Da: Émile Benveniste, Essere di parola. Semantica, soggettività, cultura, a cura di P. Fabbri, Bruno Mondadori, Milano, 2009.
1. Ritorni: esperienza e aspettative
Il tempo non è sempre di buon consiglio e la storia dei paradigmi linguistici è là per dimostrarlo. Una diacronia imperativa colloca, negli anni trenta, il superamento della semantica storico-filologica da parte di quella strutturale, che avrebbe ceduto il posto, nel 1975, al paradigma pragmatico e cognitivo. Avremmo allora assistito alla sostituzione del paradigma relativista della semiotica con il cognitivismo, e la sua critica naturalistica e riduzionista delle rappresentazioni simboliche e culturali.
È lecito e forse debito, dissentire. Tra i semiotici, infatti, non manca chi rivendica “il fallimento teorico e pratico del chomskysmo, la debolezza descrittiva del cognitivismo, l’aneddotismo della pragmatica ordinaria” (Rastier). E chi constata cum ira et studio che, mentre le ricerca sul senso si chiude nei laboratori di biologia, l’atteggiamento verso il segno e la lingua ha raggiunto un nuovo livello di “asimbolia” (Barthes). Nella vulgata pervasiva della pubblicità, nella propaganda politica fino al politically correct, i linguaggi sono trattati come sovrastrutture, manipolabili ad libitum, e con effetti immediati sulle disposizioni cognitive.
Nella riflessione sul senso e sui modelli della significazione sono quindi autorizzati rottamazioni teoriche e sgravi metodologici. Liberi da imbastiture teoriche e da esigenze di definizione, è lecito avanzare, a passo di gambero (Eco, 2006), verso la lessicografia e la stilistica. Intanto la semantica cognitiva, ad esempio, ha scoperto la valenza efficace delle metafore e la loro collocazione cerebrale! (Lakoff).
Questo ripiegamento della semiotica va spiegato e se possibile ri-dispiegato. C’è una divaricazione crescente tra le strutture dell’esperienza teorica e l’orizzonte delle aspettative. Mancano i dispositivi concettuali condivisi che permettono di stabilizzare le acquisizioni e assicurare gli orientamenti. Per la tenace resistenza disciplinare della filosofia e delle altre scienze dell’uomo. Per una rara duplicità epistemologica: ilco-occorrimento, nello stesso paradigma, della tradizione saussuriana e peirciana. E per la unilaterale dieta delle applicazioni: esempi per lo più mediatici, non troppo recalcitranti e di scarsa pertinenza discorsiva e multimediale. Il moltiplicarsi dei prontuari storici e dei sillabari terminologici è il sintomo, non la soluzione delle difficoltà.
Poiché un paradigma è un progetto e le pretese di validità si fondano sulla sua condivisione, si può fare di necessità virtù. Senza risalire alla medicina greca o a Locke e retrocedendo a passo di gambero, si finisce per ricadere, di spalle, su alcuni personaggi concettuali immediatamente rilevanti e rivisitare, con loro, i centri storici della teoria.
Il primo episodio è stato il “ritorno a Saussure”, ripensato nella sua intera costellazione testuale (De Mauro, a c. di, 2005). Da questa ripresa emergono i tratti teorici di una nuova linguistica e semiologia, contro le distorsioni dei redattori del Corso di linguistica generale: 1) la “nuova oggettività” dei segni, che la caratterizzazione differenziale svuota della sostanza ontologica soggiacente alla tradizione logico-grammaticale; 2) l’approccio risolutamente non cognitivo della teoria della conoscenza, che consegue allo scioglimento del rapporto metafisico tra parole e cose; 3) l’inserzione, tra scienze naturali e scienze storiche, di una disciplina originale del senso e della cultura (Rastier). Nel Saussure “originale” è ridefinita la stessa opposizione tra langue e parole: la langue è vista come “deposito passivo”, la parole invece come “forza attiva e autentica origine dei fenomeni che poi si riscontrano, mano a mano” nella langue.
Nello spazio di duplicità tra langue e parole si iscrive anche il contributo di Émile Benveniste – d’ora in poi EB – l’altra figura iniziatrice della semiotica – il primo presidente della IASS, International Association of Semiotic Studies – di cui proponiamo qui la rilettura.
La sua rilevanza negli studi sui sistemi e processi di significazione è fuori discussione. Un esempio per tutti. Nel 1966, agli inizi della sua “avventura semiologica” – quando si proponeva di “scoprire la lingua così come si scopre lo spazio” – Roland Barthes riscontrava, nell'”inesauribile chiarezza” dei Problemi di linguistica generale, il progetto di una “vera scienza della cultura”, da raggiungere attraverso una nuova configurazione comunicativa della scienze umane. Per Barthes lo strumento con cui EB rinnovava l’eredità suassuriana era “l’iscrizione della persona nel linguaggio” attraverso l’istanza di discorso, in grado di andare oltre la “vecchia antinomia tra soggettivo e oggettivo, individuo e società”. Una nuova obbiettività dunque, che emergeva dalla natura simbolica dei fenomeni culturali. E ancora, nel ’74, all’uscita dei Problemi di linguistica generale ii – “il libro dell’enunciazione” – Barthes insistevache per EB, linguista non del linguaggio ma delle lingue, queste erano indistinguibili dalla socialità. Con la nuova dimensione enunciativa e interlocutiva, la linguistica di EB diventava allora una “sociologia universale”: lo studio del linguaggio col lavoro, con la storia, la cultura, le istituzioni, insomma, con tutto quel c’è di reale nell’uomo. Al di là delle paratoie disciplinari, era “la scienza della società che parla, che è società precisamente perché parla”. Sempre per Barthes, EB offriva – con i suoi modelli di integrazione dei livelli linguistici, dal fonema al discorso, fino ai linguaggi non verbali – “uno statuto descrittivo dei limiti del sistema, designando in termini semiologici (ecco l’importante per noi), il momento in cui il sistema si integra alla prassi sociale e storica”1.
Il legato concettuale di EB, linguista e semiologo, interprete autentico della grammatica storica (con il Vocabolario delle istituzioni indoeuropee) e dello strutturalismo francese (con George Dumézil e Claude Lévi-Strauss), non è stato accettato senza benefici d’inventario. Alcuni studiosi hanno proseguito e approfondito le sue ricerche etimologiche e linguistiche, ma non ne hanno colto gli svolgimenti semiotici. Altri hanno discusso in lui la coerenza dell’eredità saussuriana. Altri ancora hanno ricollocato i contributi allo studio della sintassi nel quadro più generale della linguistica post-strutturalista. Altri hanno ripreso la riflessione sull’istanza d’enunciazione nell’ambito di una teoria discorsiva e di un percorso generativo del senso; altri, infine, l’hanno posizionata nei termini più ampi di una fenomenologia dei linguaggi2.
2. Il passatore
La distanza da percorrere è meno importante della direzione verso cui orientarsi
(Benveniste)
La novità teorica della ricerca di EB lo ha esposto a una lettura schizoide. È comprensibile e forse scusabile che la sua doppia competenza – di “grammatico di primo piano tra gli indoeuropeisti senza rinunciare a essere un etimologista ispirato” – abbia condotto a singolari divergenze di giudizio3.
Per chi lo apprezza soprattutto per la sua “semio-etimologia”, “è possibile conoscere e stimare EB come un etimologista immerso nella storia culturale, senza sospettare che egli è anche un linguista generale di osservanza saussuriana e viceversa” (Malkiel).
Il progetto radicale di trasformazione – dalla grammatica comparata alla semantica discorsiva – è quindi esposto, come ogni mutazione di paradigma, a una doppia riduzione. Mantenere EB nell’ambito della tradizione linguistica o farne il portatore sano di un pensiero unico, quello sull’enunciazione, supporto del discorso e di “una riforma della soggettività” (Coquet).
Ma EB è un passatore, una figura di prua che travalica reversibilmente le due rive. Tra i fondatori della semiotica nel XX secolo – con il circolo di Praga, Roman Jakobson e Karl Bühler, Louis Hjelmslev e Algirdas J. Greimas – ha prolungato il gesto inaugurale di Saussure che, dalla grammatica comparata, ha condotto alla linguistica generale d’impronta strutturalista, poi all’analisi semiotica della narrazione e del discorso.
Nell’apertura del nuovo paradigma, la carriera di EB è, più di ogni altra, esemplare del percorso che va dalla grammatica storica alla linguistica sincronica e teorica. Successore di Antoine Meillet alla cattedra di grammatica comparata – prima all’École Pratique des Hautes Etudes, poi al Collège de France – EB ha compiuto studi memorabili di morfologia sull’iraniano, poi sull’indoeuropeo (con Jerzy Kurylowicz), prima di intraprendere le sue ricerche sulla significazione4.
Nella prospettiva semiotica che è la nostra, è opportuno ricordare l’avanzamento di metodo rappresentato dalle ricerche ricostruttive sull’indoeuropeo. Per EB esse non postulavano alcuna sostanza primitiva e/o privilegiata e andavano ricondotte al concetto generale della lingua definita da Saussure: una rete regolata di corrispondenze con cui formulare congetture e ragionare algebricamente su forme astratte. Le vocali dell’indeuropeo, memorabilmente descritte dal fondatore della semiologia, sono configurazioni differenziali (emic, diremmo oggi) e suscettibili di calcoli combinatori proprio perché non hanno esistenza fonica attestata (etic)! Nel suo definitivo contributo alla teoria delle radici, EB ipotizza infatti regole di corrispondenza e formula diagrammi da sottoporre a manipolazioni di scrittura. Un insegnamento di metodo che introdurrà alle ricerche fonologiche sui significanti espressivi e alla possibile generalizzazione sul piano del significato. Qui EB tiene ferma la sua strategia di dedurre “la completa differenza dalla completa somiglianza, violando così il principio leibniziano degl indiscernibili” (Milner, 2002). Gli esseri linguistici, composti di significante e significato in rapporto di presupposizione reciproca, sono definibili soltanto per posizione, quindi la somiglianza assoluta su un piano del segno può essere il principio di differenza assoluta sull’altro piano. Dal livello lessicale a quello grammaticale fino a quello discorsivo vige lo stesso criterio di opposizione binaria. La declinazione regolare dei pronomi di persona nasconde la differenza tra le categorie semantiche della personalità (io-tu vs egli) e della soggettività (io vs tu). La frase si articola poi in enunciato ed enunciazione: i testi in storia e discorso e la semiologia in semiotica e semantica.
Il passo successivo porterà EB alla ricostruzione semantica delle istituzioni linguistiche indoeuropee, con il rigoroso principio di metodo che è stato quello di Fustel de Coulanges (La città antica), poi di Dumézil: ipotizzare sistemi di rappresentazioni simboliche (ideologemi) e non determinazioni naturali e materiali. Tuttavia, già nel Vocabolario, che fondeva i risultati più generali e fermi della ricerca precedente insieme alle ricerche personali di EB, si riscontra la doppia direzione che caratterizzerà il suo percorso successivo. Sotto l’influenza di Sapir, le categorie linguistiche esercitano una “presa” sul pensiero e, in seguito, il discorso gioca un ruolo attivo di “interpretante” della cultura (Malinowski, Mauss, Lévi-Strauss). In questo senso vanno intese le ricerche etnolinguistiche di EB sulle lingue del Nord America e dell’Alaska (Redard, 1975) e la fondazione, con Lévi-Strauss, Pierre Gourou e Jean Pouillon, della rivista L’Homme (1961)5. La riflessione linguistica prende posto negli orizzonti d’attesa di una scienza della cultura.
È quindi chiaro che l’attualità di EB non è dovuta a ragioni di scuola, come l’applicazione di una teoria omogenea a oggetti d’analisi chiaramente delimitati. È una postura epistemica che investe oggetti di senso specifici e positivi, al fine di formulare “problemi semiotici” che marcano le scienze dell’uomo. Così facendo, EB oltrepassa i confini disciplinari del paradigma della ricerca e ne sposta i riferimenti.
3. Nuova edizione, nuova traduzione
La svolta impressa da EB alla linguistica e alla semiotica, verso una teoria del discorso, richiede uno sguardo retrospettivo. Semiologia della lingua (1970) ha dato un assetto articolato a un percorso intrapreso con La natura dei pronomi (1956), quando lo studioso si è trovato, nel corso della sua ricerca “normale”, a eccedere il paradigma dell’enunciato che opponeva la langue alla parole e a proporre un’anello mancante: l’enunciazione.
Il progetto generale di EB si intravede attraverso il prisma di ricerche frammentate – e per alcuni confuse (Culioli, 1983; Ono, 2007) – e non si è mai tradotto, come in Hjelmslev ad esempio, in un trattato.
La raccolta dei Problemi I e II, con la sua suddivisione tematica – I, “Trasformazioni della linguistica”; II, “La comunicazione”; III, “Strutture e analisi”; IV, “Funzioni sintattiche”; V, “L’uomo nella lingua”; VI, “Lessico e cultura” – maschera la radicalità di questo gesto innovativo.
Questa antologia, Essere di parola, vuole spostare l’accento di insistenza e introdurre un’intonazione interrogativa, contro quella assertiva delle molte divulgazioni. Una ripresa compatta dei Problemi prende il suo senso e il possibile impatto di fronte al moltiplicarsi di introduzioni abbreviate alla semiotica discorsiva e alle esecuzioni sommarie del pensiero di EB. Le versioni correnti, di seconda o terza mano, non hanno certo lo scopo di problematizzare la ricerca e farla avanzare6.
Ecco il motivo, rispetto alla edizione originale, del diverso raggruppamento delle sezioni e dei contributi che vi si raccolgono – I, “Comunicazione”; II, “L’uomo nella lingua”; III, “Lessico e cultura”. Sono state omesse le due sezioni “Trasformazioni della linguistica”, che tracciava panorami non più attuali della ricerca, e “Funzioni sintattiche”, che, per EB, era “una serie distinta”, consacrata al riconoscimento di costanti sintattiche e di modelli universali di frasi: nominali, relative ecc.
Il compito del traduttore è reso arduo dalla 1) redazione originale dei testi di EB e dalle 2) versioni italiane, sciatte e inesatte, fortunatamente scomparse dalla circolazione commerciale:
1) EB ha scritto 18 libri e quasi 300 articoli, tutti in punta di penna; inoltre la sua partecipazione ai volumi che li raccolgono è assai diseguale. I due volumi de Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee sono l’esito di lezioni tenute al Collège de France, trascritte, raccolte e integrate da studi già pubblicati separatamente. Sommari, riquadri e indici sono di Jean Lallot. Il risultato finale, come ha puntigliosamente osservato Charles Malamoud, non è privo di pecche7. Quanto alla raccolta dei Problemi, il secondo tomo è stato composto da Mohammad Djafar Moinfar dopo l’ictus che nel ’69 lasciò EB paralizzato e privo di parola fino alla morte. I 20 articoli che lo compongono, pubblicati fra il 1965 e il 1970, sono artificiosamente costretti nel modulo che raggruppava i 28 articoli del primo volume, scritti fra il 1939 e il 19648.
2) Viva è l’esigenza di scampare questi testi cruciali della semiotica di tradizione saussuriana dall’ingrata sorte degli errori grammaticali e dei quiproquo lessicali che costellano le traduzioni italiane. Un accanimento ironico di controsensi sui testi di un impareggiabile studioso della significazione. Rinviamo ai rilievi di Giulio C. Lepschy sulle mende della resa italiana del secondo volume dei Problemi, seppure il meglio tradotto.
A parte i banali errori di stampa e quelli ereditati dal testo originale (parole greche in -ois, per -sis, p. 196; “convivis” per “concivis”, p. 310), si trovano nomi conservati nella forma francese (“Elien” per “EIiano”, p. 301), sviste (“greco” per “gotico”, p. 277), e curiosi errori di traduzione: per esempio “in quell’epoca?” per “in quale epoca?” (p. 26), “qualsiasi cosa implichi lo strutturalismo” per “sebbene sia implicato dallo strutturalismo” (p. 49), “tale è l’immagine che se ne riceve” per “tale è l’immagine tradizionale” (p. 87), “intendersi, essere inteso” per “estendersi, essere esteso” (p. 157), “corre” per “piove”, in una citazione inglese (p. 157), e, a quanto pare con una interferenza dell’inglese, “benedirlo” al posto di “ferirlo” (“le blesser”, p. 288).
Altri esempi di lana non caprina si trovano in Manetti (2008). Aggiungiamo “coattazione” per contrainte e “limitatezza” per clôture e coattiamoci solo a questa limitatezza!
Tra le molte elisioni concettuali ed elusioni terminologiche particolarmente infelice è la resa del termine instance con “situazione”. In EB instance è un termine tecnico caratterizzante, interdefinito e frequente, che indica la presenza, il manifestarsi dell’enunciazione. “Ricorrere a “situazione” – nota Lepschy – può provocare l’inintelligibilità, per esempio nella definizione di “io” come l’individuo che enuncia la presente situazione di discorso contenente la situazione linguistica “io” (p. 303): non si tratta di enunciare o produrre un evento discorsivo, una manifestazione linguistica che contiene una replica, un esemplare, una ricorrenza, cioè appunto una istanza, in questo senso, della parola “io”. Traducendo con “situazione” si oscura un punto centrale nei saggi del primo volume sulla natura dei pronomi e sulla soggettività”.
A dispetto della traduzione con “instanza” in Problemi II – sul modello tedesco, freudiano e lacaniano? – l’errore ha contagiato gli impieghi e le citazioni italiane del termine (v. anche Manetti, 2008; Fabbri e Marrone, 2001), oscurando e ostacolando gli sviluppi teorici seguenti per cui “istanza” è termine decisivo per caratterizzare l’attività enunciazionale e discorsiva (Coquet, 2008).
Ritradurre, come si è fatto, è quindi concettualmente doveroso ed editorialmente caritatevole.
4. Sezione I, “Comunicazione”: precisazioni e osservazioni
4.1. Precisazioni
Nella sezione “Comunicazione” sono riuniti contributi teorici sulla consistenza e l’impiego dei concetti semio- e socio- linguistici. Insieme ai saggi ivi presenti, nei due volumi dei Problemi troviamo ora I livelli dell’analisi linguistica, già in “Strutture e analisi” (Problemi I), La forma e il senso nel linguaggio, già in “L’uomo nella lingua” (Problemi II), e Struttura della lingua e struttura dalla società, già in “Strutture e analisi” (Problemi II). L’apparato formale dell’enunciazione, previsto nella parte “Comunicazione” dei Problemi II, sta ora in “L’uomo nella lingua”.
A margine di questa sezione, e nella prospettiva della presente raccolta, alcune osservazioni riguardano gli “attrattori” nella semiotica contemporanea: il carattere biforcuto del paradigma semiotico – le relazioni della coppia di fatto 1) Peirce e 2) Saussure e 3) la traducibilità tra sistemi semiotici di diversa sostanza espressiva.
4.2. Osservazioni
4.2.1.
Semiologia della lingua permette una rilettura a ritroso del percorso di EB. Fin dalla prima pagina viene affrontata l’anomalia epistemologica del co-occorrimento di Saussure e Peirce all’interno del paradigma semiotico. Per EB i padri fondatori della semiotica moderna si trovano agli antipodi: “Saussure appare subito, nella metodologia come nella pratica, l’esatto opposto di Peirce”.
Per il filosofo americano, logico e pragmatista, tutto è segno: l’edificio semiotico è incluso nella definizione che se ne dà. Viceversa, per EB, “è inammissibile che il segno sia elemento di definizione di ogni elemento e principio di spiegazione per tutti gli insiemi astratti e concreti”. Bisogna invece costituire diversi sistemi di segni e rendere espliciti i rapporti di differenza e di analogia che intercorrono tra loro. Operazione impossibile nell’impianto peirciano, dove la tripartizione in simbolo, icona e indice è troppo generica per essere operante sul piano descrittivo. La ragione, per EB, sta tutta nell’assenza, in Peirce, della differenza tra segno e significato e del principio di “sistema segnico”, che è poi la condizione saussuriana della significazione.
Questa incapacità di differenziare i sistemi semiotici – tipica della semiotica di osservanza peirciana – è lampante rispetto alla lingua, che in Peirce non avrebbe alcuna autonomia né specificità (“ammesso che vi abbia mai pensato”). Mentre per EB tutto “il fatto linguistico è prima di tutto semiologico”, per Peirce la lingua sarebbe riducibile al lessico e priva di categorie distinte e costanti. Le parole sarebbero genericamente “simboli”. Sotto la categoria “indici” si troverebbero
i pronomi dimostrativi, e a questo titolo vengono classificate con i gesti corrispondenti, ad esempio il gesto di indicare. Peirce, dunque, non si interroga minimamente sul fatto che un tale gesto è compreso universalmente, mentre il dimostrativo fa parte di un sistema particolare di segni orali, la lingua, e di un sistema particolare di lingua.
C’è chi fa Peirce un semiologo “vittima del peso dell’autorità linguistica” e ripropone una pragmatica degli indessicali (Réthoré, 1986). In effetti, gli studi di antropologia linguistica riconoscono il ruolo centrale degli operatori indessicali e della co-testualizzazione. Ma se iscrivono i pronomi e i deittici nella tripartizione – “l’indice e quello per cui esso sta sono in un certo senso compresenti nel contesto dell’enunciato”, per connessione reale o coesistenza dinamica – è per moltiplicare i caveat. Centrali e comparabili in tutte le lingue umane, i fenomeni di fissazione indessicale sono di una complessità che sfugge alla categorizzazione perceiana; la contiguità su cui si fondano rinvia infatti a standard culturalmente e linguisticamente diversissimi di compresenza fisica e pertinenza discorsiva (Hanks)9.
4.2.2.
Le osservazioni critiche su Peirce non sono l’indice di una mera osservanza saussuriana. EB ha notoriamente criticato la definizione di segno nel Corso di linguistica generale e proposto di muovere “al di là del punto in cui Saussure si è fermato nell’analisi della lingua come sistema significante”.
Nella Natura del segno linguistico, EB aveva rimesso in causa la nozione dell’arbitrario segnico, affermando la relazione di necessità tra le facce del segno. Proprio la “consustanzialità del significante e del significato” – formula impiegata per la prima volta da Saussure il 19 maggio 1911 – fonderebbe invece l’unità strutturale del segno e la sua definizione in termini di valori in costante opposizione.
Qui, tuttavia, la rilettura del Corso e di altri materiali originali ha condotto a precisazioni rilevanti rispetto alla anamorfosi subita dall’insegnamento saussuriano nella redazione di Bally e Sechehaye (Bouquet, 1997b). Approfondimenti che convergono tutti nella direzione di una maggiore pregnanza del piano semantico.
Saussure aveva già sostenuto l’arbitrarietà del significante, rispetto al significato e non alla realtà extralinguistica, e assegnato una priorità di principio alla dimensione concettuale, al significato. Quanto all’arbitrarietà del valore, questa varrebbe per entrambe le facce del segno e giustificherebbe la proposizione originale per cui “due valori arbitrari, il valore fonologico e il valore concettuale, sono articolati tra loro dal nesso arbitrario che collega il significante al significato” (Bouquet, 1997b). Anche EB parla di consustanzialità e Saussure già diceva: “il concetto diventa qualità della sostanza acustica come la sonorità diventa qualità della sostanza concettuale”. Estendere al trattamento del senso gli stessi strumenti impiegati nella caratterizzazione del suono – categorie e tratti distintivi, come faranno Hjelmslev e Greimas – risulta quindi teoricamente fondato.
Quanto alle osservazioni di EB, queste si riferiscono, in termini filosoficamente tradizionali (Normand, 2003), all’arbitrario del segno rispetto al mondo esterno, mentre il Saussure “originale” avrebbe escluso a priori ogni relazione diretta tra lingua e sostanza naturale – il linguaggio come nomenclatura! – ipotizzando un’inedita relazione a nodo borromaico fra tre elementi tenuti insieme due a due: lingua e mondo collegati dalla messa in forma di una sostanza psichica intermedia, cioè dalla significazione.
4.2.3.
EB prende invece risolutamente la via segnalata da Saussure nella comparazione con i linguaggi non verbali. “Per capire la vera natura della lingua bisogna prenderla per quel che ha di comune con gli altri sistemi segnici”. Si tratta di estendere il principio di arbitrarietà ai vari repertori di segni, visivi, uditivi ecc., per individuarne poi i caratteri sistemici e le caratteristiche combinatorie. EB propone di diversificare i sistemi semiotici secondo il modo operatorio, il campo di validità, la natura e il numero dei segni, i tipi di funzionamento. Insiste soprattutto sul fatto, ovvio quanto complesso, che “le relazioni tra sistemi semiotici devono essere esse stesse semiotiche” e ne offre una tipologia: rapporti di generazione, di omologia e di interpretanza (quest’ultima, applicata al rapporto tra lingua e sistema sociale, opera all’opposto di quella sociologica, che si basa su una relazione di inclusione). Una via in cui pochi, tra linguisti e semiologi, hanno voluto seguirlo.
Come l’ipotesi stratificazionale dei piani linguistici – che procede per integrazione di senso dalle differenze fonologiche fino a quelle discorsive – ha suggerito ai semiologi di procedere fino alle strategie e alle forme di vita (Fontanille, 2006), così la tipologia delle relazioni tra sistemi segnici nutre oggi le ricerche sulla traduzione interlinguistica e la transduzione intersemiotica (Mechonnic, 1995; Fabbri, 1998). Ferve, intanto, un vivace dibattito sulla specificità semiotica e sui livelli di relativa trasducibilità tra sistemi artistici quali la musica e soprattutto l’immagine – pittura, cinema, video – e un’indagine sulla valenza estetica dell’opera di EB per il discorso poetico (Coquet, 1997; Dessons, 1993).
Per una risposta pertinente ai problemi posti nella sezione “Comunicazione”, decisiva è la seconda sezione, “L’uomo nella lingua”: la teoria dell’enunciazione, la distinzione, tutta benvenistiana, tra semiotica e semantica e le controverse implicazioni filosofiche sulla soggettività e la realtà.
5. Sezione II, “L’uomo nella lingua”: precisazioni e osservazioni
5.1. Precisazioni
Questa sezione raccoglie il contributo più originale e pregnante di EB alla fondazione e allo sviluppo della linguistica discorsiva e della testualità semiotica. Nella ricezione disciplinare, il suo lascito sembra anzi limitarsi a questa unica dimensione.
Dal saggio del ’56, La natura dei pronomi, si è affermata e progressivamente svolta la nozione di istanza di enunciazione, intermedia tra langue e parole, che occupa un ruolo centrale nella ricerca semiotica di matrice europea. L’estensione delle sue applicazioni analitiche e le implicazioni teoriche per l’intera economia del paradigma semiotico sono in corso.
Rispetto al dossier completo dei due volumi, l’articolo La forma e il senso nel linguaggio, incluso nei Problemi II, appare ora nella prima sezione; al suo posto sta L’apparato formale dell’enunciazione, già incongruamente situato in “Comunicazione”, sempre all’interno dei Problemi II. Sono stati omessi invece, per principio di generalità translinguistica, Le relazioni di tempo nel verbo francese (Problemi I), L’antonimo e il pronome nel francese moderno (Problemi II), I verbi delocutivi (Problemi I)10.
Più rilevante, almeno in apparenza, è la deliberata scomparsa de La filosofia analitica e il linguaggio (Problemi I), un articolo del 1963 dedicato alla sola scuola di Oxford, a James Urmson e John Austin. Contributo ampiamente esplorato, con l’eclatante eccezione della filosofia analitica e della linguistica cognitiva anglosassone. Davanti all’indefinizione crescente del termine, che è il prezzo del successo, è opportuno qui segnalare che l’interesse di EB per i performativi non era affatto pragmatico. EB non era filosofo e studiava i problemi di contenuto collocandoli sempre in un quadro formale. Sono performative, per lui, le classi dei verbi sui-referenziali, se pronunciati alla prima persona del presente da chi ha il peso sociale utile a servirsene. “Non bisogna però prendere l’implicazione extralinguistica come l’equivalente di una realizzazione linguistica” avverte EB. Questa ha luogo soltanto se nella forma del verbo si riscontra l’auto-designazione dell’atto. L’imperativo, ad esempio, va nettamente distinto dal tratto autotelico del performativo: il primo intende generare un comportamento, “mentre l’atto performativo è l’atto stesso che nomina e che nomina chi lo “performa””.
5.2. Osservazioni
5.2.1.
È presto detto. Le introduzioni alla teoria dell’enunciazione e le loro applicazioni a sistemi di segni diversi dal linguaggio sono legione (Bertrand, 2002; Manetti, 2008). Una vera effusione enunciativa. Più che in linguistica, i concetti fondamentali – semiotica e semantica, soggettività e personalità, discorso e storia – sono al centro delle preoccupazioni semiotiche nello spazio frattale che le separa dalla filosofia.
Dagli articoli scelti emerge un percorso che, per Kuhn (1969), è proprio alla “attività straordinaria” di ridurre l’anomalia che l’enunciazione rappresenta nel paradigma linguistico. Il “volto di Medusa” al centro della lingua, delimitato dalla grammatica storica (Brugmann, 1904) e dalla sematologia (Bühler, 1934). Dalle ricerche sulla natura dei pronomi – così omogenei morfologicamente e semanticamente divergenti – si va fino all’ipotesi fondante di una istanza dell’enunciazione; dall’analisi frastica si giunge alla discorsività. Per arrivare, infine, a una biforcazione della linguistica diversa da quella saussuriana langue/parole. EB oppone infatti una semiotica, il tesoro di segni di un linguaggio, e una semantica discorsiva, che “mette in funzione la lingua con un atto individuale di utilizzazione” e in condizioni di interlocuzione. Differenza cruciale per la significazione, in quanto il segno viene riconosciuto, mentre il discorso va compreso. Così, la ricerca linguistica di EB è andata oltre il segno.
Lo studio delle istanze enuncianti presenta i tratti distintivi del mutamento di paradigma: ha modificato il modello dei problemi e delle soluzioni accettabili: ha moltiplicato gli incontri, fecondi e/o equivoci (Ivanov, 1973) e le controversie. Si è perfino parlato di obscure clarté dell’enunciazione, la cui “semantica” sarebbe priva di teoria e di metodi (Normand, 1989; 2003)!
Per orientarsi è necessario mantenere la rotta fissata da Saussure e daEB: la dimensione non extralinguistica della significazione. Occorre distinguersi, cioè, dalle ricerche dell’analyse du discours in Francia, che traspongono l’istanza enunciativa in condizioni sociologiche di produzione, e dalle ricerche logiche sugli indessicali, le quali portano sulle condizioni di verità degli enunciati e sui loro contesti di situazione (Kaplan, 1989).
Quanto alle indicazioni semiotiche di Peirce (Fumagalli, 2004), è difficile riscontrarvi quella problematica operativa della soggettività che è implicata nel campo dimostrativo di EB, come già in Bühler (Cattaruzza, 2008). Ci sembra più appropriato il confronto tra le operazione enunciative di EB – mobilitazione, appropriazione, allocuzione e referenza – e altri programmi (Culioli, 1983), come quelli di shifting, previsti da Jakobson e sviluppati da Greimas e la sua scuola (Fontanille, Zilberberg). Per Greimas l’enunciazione si articola in tre programmi di base: débrayage, embrayage, convocazione11. Il primo costruisce un enunciato obbiettivato, il secondo risale, per così dire, verso la sua istanza generativa. Ripresa asintotica, perché non può agire se non all’interno dell’enunciato già debraiato: l’enunciazione è enunciata. Il confronto con EB conduce a risultati comparabili sul piano operativo e permette di distinguere, nei discorsi storico, letterario, informativo, tra “referenzializzazione” interna al testo – gli effetti di coerenza dell’enunciazione – e “referenziazione” – gli effetti “impressivi” di soggettività e di oggettività (Bertrand, 2000).
Resta una differenza di fondo. L’istanza enunciante di EB è fin dall’inizio dialogica, mentre in Greimas gli aspetti di intersoggettività – programmazione, tattica e strategia – si presentano dopo l’operazione di débrayage. Come interazione contrattuale e conflittuale sul livello narrativo prima, poi retorico-discorsivo. In effetti il modello greimasiano emerge come una risposta alla biforcazione “catastrofica” tra semiotica e semantica; l’istanza di enunciazione dovrebbe fare da mediatrice, anello mancante tra la duplice significanza: la segnica e la discorsiva.
Mentre EB considera la frase, e in seguito il discorso, come un “evento transeunte“, la cui realizzazione è compresa nella virtualità del codice, la scuola greimasiana prova a render conto del senso durevole e “trans-evenemenziale” dei testi; articola quindi, nel percorso generativo del senso, le costruzioni enunciate attraverso il bricolage complesso della enunciazione e ne ricostruisce i modi di convocazione. Per altri, invece, è la stabilizzazione del discorso in norme di genere a servire da mediazione tra langue e parole (Rastier).
Per quanto frattale nei suoi nuovi bordi, lo spazio discorsivo aperto e intravisto da EB è pieno di promesse: come la ripresa della stilistica e della retorica da parte di una linguistica testuale12.
5.2.2.
EB, teorico dell’istanza, non si è mai servito del frequentato sintagma “soggetto dell’enunciazione”. A suo avviso formazione del senso e soggettivazione si effettuano nella simultaneità dell’atto discorsivo e si trovano implicate nell’atto di appropriazione del linguaggio.
Difficile aderire, quindi, alla critica di Rastier, per cui EB passerebbe dalla “persona”, nell’accezione grammaticale, all’individuo empirico, dalla menzione linguistica al concetto ontologico. Per Rastier, che propugna una ermeneutica materiale, non introspettiva e capace di modelli operativi, l’io non è altro che l’enunciatore “momentaneamente rappresentato nel testo in una zona identitaria”. Si introdurrebbe altrimenti una confusione tra soggetto parlante, enunciatore e locutore, passibile di prestare il fianco a malintesi analitici, pragmatici e soprattutto ontologici. Come la proposta di EB di fondare la differenza tra i generi del discorso e della storia sulla sola istanza pronominale.
Ma i quesiti filosofici si evitano a fatica, quando la soggettività e la temporalità entrano a far parte del minimo epistemologico di una teoria. È il caso del “coefficiente filosofico supplementare” richiesto a EB da Ricoeur, il quale ha tentato di reinterpretare l’opposizione benvenistiana in termini di immanenza semiotica e di trascendenza semantica (Ono, 2008). Al pari della parola, mediatrice tra la lingua e il discorso, il soggetto locutore sarebbe uno shifter tra il mondo e il linguaggio. Ma l’atto di comunicazione non sarebbe solo invenzione effimera, improvvisazione contingente. Se per EB “la frase è un evento che svanisce” e la parola è un atto a perdere, quell’esegeta biblico che è Ricoeur vuol rendere conto, invece, della distanziazione e della stabilizzazione del senso nei testi. Non è un caso, dunque, se finirà per adottare la prospettiva greimasiana di una linguistica narrativa e testualista.
La posta filosofica può essere giocata altrimenti. La semiotica dell’enunciazione, introducendo il soggetto, si trova infatti a un bivio (Fabbri, 2008). Potrà orientarsi verso una tipologia delle istanze enunciate, ricostruendo, a partire dalle strategie di shifting, i simulacri degli attanti comunicativi – l’enunciatore e l’enunciatario – e i simulacri di realtà. In questo caso non è in conto l’intenzionalità produttiva extralinguistica, ma l’intento generativo testuale – non il reale, ma il suo effetto di senso.
A questa via, tacciata di essere oggettale e immanentista, Coquet, diretto allievo di EB, offre un’alternativa “soggettale”: una fenomenologia delle istanze che coinvolge linguisti, filosofi e semiologi (Merleau-Ponty, Fontanille). È un programma destinato: 1) a costruire o estendere il paradigma di una linguistica fenomenologica che va da Merleau-Ponty a EB; 2) a completare con i propri modelli il “deficit teorico” di EB sulla soggettività; 3) a distinguere nettamente una fenomenologia linguistica dalla filosofia del linguaggio, mentalista e referenzialista, sulla base di una ontologia esperienziale dell’enunciazione. A partire dalla definizione di EB – “l’istanza enunciante condivide un’esperienza che ogni volta si instaura di nuovo e svela lo strumento linguistico che la fonda” – Coquet rivendica, contro le filosofie del linguaggio come logos disincarnato, il ruolo della physis, lo spazio attuale di esperienza che traduce in linguaggio il corpo, il sentire e la passione. Nulla di più reale dell’atto linguistico e segnico di enunciazione, che è “escrizione” del corpo. Per Coquet, infatti, non è la lingua a proferire lo stato esterno delle cose, ma è questo stato a tradursi nel linguaggio. Lo fa attraverso le modalità proiettive delle diverse istanze enuncianti, le quali mantengono, con vari gradi di plasticità, il rapporto con l’esperienza somatica e percettiva.
Ricerche e dissidi sono in atto.
6. Sezione III, “Lessico e cultura”: precisazioni e osservazioni
6.1.1. Precisazioni
Abbiamo seguito, quasi alla lettera, le indicazioni di EB circa il significato di alcuni termini delle lingue indoeuropee ancora pregnanti nella cultura moderna. Nell’introduzione al Vocabolario lo studioso insisteva sulla rilevanza semantica della coppia designazione/significazione. Lo scopo era “far apparire una significazione dove prima c’erano solo designazioni”. L’analisi pertinente del senso, il “reperimento di tratti distintivi in opposizione alle varianti”, non permette il ricorso ad alcun dato extralinguistico. Per EB una struttura semantica è sempre definita da relazioni: quando si esaminano istituzioni sociali quali l’economia, la parentela, gli status e i ruoli, la politica, il diritto, la religione; o quando a essere analizzati sono gli atti linguistici e segnici (libagioni, giuramenti, voti, preghiere, suppliche ecc.). Nella ricostruzione del lessico non siprocede inserendo i termini – e non le parole! – in contesti preesistenti, ma costruendo dei contesti. Attraverso le specificità delle forme e del senso, le operazioni di correlazione e opposizione seguite dal confronto con morfologie imparentate, si procede infatti alla “invenzione” – reperimento e restituzione – di un co-testo, cioè di un contesto linguistico di senso.
Su questa base, e tenuto conto del riferimento alla ricerca in italiano, i termini del lessico culturale di EB sono stati ordinati per rilevanza di senso, e non per data di pubblicazione.
Alcune voci di questo lemmario, come Due modelli linguistici della città, sono acquisite nella ricerca delle scienze umane. Spostano l’accento di senso dal vocabolario – con le indebite conclusioni che se ne traggono sulla totalità della lingua – alla derivazione, cioè alla relazione formale e concettuale tra un termine di base e un derivato. Un rapporto direzionale da interpretrare secondo subordinazione o dipendenza, come nel caso dei modelli latino e greco della città. Il primo dà la priorità al civis – alla reciprocità affettiva del concittadino (civis meus) – e deriva la civitas come mutualità e collettività additiva. Il secondo, nella Grecia classica, antepone la polis, “corpo astratto”, necessario e sufficiente a derivare il polites. Contro ogni forzatura ontologica, il rapporto di derivazione stabilisce una correlazione categoriale tra i quattro termini del vocabolario politico; solo allora “evocherà nel campo delle realtà sociali (ed è tutto quel che se ne può dire a priori) una situazione parallela”.
La nozione di “ritmo” ha invece suscitato vivaci polemiche sulla sua esattezza filologica e semantica (Delimier, 1997; Mechonnic, 1995) e resta aperta a nuove interpretazioni. Michel Serres (2000), ad esempio, suggerisce che il ritmo sia leggibile come l’effetto di controtempi tra processi alternanti, piuttosto che come scansione sul divenire.
6.1.2.
Diamo uno sguardo agli articoli omessi. In Problemi I, 1) I problemi semantici della restituzione è un saggio metodologicamente datato rispetto alla ricerca semiotica e semantica successiva di EB; 2) in “Civilization”: contributo alla storia di una parola il materiale linguistico è condotto sul lessico francese e inglese. Per la stessa ragione, da Problemi II si è omesso 3) Come si è formata una differenziazione lessicale in francese, dove l’importante punto teorico – “due segni lessicali di forma molto vicina possono non avere rapporti associativi perché i loro significati restano distinti” – è svolto attraverso un esempio linguisticamente idiosincratico: il verbo amenuiser “rendere più minuto” e il sostantivo menuisier “operaio che lavora il legno”.
Rispetto ai due volumi dei Problemi, in “Lessico e Cultura” è stato solo aggiunto l’articolo Il vocabolario latino dei segni e dei presagi, che ha un’ovvia salienza semiotica. Qui EB mette a fuoco la ricchezza del vocabolario segnico della mantica latina – omen, monstrum, ostentum, portentum, prodigium – di fronte alla lingua greca – teràs – nella definizione di diversi regimi temporali.
6.2. Osservazioni
Le sottili analisi sul Lessico di cui EB ha rinnovato metodi e risultati vanno comprese o meglio “integrate” nella “semiologia come scienza generale di tutto quanto nella cultura fa senso”. Si tratta di una questione che, a detta di EB, lo avrebbe accompagnato per tutta l’esistenza. Per questo ebreo di Aleppo naturalizzato francese, le scienze umane, la linguistica per prima, avrebbero dovuto svilupparsi nel senso di una antropologia, in quanto scienza generale dell’uomo. Come per Jakobson, Lévi-Strauss e Greimas, scienze dell’uomo e della società sono commutabili per propagazione della tesi saussuriana sul segno. Al prezzo di una grande capacità di astrazione e generalizzazione, la significazione troverebbe il suo modello in una linguistica e in una semiotica non necessariamente strutturaliste. “La vera scienza della cultura” sarebbe quindi una metasemantica (Lotman, Rastier e Bouquet).
7. Il passaparola
La linguistica procede infatti per induzione e divinazione
(Saussure)
Gli scritti di EB sono una risorsa attuale per una semiotica “marcata” (Fabbri, 2007), nell’accezione linguistica del termine, cioè in grado di mantenere tensione ed energia tra l’esperienza e le aspettative disciplinari. È la ripresa del programma saussuriano di una “scienza linguistica che doveva trattare, in sincronia, la faccia semantica del linguaggio, con lo stesso rigore con cui la grammatica comparata era riuscita a trattare,in diacronia, la sua faccia fonologica”. Dalla morfologia alla sintassi, via la retorica e la stilistica, questa scienza avrebbe dovuto unificarsi in una semiologia, cioè in “una grammatica generale di tipo nuovo”.
Il ritorno a EB, dopo quello a Saussure, è un passo indietro per un salto in avanti?
È vero che oggi lo studio della significazione – per EB il più profondo tratto della condizione umana, poiché “non ci sono relazioni naturali, immediate e dirette tra l’uomo e il mondo e tra l’uomo e l’uomo” – sembra una scelta ipertrofica (Normand, 1989); una bolla speculativa che ispira le ricerche empiriche, ma che chiede, per un rialzo delle quotazioni semiotiche, molta precauzione. In temperie post-moderna è arduo decidere i prefissi: anticipare se la rilettura di EB potrà servire da pre-visione (il pre– a breve distanza) o da pro-getto (il pro-a lungo corso) per una semiotica di seconda generazione. Meglio diffidare delle ambizioni semiotiche generali e proseguire le singole analisi grammaticali (Hagège, 1983, Fontaine, 2006)?
Può servire qui la distinzione di Deleuze e Guattari13 tra scienze “riproduttive” e scienze “itineranti”. Le prime disegnano uno spazio “striato”, inquadrato e osservato da un unico punto di vista; le seconde, discipline del divenire, non si limitano all’applicazione e alla verifica, ed esplorano spazi lisci e multi-prospettici, alla ricerca di singolarità e turbolenze (Stengers, 2005). Tanto nell’invenzione di concetti generali quanto nelle applicazioni particolari.
Ci sembra allora che Essere di parola, versione compatta della ricerca di EB, non sia un documento da filologi né un testo da ermeneuti, ma un discorso “itinerante” di cui è ancora attiva l’enunciazione e l’interlocuzione. Un omen che è “segno veritiero” o un semplice presagio? Come la linguistica per Saussure, anche la semiotica procede per induzione e divinazione.
Note
- Barthes non ha mai abbandonato il riferimento a EB. Dalle figure etimologiche alla intrasitività della scrittura; dalle diatesi grammaticali alla deissi storica; dai livelli gerarchizzati della linguistica del discorso alle modalità temporali dell’haiku e della fotografia (Marrone).
- Con qualche eccezione: Umberto Eco. EB non figura neppure nelle accurate bibliografie de I limiti dell’interpretazione (1990), Kant e l’ornitorinco (1997), Dire quasi la stessa cosa (2003) e Dall’albero al labirinto (2007).
- È il senso del lavoro di Giorgio Agamben, che si serve delle etimologie del Vocabolario per un proprio progetto filosofico di antropogenesi. Lo svolgimento semiotico del pensiero di Benveniste e il fondamento saussuriano del metodo gli è deliberatamente estraneo. Tenuto conto delle distinzioni di EB tra enunciato ed enunciazione e tra semiotica e semantica, non suona davvero sorprendente l’affermazione che “il giuramento non concerne l’enunciato come tale…” e che “in questione in esso non è la funzione cognitiva e semiotica del linguaggio come tale…” (Agamben, 2008, p. 7).
Benveniste è l’onorato ostaggio di una riflessione poetica e filosofica – o meglio la pedina di un gioco di linguaggio – in cui la dimostrazione linguistica è priva di valore. Un esempio probante è il trattamento heideggeriano delle etimologie. “Heidegger ha detto e poi scritto che la parola polis viene da polein, una forma antica del verbo essere. Etimologia del tutto gratuita: polis non ha nessun “vero senso” plausibile o verificabile. Ma queste informazioni elementari non riescono a ritardare lo slancio del pensiero: la città, la polis fondata sul verbo essere, proprio questo verbo, anzi, designa chiaramente il luogo dello svelamento totale dell’essere” (Cfr. Detienne, 1994, p. 20-21, trad. nostra).
Per Agamben, d’altronde, anche il pensiero semiotico di Lévi-Strauss – un’eccedenza del significante sul significato, che EB vede invece come rapporto di necessità – non sarebbe che una variante su Max Müller, le cui etimologie hanno nutrito la speculazione heideggeriana. Questa filosofia predilige i vulcani spenti. Vedi, per contro, l’ermeneutica di Paul Ricoeur in rapporto costante con la semiotica di EB e di Greimas (più avanti, 4.2.2.). - Per una ricostruzione accurata e a volte fantasiosa della biografia di EB, cfr. in particolare Bader, 1999. Anche Milner (2002) legge i testi teorici di EB per tratteggiare una storia intellettuale: da un primo approccio marxista a un recupero e a una valorizzazione della propria identità ebraica. La distribuzione dei contenuti del Vocabolario potrebbe incoraggiare la prima ipotesi: si comincia con l’economia e la società per terminare con le “sovrastrutture”: politica, diritto e religione. Qui l’osservazione di Malamoud (1971) è però decisiva: per EB si trattava soltanto di piani e strutture di significato.
- Lévi-Strauss, nella commemorazione di EB, riconosce l’ìmportanza antropologica del Vocabolario e del lavoro etnografico condotto sulle lingue africane e dell’Alaska nel 1952; in particolare sul comune terreno delle tribù della Colombia Britannica: Haida e Tlingit. EB era inoltre membro della commissione della tesi di stato sulle strutture elementari della parentela. Cfr. Lévi-Strauss, 1976.
- Ringraziamo Jean-Claude Coquet per i suoi preziosi consigli.
- Piuttosto severo, Malamoud rileva, nell’edizione originale del Vocabulaire, numerosi errori di stampa, in particolare per quanto riguarda i termini sanscriti, la trascrizione dei termini slavi e quelle latine dei termini greci. Lo specialista sottolinea, inoltre, inesattezze semantiche che riguardano termini latini come fors o greci come polis e soprattutto il “più trascurato dei settori indoeuropei, quello indiano”. Cfr. Malamoud, 1971.
- Nell’ambito di un programma di ricerche sulla genesi delle teorie linguistiche, Irène Fenoglio (EHESS), in collaborazione con Coquet, procede allo studio genetico dell’articolo Semiologia della lingua. Émilie Brunet è invece incaricata, dal dipartimento dei manoscritti della Bibliothèque de France, di redigere un inventario del fondo EB, per renderne accessibili archivi e manoscritti nel catalogo on line della stessa Biblioteca. Già nel 2001 il Collège de France ha depositato all’IMEC (Institut Mémoires de l’Edition Contemporaine) tre corsi di EB: Problèmes de syntaxe générale (1949-1950), Syntaxe des cas, La flexion dans les langues indo-européennes (1954-1955) e Les pronoms (1955-1956). Si tratta di note del suo allievo Georges Redard. Non è quindi soltanto per acribia filologica che presso l’ITEM (Institut de Textes et Manuscrits Modernes), un’Équipe de Génétique et Théories Linguistiques ha intrapreso lo studio degli archivi e dei manoscritti di EB, sulla scorta delle fruttuose ricerche del corpus di F. de Saussure.
- “La nozione di “funzione” del linguaggio ancora utilizzabile è frutto di un approccio semiotico all’argomento, basato sul concetto di segno. L’antropologia del linguaggio, perciò, studia le strutture segniche chiamate testi (e le loro parti) per come emergono progressivamente nel tempo. E in rapporto ai “contesti” di occorrenza, comprese le più ampie strutture “cotestuali” di cui questi testi costituiscono un aspetto. Le funzioni di contestualizzazione vengono studiate come realizzazioni in varie forme della proprietà generale detta indessicalità – vale a dire del modo in cui una cosa segnala la compresenza spaziale, temporale o causale di un’altra. Il ruolo della funzione sociale del linguaggio nella vita sociale è interamente basato sul fatto che i testi linguistici – e di conseguenza quelli culturali – proiettano (indicano) i i contesti che metaforicamente li “circondano” e all’interno dei quali si realizzano in maniera più o meno appropriata, oltre a proiettare (indicare) i contesti che, con la loro occorrenza, essi hanno posto effettivamente in essere”. Cfr. Silverstein, 2001.
Si noti la convergenza con la nozione della lingua come “interpretante” sociale in EB. - Gli antonimi sono segni autotoreferenziali e metalinguistici, mentre i verbi delocutivi sono derivati di “locuzioni” – come” salutare” da “salute” ecc. – il cui semantismo sta nell’enunciare la locuzione sulla quale vengono formati.
- Cfr. la voce “débrayage” ecc. in Greimas e Courtés, 2007.
- Per l’ipotesi di una retorica delle figure oniriche in EB, cfr. Osservazioni sulla funzione del linguaggio nella scoperta freudiana, sezione “Comunicazione”.
- Cfr. Stengers, 2005.
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