Da: Alfabeta, n. 107, aprile 1988.
In francese c’è la parola intempestif; l’equivalente di «tempestivo» manca. Giusto dunque che la parola intemperie ci sia e manchi «temperie». Le cose però ci sono, anche se fanno difetto le parole e a Parigi una certa temperie c’è e dura.Il discorso critico, nelle agitate relazioni tra linguaggio e metalinguaggio, ha esiti felici ma anche momenti di vertigine e di guazzabuglio che passiamo a riprovare. Chi ricorda la polemica di R. Barthes e J. Picard (Nouvelle Critique, nouvelle imposture, Critique et verité), che illustrò gli illacrimati anni sessanta, non ignora che quella fu l’Età dell’Oro del metalinguaggio critico francese. Gli spettava di esaurire il senso dei testi, era garante di verità e abrasore di ideologia.
Barthes (che era post-brechtiano) pensava che la frizione (parole sue) del discorso costruito (il metalinguaggio) sui testi presi in esame (il linguaggio-oggetto), avesse virtù politiche: smascherate le connotazioni con cui la borghesia naturalizzava Il suo potere, si instaurava una scrittura «bianca», si screpolavano gli stereotipi, mozziconi di ideologia che, se distrutti, si riformano nella bocca e penna dell’eversore.
Oggi rien ne va plus. Da una parte gli scrittori sono sempre più rilessivi; non pensano soltanto ma si pensano mentre pensano: i testi naturali hanno il metalinguaggio incarnato, o incarnito. D’altra parte è vero che, per i teorici e i critici, il problema è quello di fondare il metalinguaggio su un altro metalinguaggio che lo garantisca. Molti si sono arrampicati su questa scala di Giacobbe verso campi elisi liofilizzati. Cavalieri inesistenti (studiosi di estetica, cognitivisti con nostalgie ontologiche, ecc.) o baroni rampanti (quando si fermano sui rami più bassi dell’astrazione). Ne conosciamo che stanno, apatici come déi stoici, tra cielo e cielo; giocano su scacchiere ideali dove è vietata la mossa obliqua del cavallo. Volgiamoci ora ai Gurdulù: quelli che ricusano ogni differenza tra linguaggio e metalinguaggio. Sono gli scrittori di teorie-finzioni o di finzioni teoriche: praticoni di Babele. I testi che commentano sono indistinguibili dalla parola commentatrice, le astrazioni si fanno parabole e ogni modello allegoria. Ci sono alte eccezioni, M. Serres, J. Derrida ecc. ma il risultato più corrente è questo: si cercano creolizzazioni ma si parla piuttosto pidgin. Complice un Wittgenstein vulgato, i giochi di linguaggio collassano in un unico affollato livello. Il critico che prima sfiorava o sollecitava i testi, adesso vi si installa come un agente doppio. E non basta: a volte il critico ventriloquo o il delatore testuale decide di buttare la maschera alle ortiche e si fa narratore. Ci sembra allora che porti nella scrittura tutta una lingua franca di tic e di «testi fatti», molti dati (spesso osservazioni sul proprio, privato ombelico) e pochi doni (avvolti come ognun sa di pazienza e talento). Eppure sembra che a Parigi ogni critico e addirittura filosofo (il termine ha un ambito più vasto che in Italia) abbia, sotto il gomito, un romanzo-teona, mentre sta scrivendo una teoria-finzione. Non c’è alcun male quando ne vengono – sul modello Canetti – le Cool Memories di Baudrillard. Peccato che gli esiti siano spesso scolastici e che i testi criticati vengano coperti con glosse e glosse di glosse. Non tutti sanno salpare verso l’Oriente del testo e i tic della parola critica sono più convulsivi di quella letteraria. A volte nel fiotto narrativo, frequentemente autobiografico, si incontrano le «buone idee» quando l’occhio non riesce più ad ascoltare e l’orecchio a vedere. Che sia così quando una disciplina perde la capacità di «dare il caso» e di «fare conoscenza»?
Dichiariamo una preferenza: tra fuggi-fuggi epistemologico e pigia-pigia discorsivi, tra Eden e Babele, sono per il mantenimento, trinciante e forse crudele, tra testi primari e discorsi secondari (commentari). In via filosofica e semiotica. Non mi va che una notte in cui tutti i testi sono neri inghiotta la memoria scritta di una cultura. Non foss’altro per la ragione corporativa che il corpus immaginario della memoria testuale permette alla critica di sussistere, se non di giustificarsi. Protestare contro i rischi di amnesia però non è ripiegare sulla contemplazione del senso già iscritto; operazione filistea, non post-moderna. Il testo, come il linguaggio di cui è fatto, è etimologia; come questa non ha un senso fisso e remoto ma prospettivo. L’etimo (la verità) è il senso futuro che riusciremo a dargli. E neppure si tratta di rinunciare ai passaggi discorsivi: il filosofo (dice Deleuze) è proprio un intercessore regolato tra discorsi irriducibili (si pensi a Bataille, a Foucault). Preferiamo il complesso al confuso. I labirinti non sono metafore dello scompiglio ma formule per uscirne: i percorsi più complessi compiuti con le regole più semplici. E la critica italiana? Ricorda meglio di quella francese i suoi testi e metatesti?