso, dalla narratività al testo. La rilevazione delle discontinuità si è estesa all’esplorazione del continuo e del tensivo, del contrasto e dell’unione. I bordi del paradigma teorico, i presupposti filosofici e le derivazioni di metodo si son fatti sempre più frattali.
2. Le istanze del discorso
In questo sostrato malcerto, il progetto di Jean-Claude Coquet, capofila della Ecole Sémiotique de Paris, traccia un preciso piano di consistenza. La sua semiotica delle istanze (discorsiva o fenomenologica) è di obbedienza saussuriana: “per noi il problema linguistico è prima di tutto semiologico”, (Saussure). Ed è l’esito originale di un’attività di riflessione e di ricerca sulla lingua e la discorsività che ha come tappe principali Le discours et son sujet (1989), La Quete du sens. Le langage en question (1997) e infine Phusis et Logos. Une phénoménologie du langage (2007). Questa prima antologia italiana riunisce in formato originale i contributi più salienti per lo stato dell’arte semiotica nel nostro paese. Gli articoli sulla fenomenologia del linguaggio, le istanze enuncianti e la temporalità – l’evento e la storia. (Sulla relazione tra Enunciazione e modalità v. Semiotica in nuce vol. 2).
Coquet, che si definisce “linguista fenomenologo”, ha messo al centro del suo progetto “l’uomo di parola” (e non della lingua) e la sua multiforme discorsività. A partire dalla riflessione di uno dei massimi linguisti e semiologi del ‘900, Emile Benveniste che per Coquet costituisce lo snodo e l’intreccio tra la tradizione fenomenologia e le discipline del linguaggio1.
Più noto per le sue ricerche storiche sul vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Benveniste, in alcuni saggi teorici, ha posto in modo radicalmente nuovo il problema della soggettività nel linguaggio, esplicitando alcune formulazioni di Husserl e soprattutto di Merleau Ponty. Un percorso coerente che lo ha condotto ad una inattesa convergenza con la psicanalisi di Lacan (v. Benveniste, 71).
I testi di Benveniste hanno il potere talismanico dei libri non letti, ma le loro risposte permettono di formulare nuove domande. Prolungandone il gesto e articolandone il proposito, Coquet ci sottopone un programma radicale che coinvolge i linguisti quanto i filosofi.
(i) Costruire, o estendere il paradigma di una linguistica fenomenologia;
(ii) completare coi propri modelli quanto di “deficit teorico” si trova nella riflessione di Benveniste sulla Soggettività;
(iii) distinguere nettamente una fenomenologia linguistica dalla filosofia del linguaggio sulla base di una ontologia dell’Enunciazione.
Ritengo che così facendo Coquet offra nuovi modelli per la conoscenza dei fenomeni della Soggettività e della Temporalità diversamente iscritte nel discorso; espliciti formalmente la tradizione della fenomenologia e, mantenendosi nell’ambito del paradigma semiotico saussuriano, ne remuneri le lacune.
2.1. Per una linguistica fenomenologica
Per Coquet rari sono i linguisti che hanno ascoltato la lezione – decisiva nelle scienze umane – del primo Husserl, per cui la linguistica era una “fenomenologia inavvertita” e di Merleau Ponty con la sua ostinata valorizzazione della parola nel campo dell’esperienza. Per il fenomenologo francese tra i linguisti il solo H. J. Pos (1898-1955), avrebbe insistito, inascoltato, sulla priorità dell’esperienza rispetto al pensiero. Senza ignorare lo scarto epistemico introdotto dalla langue saussuriana, il linguista olandese si sarebbe posto il problema della parole e della sua relazione a un soggetto parlante che enuncia la sua realtà vissuta, nell’atto dialogico di intendere l’altro e di intendersi con lui. Compito della linguistica non sarebbe quindi l’esame della “langue” (“collocare le lingue esistenti nel quadro di una eidetica di ogni linguaggio possibile, cioè obbiettivarle davanti ad una coscienza costituente universale e atemporale”), ma il linguaggio, con un “ritorno al soggetto parlante, al mio contatto con la lingua che parlo” (Merleau Ponty).
Spetta però a Benveniste – con Merleau Ponty e Pos – completare il paradigma di una fenomenologia del linguaggio collocando al centro della teoria l’atto di “parole”. Restaurando una lezione saussuriana per cui “è nel discorso che la ‘langue’ si forma e si configura”, Benveniste ha messo a fuoco il soggetto parlante nel “presente incessante della sua enunciazione”. Tracciando così il piano di consistenza di una linguistica del discorso che studia “la lingua in quanto assunta dal parlante in quella condizione di intersoggettività che sola rende possibile la comunicazione linguistica”.
2.2. Soggetto e Persona
La ricerca di Coquet costituisce a tutt’oggi la migliore esegesi e lo sviluppo più coerente dell’opera trascurata di “una delle figure più suggestive e affascinanti nella linguistica del nostro secolo” (Lepschy). Nei suoi studi semio-linguistici sulla soggettività nel linguaggio, sull’apparato formale dell’enunciazione e sulla natura del pronomi, Benveniste discrimina la nozione di Persona dal Soggetto che si costituisce entro e attraverso il linguaggio2. Per il linguista fenomenologo infatti l’uomo si fa Soggetto “enunciando l’istanza presente di un discorso che contiene io” il quale è “Istanza di Persona”, “indicatore linguistico”. Benveniste aveva già distinto l’Egli caratterizzato dalla assenza di Persona e la Persona dell’Io/Tu soggettivamente correlati, dissociando la declinazione pronominale e distinguendo forma linguistica e funzione semantica. Coquet, rispondendo all’esigenza di “ridefinire il Soggetto come un campo, un insieme gerarchizzato di strutture aperte a partire da un c’è originario” (Merleau Ponty), propone una vera “riforma della coscienza”: quella del Soggetto che si enuncia come locutore. La soggettività viene articolata in tre istanze enuncianti – attanti nell’accezione di Tesnière: Soggetto, quasi-Soggetto e non Soggetto – differenziate sulla base di diverse modalità enunciative: la presenza, la quasi presenza o l’assenza del giudizio. Un’istanza corporea – l’Enunciare – che è propria del non Soggetto ed un’istanza giudicante – l’Enunciarsi – che appartiene al Soggetto e al quasi Soggetto. In questo rapporto complesso si costruisce o decostruisce l’identità personale3.
Per Coquet, nella vena di Benveniste, l’istanza originaria (IO) si specifica in due operazioni di Asserzione e di Assunzione gerarchizzate e ordinate da un rapporto di presupposizione. Una precede e fonda il discorso, l’altra lo conclude. Coquet, che ha abbandonato la distinzione di Benveniste tra storia e discorso, postula poi altri due livelli discorsivi che escludono invece il riferimento all’istanza enunciativa: la predicazione logica e funzionale e la predicazione fatica, caratterizzate entrambe da un “segno zero” della Enunciazione. Con questi strumenti esplora le modalità linguistiche della temporalizzazione e sottopone ad una critica originale il carattere ideologico, razionalista della rappresentazione a freccia del tempo E moltiplica le tattiche enunciative che scandiscono i fatti e gli eventi nella retorica del discorsi storici4.
2.3.1. L’impegno ontologico: Essere e mondo
L’originalità del semiologo francese sta nella sua radicale posizione ontologica. Per Coquet ecco “il punto fondamentale d’una fenomenologia delle istanze: una realtà di primo livello (il mondo sensibile) è tradotta in un secondo livello di realtà dal discorso e dalla sua istanza”. L’esperienza umana, individuale e collettiva, è integrata all’atto di significare perché il linguaggio ci abita come noi l’abitiamo. Il discorso quindi non è rappresentazione mediatrice, mero strumento conoscitivo, perché si trova radicato nell’esistenza e sottoposto al principio di realtà,. L’attività enunciativa, nella varietà delle sua istanze, ci dà modo di esperire e far presa sul nostro mondo. Come per Pos e Benveniste, la realtà del linguaggio – non della lingua – è quella dell’essere. Coquet è filosoficamente conscio della portata della sua affermazione “siamo ormai nel territorio dell’ontologia, il linguaggio è l’essere che si enuncia al presente”. Per questo, oltre ai classici della linguistica (da Saussure, Jakobson, Trubetzkoy a Guillaume, da Martinet, Tesnière ad Hagège), fa appello alla tradizione filosofica (Aristotele, Rousseau e Port Royal) e alla sua attualità (Heidegger e Wittgenstein, Frege, Lacan, Lévi Strauss, Lévinas e Ricoeur).
Ci sarebbe insomma un continuum partecipativo che va dalla physis al logos, dall’essere al mondo e indi al linguaggio. Non si tratta della realtà in generale ma della particolare realtà del soggetto enunciante, diversa dall’idea logica di referenza, cioè di un riferimento esterno al discorso. È la ri-presentazione dell’esperienza nell’hic et nunc della sua enunciazione, non la rappresentazione di oggetti esterni o di moduli cognitivi. Per il fenomenologo, l’extralinguistico non esiste: la realtà del linguaggio è in presa diretta sul mondo via il corpo proprio, la percezione e l’emozione. Il discorso è una piega somatica del dire. Anche il problema del pensiero dipende da come si enuncia il corpo.
Nella tradizione filosofica che ha preso il testimone della fenomenologia, il corpo è Corpus Ego, essere dell’esistenza e il linguaggio è il suo esponente incarnato: “al limite tra materia e discorso il corpo dà luogo all’esistenza” (Nancy). Per il filosofo derridiano “è la significazione […] che dà senso al corpo facendone un segno del senso. Tutti i corpi sono segni, così come tutti segni sono corpi (significanti)”. E ancora: “il corpo significante continua a scambiare il dentro e il fuori, ad abolire l’estensione in un unico organon del segno: là dove si forma e di dove prende forma il senso”.
L’enunciazione è una “escrizione” del corpo. “L’istanza enunciante condivide un’esperienza che ogni volta si instaura di nuovo e svela lo strumento linguistico che la fonda” (Benveniste). Per la fenomenologia delle istanze non è la lingua ad enunciare lo stato esterno delle cose, è questo che si enuncia nel linguaggio, attraverso modalità proiettive che mantengono, con diversi gradi di plasticità, il rapporto col reale dell’esperienza somatica. Una semiotica immersiva nelle sue installazioni discorsive. E quanto faceva difetto alla prima fenomenologia e ne faceva la premessa ad una descrizione grammaticale. A detta di Foucault: “la fenomenologia ci ha insegnato a vedere, ma cosa?”
2.3.2. Proiezione e traduzione
Prima viene questa lingua senza parole dei corpi vivi […] poi le parole con cui si scrivono i libri e si cerca inutilmente di tradurre quella prima lingua e poi…
(I. Calvino, Il Viaggiatore)
È l’analisi semiotica che dovrebbe permettere la descrizione di come sia passa da un piano all’altro: dal corpo enunciante al terzo immanente, dalla sensazione primigenia – esperita nel presente da un non-Soggetto – fino a quel distacco dalla referenza enunciativa che conduce il discorso alla sua post-produzione, sotto il segno predicativo di un Soggetto dell’Immanenza. E viceversa: nell’attività di ascolto o di lettura l’istanza ricevente (IR) è tenuta a riprendere l’esperienza dell’Istanza originaria (IO). A ritrovare Il corpo già situato nel cronotopo dello spazio-tempo e a ritrascriverne l’esperienza “escritta” nella forma della lingua. Nulla a che vedere, nota l’autore, con una ripresa ermeneutica.
Coquet chiama Traduzione il processo semio-linguistico con cui I predicati del sensibile proiettano e ri-presentano (Darstellung) quel c’è che si è iscritto nella presenza del corpo (Vorstellung). E introduce all’uopo la nozioni inedite di predicati di realtà e di prossimità rintracciabili nell’attività discorsiva, orale e scritta, e nei suoi esiti: i dialoghi e i testi.
Nella ricerca delle tracce provenienti dal mondo della physis e delle marche del logos cognitivo e sociale, il linguista fenomenologo procede a una disamina minuziosa delle operazioni che le mettono in forma gli universi passionali, dove risuonano le parole non soggettive dell’istanza corporea. Rifiutando l’uso di exempla ficta immateriali e di Gedankenexperiment disincarnati5, Coquet procede ad una vasta esemplificazione e all’esame di testi linguistici e letterari, portatori di esperienza collettiva e individuale che va dall’analisi grammaticale alla letteratura – da H. Cixous a Valéry, da Duras a Deguy, fino a Proust e a Virgilio (con una magistrale analisi dell’apparizione epifanica di Venere madre al figlio riconoscente, Enea)6.
In letteratura, l'”io” dell’Istanza Originaria (IO), l’io referente, si trascrive nell'”io” riferito della scrittura; in seguito questo costruisce i simulacri – i personaggi – che abitano la narrazione. Tocca al lettore il compito di ricostruire, a partire dalle tracce testuali l’IO, quel che del corpo permane trascritto nella realtà ri-prodotta del testo. E in questo senso, per Coquet, la ri-presa nella lettura è più vera dell’esperienza vissuta, giacché il testo instaura una comunità condivisa di significati e di esperienza che trae la sua esistenza dalla lettura e dall’ascolto. “L’effetto di reale è ineluttabile solo perché c’è l’altro e mi guarda” (Derrida).
2.4.1. Il paradigma immanentista
Il linguista fenomenologo vuol prendere le sue distanze dalla filosofia del linguaggio. Per Coquet quest’ultima, nella sue accezioni referenzialista e mentalista, si muove nel solo spazio del logos e smarrisce quindi il contatto con la physis, con la realtà dell’esperienza. È incapace ad articolare le istanze enuncianti dell’autonomia e si esprime all’impersonale: al grado zero della enunciazione, nel regime eteronomo de “si” e del “ciò” (ça). Il soggetto logico-epistemico per Coquet non esperisce, fa solo esperienze di pensiero; confonde il percepire con il pensiero di percepire e perde di vista corpo, sentire e passione.
L’analisi della nozione di Rappresentazione (pag. 77 e segg) è il punto chiave della dimostrazione, lo spartiacque tra fenomenologia e filosofia del linguaggio. Per Benveniste e Coquet ci troviamo in terreno filosofico quando l’esperienza è immediatamente trasposta, razionalizzata in concetti: sul piano del solo pensiero tra forma e cosa (ciò che c’è) si apre allora uno iato invalicabile. Anche nell’analisi dei fenomeni comunicativi andrebbe perduta l’esperienza intersoggettiva di empatia che sostiene la creazione del “noi” non come pluralità di “io”, ma come sua dilatazione intensiva: una “civitas” dell’emozione, fatta di amici in postura di contatto, piuttosto che una “polis” del pensiero.
Solo spostando l’accento di senso, trasformando il “c’è” del mondo in esperienza dell’evento e la forma semiotica in ri-presa dell’esperienza, si potrebbe assicurare la transizione di fase che va dalla rappresentazione alla realtà e viceversa. A partire da questo assunto, Coquet procede ad una redistribuzione delle carte teoriche – da Aristotile e Parmenide a Frege e Wittgenstein – e ad una ri-combinazione del retaggio filosofico, operando nuove intersezioni e annodamenti. È discutibile, ma non è la storia santa retrospettiva, scritta a titolo decorativo e liturgico, di molte storie filosofiche del segno!
Dalla decostruzione filosofica discende la ricostruzione di una doppia genealogia nel campo della semiotica post-saussuriana: una corrente Soggettale ed una Oggettale. Per Coquet, la semiotica hjelmsleviana e greimasiana è intrinsecamente logico-cognitiva e si colloca al di là della barra dell’esperienza di senso. Una semantica immanentista ed “oggettale” quanto all’istanza enunciante, per cui il linguaggio è immediatamente metalinguaggio ed incapace di ristabilire il collegamento tra attività discorsive e realtà.
A partire da questo assunto, Coquet respinge nel quadro immanentista la semiotica di Greimas che pur si riferisce esplicitamente ad una fondazione fenomenologia e ad una teoria dell’enunciazione. Si potrebbe obbiettare che Greimas, in un testo che Coquet trascura: Dell’Imperfezione, cerca di cogliere l’epifania sempre nuova degli eventi sensibili, l’eterogeneità enigmatica dei momenti di felicità. Per Coquet però il soggetto greimasiano della enunciazione enunciata, cioè iscritta nella testualità, abita solo l’immanenza dei testi e non ha accesso all’esperienza della physis: l’essere – mondo. Non sarebbe quindi in grado di tradurre la “lingua” del mondo naturale in quella dei sistemi segnici – come si propone Greimas – proprio per la mancanza di quella presa e ripresa di realtà che garantisce il corpo della sensazione e il linguaggio coi suoi predicati di realtà e di prossimità. Può farlo invece una semiotica Soggettale, quella del discorso e delle istanze enuncianti.
Anche Ricoeur, inizialmente vicino alla posizione fenomenologica7, avrebbe poi abbracciato la causa immanentista di una semiotica narrativa incapace di spiegare l’efficacia del racconto se non in termini di configurazione e ri-figurazione di una esperienza la cui l’istanza originaria resta inattingibile. Per Coquet questa narratività immanentista, che amputa la physis e scorpora la Persona, non saprebbe che farsene del Soggetto. L’identità narrativa individuata da Ricoeur non sarebbe in grado allora di render conto della identità personale a cui darebbe accesso invece una semiotica delle istanze che, dopo la fase di oggettivazione, saprebbe riprendere contatto con la realtà dell’esperienza originaria.
2.4.2. Biforcazioni e convergenze
Il linguaggio,
sia il nulla o non lo sia,
ha le sue astuzie.
(E. Montale, La lingua di dio)
È una posizione ontologica che fa stridere molti denti e biforcare diverse lingue. Vivamente discussa, per es. da J. Courtès per cui l’apparato dell’enunciazione è un simulacro efficace e suscettibile di effetti retorici di persuasione intersoggettiva, ma privo di ogni riferimento ad un supposto “reale”, il quale che sarebbe fuori portata se non “definitivamente perduto”. Un simulacro discorsivo sul cui statuto di verità non saremmo tenuti ad interrogarci, anche se un riferimento ad un orizzonte ontico, via il corpo, resta sempre presupposta.
Ad una conclusione comparabile conduce la posizione di F. Rastier sull’autonomia semantica e sul ruolo mediante del linguaggio in cui egli vede lo specifico dell’eredità saussuriana e lo strumento per federare le scienze umane come discipline della significazione. Proprio Rastier, nella sua caccia anti-parmenidea alla ontologizzazione del senso, ha messo in luce l’impiego filosofico del “grammemi liberi” nella sostanzializzazione, “tattica ontologica” della filosofia. Particelle come gli avverbi, determinativi, pronomi, proposizioni, pronomi, preposizioni; come l’aristotelico todé ti (qualcosa) calcato su un deittico, le preposizioni di W. James o gli avverbi di U. Eco. I pronomi personali soprattutto hanno un impiego privilegiato nella costruzione del soggetto trascendentale della filosofia. Come l’Ich di Kant, l’Ich e l’Es di Freud anche “Benveniste, sul versante linguistico dell’ontologia, fa dell’Io l’operatore istitutivo della ‘réaltà del discorso'” (Io significa la persona che enuncia l’istanza discorsiva che contiene Io, 1971). Per Rastier quindi anche la semiotica delle istanze soffrirebbe di cronica, inguaribile ontalgia8.
Per Coquet invece i due paradigmi, quello formalista dell’Enunciato e quello sostanzialista delle istanze enuncianti, sono complementari e variano nel tempo delle disciplina semio-linguistica la loro dominanza, il loro accento di senso. Una convergenza, per quanto asintotica, sarebbe sempre possibile. Una semiotica fenomenologica in grado ci fondarsi, sul corpo, la sostanza, l’essere potrebbe proiettare, successivamente – secondo un ordine di successione che va dalla fondazione alla proiezione – una semiotica immanentista come quella di Greimas e di Ricoeur. Non è un problema generazionale – la semiotica soggettale che succederebbe ad una oggettale – ma generativo: l’ingranaggio di un dispositivo concettuale.
La prospettiva soggettale è l’anello mancante tra linguaggio e realtà, la pietra filosofia della semiologia? Il dibattito è in corso e c’è materia e forma del contendere. In una disciplina in sviluppo il quod non preesiste alla dimostrazione.
3. Una semiotica “marcata”
Parlare, come abbiamo fatto all’inizio, di deregulation del paradigma semiotico è un’approssimazione per difetto. Nei suoi labili confini – campo di ricerca, federazione disciplinare – si accavallano proposte di neo-semiotica, di semiotica non standard, di nuova generazione, ermeneutica, tensiva, cognitiva, interpretativa, del continuo e dell’unione. Persino dolce! (Courtès)
Il contributo della Semiotica delle Istanze – quella di Pos, Benveniste e Coquet – non è però una voce ulteriore, aggiunta alla dissonanza. È una prospettiva coerente ed autonoma che riorganizza la struttura dell’esperienza linguistica e le apre un nuovo orizzonte di attese, senza rinunciare alla cogenza teorica e alla efficienza descrittiva. Una proposta fuori dal coro teorico, ma che non è mai fuori testo.
1. Il suo piano di consistenza accentua le differenze tra la semiotica fenomenologia e la semiotica di C. S. Peirce con le sue sequele pragmatiche e interpretative9. Un prototipo “immanentista” per restrizione logica e assenza di una teoria articolata della soggettività. Secondo Coquet il ça pense del pragmatista è animato da un puro logos inferenziale, ignaro della realtà prima della physis. Una prospettiva cognitiva e metalinguistica, insensibile alla problematica del corpo e alla sue traduzioni espressive (v. Savan, 91). Per la semiotica delle istanze, decisamente antinaturalistica, il cervello deve diventare soggetto locutore (Deleuze) e disporsi un una rete di gerarchizzata di attanti enunciativi.
Anche la versione idiosincratica di Peirce elaborata da Eco non troverebbe grazia ai suoi occhi. Ricordiamo che a detta di Eco solo l’interesse di un soggetto attenzionato permetterebbe di passare dalla apprensione di un primo ground irreversibile (i qualia virtuali di un ontologico “zoccolo duro”) alla secondità e alla terzità del giudizio percettivo. Ma l’istanza cognitiva di un soggetto che procede “sotto qualche rispetto o capacità” sarebbe solo un momento irrelato nella gerarchia delle istanze avanzata da Coquet.
Queste provengono infatti da una episteme linguistica che fa difetto a Peirce -come notato da Benveniste (1985) – quanto ad Eco. Una postura che ha permesso alla semiotica contemporanea di andare oltre l'”ostacolo epistemologico” rappresentato dal segno e convergere – dalla doppia prospettiva di una filosofia del linguaggio o una fenomenologia linguistica – verso una teoria generale del discorso.
2. Oltre al divario teorico ripetutamente affermato e al di là dell’effetto tattico di campo, ci sembra invece che la Semiotica delle Istanze mantenga una certa aria di famiglia: una compatibilità e una possibile complementarità col paradigma semio-linguistico di retaggio saussuriano e fenomenologico dove si confrontano, con “voci invano discordi” (Saba), Benveniste e Greimas, Merleau Ponty e Ricoeur. Una congruenza di sviluppo più che di situazione, fatta di differenze che si somigliano, ma promesse ad una possibile intercattura.
Nella prospettiva di questo confronto vanno intese le ricerche di fenomenologia discorsiva sui dispositivi enunciativi di debraiaggio e di embraiaggio, sulle passioni, sulle identità narrative e quelle personali, sui tempi e sulla storia. Analisi e disanime che permettono, grazie ad uno sfondo epistemologico comune, l’impiego di procedure intelligibili di valutazione.
E premettono (o promettono) una semiotica enunciativa e discorsiva che segue un’altra via rispetto all’orientamento standard, referenziale e argomentativo. Una semiotica “marcata” nel senso che la linguistica dà a questo termine: dotata cioè, rispetto al paradigma standard, di una tensione ed un’energia di ricerca in grado di schivare l’opposizione tra comprensione ermeneutica e spiegazione scientifica. Come Ricoeur, anche Coquet, linguista e semiologo, ci chiede di spiegar di più e meglio i discorsi e i testi per comprendere meglio e di più le esperienze dei sensi e del senso.
Note
- Per una valutazione dell’attualità di Benveniste nella linguistica contemporanea francese v. J. C. Milner, Introduction à une science du langage, Seuil, Paris, 1989.
A Benveniste, come e più di altri strutturalisti, si rimprovera l’oscillazione tra un modello “galileiano” privo di un dispositivo di verifica (ad es., la ricostruzione “astratta” di un tratto linguistico indoeuropeo senza verifica empirica) e la “messa in intrigo” storica del Vocabolario delle Istituzioni indoeuropee. È riconosciuta invece, al livello della sintassi, l’originalità delle analisi sui pronomi – soprattutto la caratterizzazione del “noi “- la distinzione tra verbi e funzioni verbali, ecc., pur respingendo il postulato del linguaggio come struttura di strutture fondamentalmente omogenee.
Coquet per contro si colloca risolutamente al livello di una linguistica dell’enunciazione e del discorso. - Non tutti i semiologi sono parimente interessati alla problematica della soggettività. Per Eco, ad es., “possiamo costruire una semiotica senza soggetto o (ciò che è lo stesso) dove il soggetto sia dappertutto” (1997:165). D’altronde per il semiologo interpretativo, il Soggetto è “qualunque istanza capace di dire ‘Io’ che entra nella semiosi in qualche modo dal di fuori materiale e corporale – intendo dire un cervello” (1997:166).
- Il secondo volume dei Problemi di Linguistica generale (1981), ha corretto l’infelice traduzione di instance come “situazione” che oscurava nel primo volume il proposito sui pronomi e la soggettività. In Benveniste, “istanza” caratterizza la manifestazione di una presenza. Lepschy ha indicato le variazioni di senso del termine “dal valore classico di instantia” come “il fatto di essere presente, incombente” a quello medioevale di “esempio” (v. l’inglese instance), fino al senso di Instanz in Freud, e instance in Lacan. E ha avvertito che “situazione” rende incomprensibile la “definizione di io come l’individuo che enuncia la presente situazione di discorso contenente la situazione linguistica ‘io'” (Benveniste). Si tratta invece, per Lepschy, “di enunciare o produrre un evento discorsivo, una manifestazione linguistica che contiene una replica, un esemplare, una ricorrenza, cioè appunto una istanza, della parola ‘io'”.
- Per la temporalizzazione, una riflessione semiotica recente sulle figure croniche e regimi temporale problematizza il passaggio da una filosofia dell’essere ad una fenomenologia dell’esperienza oggettiva. E condivide con Coquet il tema dell’opposizione tra esistenza ed esperienza e tra presenza e mediazione (D. Bertrand in AA.VV., 2006).
- Non è il caso dei filosofi del linguaggio e di molti semiologi: “Come al solito, immaginiamoci una situazione” (Eco, 1997:193).
- Per Coquet, una semiotica del visibile porrebbe gli stessi problemi di discorsività ed di ontologia, di physis e di eidos. Diverse naturalmente le risorse formali in gioco nella traduzione.
- “Il linguaggio si presenta come ciò che solleva l’esperienza del mondo fino ad articolarsi nel discorso, fonda la comunicazione e fa accadere l’uomo in quanto soggetto” (Ricoeur, in Coquet, 2006).
- Per Rastier (2003), l’ontologia di Eco è una “posizione esemplare che illustra i limiti della tradizione semiotica”. Si tratta per Eco di “quel qualche cosa che ci conduce a produrre dei segni” e che “ci siamo decisi a chiamare l’Essere”, “orizzonte, bagno amniotico in cui si muove naturalmente il nostro pensiero”. Uno zoccolo duro dell’Essere predisposto a salvaguardare i limiti imposti alla fuga inarrestabile degli interpretanti.
- “Ma si sa, a Peirce si può far dir tutto, a seconda di come lo si rivolti” (Eco, 1997:394).
Bibliografia
- Coquet, J.-C.
- Sémiotique littéraire, Mame, Paris, 1973
- Le discours et son sujet, voll. 1 e 2, Klincksieck, Paris, 1984
- La quete du sens. Le langage en question, PUF, Paris, 1997
- “Istanze enunciative e modalità”, in Semiotica in nuce. Volume II. Teoria del discorso, a cura di P. Fabbri e G. Marrone, Meltemi, Roma, 2001
- Phusis et Logos, Une phenoménologie du langage, PUV, Paris, 2007
- Benveniste, E.
- Problemi di linguistica generale, vol. 1, Il Saggiatore, Milano, 1971 (ed. or. 1966)
- Problemi di Linguistica generale, vol. 2, Einaudi, Torino, 1985 (ed. or. 1974)
- Il Vocabolario delle istituzioni indo-europee, voll. 1 e 2, Einaudi, Torino, 1976 (ed. or. 1969)
- “Le lexique d’E. Benveniste” 1 e 2, a cura di J. C. Coquet, Documents de Travail, Centro Semiotica Urbino, n. 16, sett. 1972
- “La soggettività nel linguaggio” e “Semiologia della lingua”, in Semiotica in nuce. Volume II. Teoria del discorso, a cura di P. Fabbri e G. Marrone, Meltemi, Roma, 2001
- Tristano Bolelli, Emile Benveniste, Accademia dei Lincei, Pisa, 1976
- AA.VV., E. Benveniste aujourd’hui, voll. 1 e 2, Bibliothèque de l’information grammaticale, Peeters, Lovanio, 1984
- Lepschy G., “Emile Benveniste”, in The Encyclopedia of Language and Linguistics, Oxford, 1994, I, pp. 331-334
- Sormano A., Grammatica del senso. Weber, Wittgenstein, Benveniste, Editrice Stampatori, Torino, 2000
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