Pietro Ruffo: pensieri dell’acronia


Pietro Ruffo. Soyez réaliste. Demandez l’impossible, Catalogo della mostra presso la Galleria Franca Mancini, Danilo Montanari Editore, Ravenna, 2014.


Benvenuti. Quanto sto per dire è già stato formulato da Mariotti. Godrò quindi del vantaggio della brevità e di poter articolare alcune asserzioni. Ho visto come voi l’installazione, ampia e profonda, di Pietro Ruffo e ne arrischio una lettura personale, per chiarire insieme a voi i problemi di senso e di valore che ci pone l’arte contemporanea e il significato necessariamente singolare delle risposte.

1. Campane legittimiste e cannoni rivoltosi

Dirò prima di tutto che si tratta di un’opera d’interesse storico. Meglio: è il confronto “anacronico”, inventivo e figurativo, tra i tempi del Sessantotto parigino e quelli della composizione del Viaggio a Reims. Una storia al passato prossimo che ci aiuta a rileggere la nota esecuzione pesarese dell’opera nel 1984, e ci confronta al tempo più remoto, ma non trapassato, che è quello di G. Rossini: dei mondi della vita suoi contemporanei, delle loro forme e forze. La storia “a tale full of sound and fury” (Shakespeare) ci parla come da paese straniero, in un idioma che dobbiamo tradurre e che le nostre trasposizioni alterano a ritroso. Provo a darne qualche esempio: abbiamo appena sentito il rintocco di alcune campane. Carlo X, il re a cui è dedicata l’opera e per la cui incoronazione partì il viaggio a Reims, è il sovrano “introvabile” del legittimismo, del restauro borbonico contro la Rivoluzione francese e contro ogni sommovimento, ogni tumulto futuro. Verrà poi il momento orleanista con Luigi Filippo, a cui succederà un vero quarantotto: il Quarantotto appunto e il terzo Napoleone, esattamente descritto da Marx. In questo senso – significato e direzione – Pietro Ruffo ci parla, per testi e immagini, della rivolta del ’68 alla figura “legittima” del regime gollista.
Riascoltiamo le campane: con la loro musica ci daranno il ritmo che è la riconosciuta cifra rossiniana. È opportuno ricordarlo: Rossini crea nel tempo dei processi per le campane. Come ricorda lo storico Alain Corbin, nel suo studio sui paesaggi sonori, il Comitato di salute pubblica della Rivoluzione ha staccato le campane da tutte le chiese e le ha fuse per farne cannoni. Insieme ai tamburi, le bocche bronzee da fuoco della Repubblica prima, di Bonaparte poi erano il nuovo stampo delle campane ecclesiastiche. Hanno scandito la pace, poi ritmato la guerra. Quando tacciono le trombe di Napoleone e tornano i Borboni, è il periodo della ri-cristianizzazione delle campagne: i parroci realisti rivogliono l’impossibile, le campane, quelle che non ebbero l’accortezza di seppellire. Le loro richieste colmano ancora gli archivi di stato, ma i cannoni non sono stati rifusi: un orientamento, politico, rifletteteci bene, irreversibile. Il rintocco delle campane e il rombo dei cannoni: questo contrasto sonoro è il il cupo pedale, il sottofondo politico della musica di Rossini, che in questi due mondi era immerso, pur sapendo prendere le sue distanze e l’agio. Il caso, che fa così bene le cose, volle che una versione del Viaggio a Reims fosse approssimativamente eseguita proprio nel frastuono parigino del Quarantotto.

2. Cortei del passato: prossimo e remoto

La lettura sessantottesca del Viaggio a Reims, che propone ed elegantemente svolge Pietro Ruffo, ha un tono stendhaliano – sapete quanto “Henry Beyle milanese” amasse e scrivesse su Rossini! – e vorrei dimostrarlo.
Intanto prendo tempo: sotto il velame encomiastico del restauro del vecchio mondo – di cui l’incoronazione a Reims fu l’apogeo e la fine- scorre la vena rossiniana dell’ironia. Tendete l’orecchio alle tracce: nelle diverse cantate conclusive dell’opera sono personificate – per-sona significa “suona attraverso” – tutte le nazioni, compresa l’Inghilterra del God Save the Queen! Erano gli accordi legittimisti della Santa Alleanza europea, l’unisono realizzato da Metternich per reprimere ogni moto insurrezionale: Napoli, il Trocadero di Spagna ecc. Un progetto europeo votato alla sconfitta, dai “tre giorni gloriosi” del 1830 via via fino al 1968, ma il concento delle sante alleanze non si affievolisce mai e l’installazione di Pietro Ruffo è qui per ricordarcelo. Per investire il bene sempre più prezioso dell’attenzione, ripeto che non era ovvio nè senza conseguenze essere ironici sulla Santa Alleanza. Questo dà al tono “buffo” di Rossini la sua energia critica. Dixit Mariotti!
Il passato remoto ci permette un excursus verso quello prossimo. Abbiamo rivisto la nota soluzione scenica di Ronconi: la sfilata in città, il corteo dell’incoronazione fuori dal Teatro di Opera. Mariotti mi correggerà, a me pare che tra Abbado direttore e Ronconi regista ci fosse disaccordo: Abbado voleva stare nel teatro mentre Ronconi – per i tratti d’avanguardia della sua formazione – era sensibile, a che tutta la città di Pesaro vedesse quello che finanzia. La sovrapposizione “anacronica” di Ruffo ci riconduce all’emergenza di questo corteo. I personaggi principali del fragile plot del Viaggio sono un gentiluomo inglese, Oswald Nelvil appassionato dell’Italia del Grand Tour e un’artista italiana, Corinna. L’autore del libretto, Luigi Balocchi si è liberamente ispirato alla Corinne ou l’Italie di Madame de Staël che racconta la storia di questo lord inglese che si reca a Roma e incontra – udite, udite! – un lungo corteo, una sfilata che accompagna la poetessa Corinna all’incoronazione sul Campidoglio. Che il corteo cittadino di Pesaro esca di tutto punto dal libro della de Staël, certamente compreso delle colte letture di Ronconi? (Posso aver torto; me lo dimostrino, ma fino a quel momento ho, per quel che vale, ragione!)

3. Stendhal e Ruffo, tra due mondi

Ecco, infine, il tratto stendhaliano che vorrei toccare, almeno in un punto per trarne una pertinenza concettuale. Negli anni dei successi rossiniani, Stendhal scrive a più riprese la partitura e le parti d’un romanzo che rimarrà incompiuto; centinaia di pagine da cui, così come faceva Rossini, ha prelevato il materiale di altre opere concluse. Lucien Leuwen è un vasto romanzo postumo, in cui il protagonista – un giovane serio, “sansimoniano” ed attraente, disposto ad innamorarsi con regole stendhaliane – si reca in provincia, a Nancy, e scopre che ai tempi di Luigi Filippo, il mondo è diviso tra Legittimisti, votati al successore del Carlo X di Reims e i Repubblicani che sperano in una Costituzione sul modello degli Stati Uniti. Il nostro eroe per certi caratteri assomiglia a Rossini: non è tra i legittimisti che ancora temono la ghigliottina, e neppure contro di loro. Sono retrivi e mancano spesso di spirito, ma hanno buone maniere, tra loro si trovano donne nobili, eleganti, ricche, che amano e sovvenzionano la musica. Meglio degli aggressivi banchieri dei tempi della Monarchia di Luglio. D’altra parte i Democratici americani sono definitivamente sprovvisti di tact, parola che comprende il tocco musicale e le belle maniere (non scordiamoci che regola segreta della musica è d’insegnare le buone maniere, d’ascolto, di piacere, di relazione e così via; un labile incanto di cui ogni giorno ascoltiamo il fading, lo svanire). Insomma Lucien Leuwen è un decisamente rossinista, poiché Rossini è una figura ambivalente per virtù d’ironia: contemporaneamente legittimista nel ’30 e pronto a trovare nel 48 – quando il tricolore prevalse sulla bandiera rossa – nuove commesse da trattare con altrettanto, inesausto ésprit de finesse.
È l’ultimo punto che mi riguarda di più. Credo che nella sovrapposizione tra il piano dei disegni e il montaggio dei frammenti ci sia in Pietro Ruffo un’autentica adesione alla singolarità dell’opera rossiniana e all’evento irripetibile del ’68. E che nello stesso tempo vi si riscontri una distanza ironica tra i due eventi, l’encomio legittimista e la sollevazione rivoluzionaria. Qui l’autore protesterà forse la personale adesione ai valori del ’68 ed io lo prenderò in parola. Ma credo che, se lui pur ci crede, è la sua articolata installazione non crederci fino in fondo. Voglio additare alcuni tratti che mi sembrano pregnanti. L’artista ha una studiata strategia per fare il punto con molti punti di spillo. Un accurato bricolage artistico: disegna esemplarmente e tradizionalmente, una numerosa galleria di ritratti, con uno stile che pratica l’accuratezza mimetica e la caricatura. Vi sovrappone poi, puntigliosamente, uno sciame di frammenti da cui spilla, come si dice delle carte, il senso della sua opera. Questa “sopraccarta” dà profondità e ombreggiatura al punto di vista e un dinamismo della visione allo spettatore in movimento. A colpi di spillo, Ruffo (dis)-integra ambo le storie – andata a Reims e ritorno al ’68 – e le dispone secondo un meta-linguaggio portatore di nuova informazione e d’ironico distacco. Un esempio probante, è quello della finestra ogivale in rigoroso bianco e nero, che domina l’intera l’installazione. Si ricordi che per Malraux il colore è entrato nell’arte medievale grazie alle vetrate delle Cattedrali e che Pietro Ruffo, volendo, ha tutti i mezzi e le competenze per realizzarlo. A differenza del Rosone di Reims – che misura dodici metri e rappresenta la Vergine tra angeli musicanti – i gradini dell’installazione pesarese conducono dunque ad un’ogiva con molte sezioni scritte e disegnate. Sappiamo che la manipolazione dello spazio è retorica e che la litote e l’amplificazione possono essere ironiche; inoltre i disegni riportati sono ispirati al sovversivo atelier parigino de Beaux Arts in cui gli artisti hanno sostenuto ed accompagnato il movimento del ’68. Un evento a valenza simbolica – l’incontro politico tra studenti della Sorbona e operai di Flin non è riuscito – in cui la parola è stata presa, insieme ad altri segni. L’opera di Pietro Ruffo, priva di ambiguità ma intensa per ambivalenza, ci parla della presa di parola che altri eventi – il Muro, le Due Torri – hanno allontanato dal nostro presente. Non propone allusioni bacchettone a linee guida smarrite. Dichiara la sua adesione disincantata ad un tempo e ad una temperie: al sogno di “facciamo l’amore non la guerra”, all’utopia generosa “l’immaginazione al potere”. Al proposito che per essere realisti bisogna realizzare, non solo pretendere, l’impossibile; come si legge nella sola scritta colorata e al neon della mostra.
Ut musica pictura. Possiamo interpretare l’installazione alla Galleria Mancini come un encomio del ’68, scenografia per un’opera para-rossiniana, un atto unico ed encomiastico di lode, ma sprovvisto – e per questo mi piace – di quell’inconfessato piacere di esser tristi che è il nucleo passionale della nostalgia. (Nostalgico non è il passato rimpianto ma il compiacimento di avere o di essere quel rimpianto!) Avverto nella prima persona del mio singolare l’ironia rossiniana che serpeggia nell’austero bianco e nero dei grandi formati di Ruffo. Il ’68 che ho vissuto come professore alle prime armi – è il caso di dirlo! – non è passibile di nostalgia perché è stato il momento in cui l’università ha compreso di non aver più il ruolo di deposito e gestione delle conoscenze e della ricerca e lo ha gridato al potere, un potere allora presente ed altamente visibile. Uno dei bei disegni di Ruffo con la faccia di De Gaulle ne testimonia. La liquefazione odierna del potere, la sua disseminazione criptata, lo sottrae alla visibilità: non c’è più l’interlocutore contro a cui gridarlo, e neppure un’occhiuta censura da raggirare. Ricordate P.P.P. Pasolini e l’amaro ripudio dei suoi tre film, dove la liberazione sessuale si identificava alla liberazione politica?
Spoglio d’indumenti vintage e col suo candore neoclassico, il ’68 di Ruffo è un richiamo che giunge ai nostri sensi e ai nostri pensieri privo di nostalgia e vivo di critica ironia. È solo uno dei molti piani e significati della sua opera, altrimenti colta e complessa. A voi rivedere, rileggere, riascoltare. L’arte ci trapianta sensi nuovi.


Bibliografia

A. Corbin, Les cloches de la terre, Éditions Albin Michel, Paris, 1994.

P. Fabbri, “Giustezza dell’acronia”, Carte Semiotiche, Acronie. La temporalità plurale delle immagini, vol. 13, 2013.

M.me de Staël, Corinne ou l’Italie, 1804.

Stendhal, Vie de Rossini, 1854.

Stendhal, Lucien Leuwen, 1894.

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