Tradurre la Biennale di Venezia


Da: AA.VV., Loading… Una nave pirata per immaginare la Biennale di Venezia del terzo millennio, 1895-2007, a cura di Camilla Seibezzi, Motta Architettura, Milano, 2008.


Quando si parla di attualità pregnante, il presente è abitato da due spettri: gli spettri del passato e gli spettri del futuro. Oggi si sono aggirati quelli del passato e sono balenati quelli del futuro. Vediamo però come le cose stanno nel presente.
Anche il collega Masiero ha detto che l’università di Venezia non è proprio indifferente all’esistenza della Biennale. Come lui faccio parte del Dipartimento di Arti e di Design dello IUAV e nell’ultima Biennale per esempio, abbiamo tentato di fare qualcosa. Qualcosa che non basta.
Poiché si tratta segnalare di apporti personali, io ho partecipato alle attività di conferenze e di diffusione della Biennale del Cinema e anche di quella della Biennale Musica. Ma in questa sede mi interessa raccontare di un’iniziativa, che ha a che vedere con uno dei punti appena toccati con garbo da Valeria Cantoni. E far seguire una proposta.
Dunque: all’università, e non solo, ci siamo resi conto che la Biennale d’Arte, si è aperta con fragore. Per una settimana, Venezia pensava di essere Manhattan e magari lo era. Poi c’è stata la fisiologica dispersione di presenze artistiche e intellettuali. Infatti un buon curatore una volta aperta la Biennale, ha già concluso il proprio lavoro e si dirige altrove, verso le grandi mostre che apriranno non piu’ tardi di alcune settimane dopo. La Biennale Arte invece vive per cinque mesi e mezzo e già dopo la prima settimana viene a mancare un sostegno di attività critica, analitica delle opere presentate.
Non sarebbe grave se ci fosse un consenso nell’arte contemporanea, un codice comune che non c’è più da circa un secolo riguardo alla qualità e il valore. Ma così non è. La maggior parte delle opere contemporanee esposte reclamano una intelligibilità di cui c’è una cogente richiesta per tutta la durata della Mostra.
Quando dico intelligibilità intendo approfondimento del senso, la parola significati dovrebbe ricorrere insieme alla parola valori.
Allora, con alcune istituzioni dello IUAV – il Dipartimento di Arti Visive, il Laboratorio Internazionale di Semiotica a Venezia, LISAV e il dottorato di teoria e storia dell’arte – e de l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences sociales (Parigi), abbiamo promosso, presso la sede dell’ASAC all’Arsenale, un seminario durante il quale abbiamo interrogato e approfondito alcune delle opere che ci erano parse più significative. Poi abbiamo richiesto ad una casa editrice dignitosa, la Bruno Mondadori, di pubblicare una rivista sulla Biennale e, siccome non risultava che ne esistesse una, abbiamo proposto un titolo programmatico Archivio del senso, destinato ad archiviare non soltanto gli oggetti ma i significati, Abbiamo tentato di fare il primo numero di questa rivista che sarà una rivista della Biennale, cioè parzialmente finanziata dalla Biennale e dal Dipartimento di Arti della nostra Facoltà di Design e Arti che esiste da pochi anni e di cui la Biennale ha l’aria di accorgersi poco. Oggi l’amico Müller ha detto infatti che da quattro anni non ha contatti con lo IUAV, di cui siamo parte. Può darsi che sia così, ma ritengo che delle cose ci sono, altre vanno riconosciute, e altre portate avanti in una certa direzione. Tra le cose che ha riassunto Valeria Cantoni, ce n’erano due in particolare che vorrei tentare di collegare.
Una premessa: il problema della cosiddetta interdisciplinarietà è da rivedere. La mia generazione ha sempre ritenuto che l’interdisciplinarietà si praticava quando un’istituzione avesse abbastanza soldi per mettere intorno allo stesso tavolo un sociologo, un antropologo, un semiologo, uno psicanalista, ecc. Queste persone stanno lì riunite perché ci sono dei soldi ma mancano di un comune linguaggio da utilizzare. (La necessità della creazione di un linguaggio comune è una delle cose utopiche che aggiungerei alla discussione.) Ricordo una frase memorabile del sociologo tedesco Beck: “Una volta lottavamo sui mezzi di produzione, oggi lottiamo sui mezzi di definizione”. Cioè, definire oggi le questioni appartiene all’ordine della produzione non della sovrastruttura.
Allora, vorrei citare una parola che può servire ad una proposta.
La parola è traduzione. Non sovrapposizione interdisciplinare quindi, ma attività traduttiva. Quando dico ‘tradurre’, voglio indicare un’attività pratica di passaggio tra le arti. Trasporre concetti, immagini, visioni, movimenti: è quello che gli artisti lo fanno ma si può anche aiutarli a sapere quello che fanno quando lo fanno. Credo che sia un’attività irrinunciabile. Altrimenti il discorso sull’interdisciplinarietà è rumore.
Bene, a chi dopo la prima settimana di Manhattan resta a Venezia negli altri cinque mesi e mezzo e visita quelle cose complesse che sono opere e installazioni di natura e di carattere straordinariamente diverse, credo che non venga offerta alcuna autentica intelligibilità delle pratiche traduttive in gioco, salvo un’attività di accompagnamento comunicativo, di formazione, che la Biennale fa peraltro assai bene.
Per vedere meglio è necessario però alzare la mira. In che direzione guardare?
Premetto che a mio avviso alla cultura contemporanea manca non il Buon Samaritano, ma il Buon Ciarlatano. È necessaria una figura, che può essere molteplice, di Intercessore. Uso la parola intercessore, nel senso tecnico e teorico, utilizzata da Deleuze, il grande filosofo del secolo scorso.
L’Intercessore potrebbe essere qualcuno – ripeto un’istituzione, un gruppo, una persona – in grado di far sì che i direttori responsabili dei vari settori delle Biennali siano in grado di compiere una reale i traduzione tra le loro attività. (Rimettere tutto questo agli artisti stessi mi sembra improbabile). I responsabili delle Biennali sono stati suddivisi sulla base di specifici mediatici divisi per sostanze: il cinema, l’arte, la musica, la danza ecc. ma è di pubblico dominio che nelle arti accade ormai esattamente il contrario. La regola è la multidisciplinarità, l’ibridazione dei codici, la miscela dei linguaggi.
Allora bisogna formare la figura dell’Intercessore, una figura aperta. I candidati possono essere molti. L’università ha certamente un suo ruolo da giocare e mi domando perché non lo faccia fino in fondo. Questa figura molteplice può essere l’ASAC ridefinita, può essere un gruppo di cura e di esegesi – collocato presso la Regione, la Provincia, il Comune. Sarà un buon Intercessore anche qualcuno che può sollecitare la ricerca critica la quale ripeto, non si può fermare alla famosa settimana iniziale con un catalogo preparato prima della collocazione delle opere, quando un’esposizione dura per cinque mesi e mezzo con mostre che diminuiscono gradualmente nell’efficienza e nella stessa presenza.
Un esempio per tutti e per concludere. Quest’estate, ad esempio, ho chiesto quale era il momento migliore per fare il seminario su alcune opere salienti che abbiamo organizzato col LISAV e l’ASAC. Mi è stato detto: “Quando c’è meno gente”. Pensavo piuttosto il contrario!. Poi ho chiesto: “E quando ci sono meno visitatori della biennale Arte?” La risposta: “Durante la biennale Cinema”! Insomma nel periodo del Festival di Cinema diminuisce radicalmente la presenza, statistiche alla mano, di visitatori di Arti Visive. Poiché ho fatto una conferenza alla Biennale Cinema, ho provato a fare un sondaggio e ho chiesto, al grande regista Alexander Kluge cui era dedicata una retrospettiva: “Hai visto la straordinaria installazione video di Bill Viola?” Risposta: “No”. Allora abbiamo organizzato una conferenza alla Biennale per un approfondimento traduttivo tra cinema e video nell’opera di Viola.
Insomma non sarebbe una cattiva idea se uscissimo da questa nostra conversazione con un gruppo di intercessione. Grazie.

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