Da: Mezzavoce: rivista italo-francese, Parigi, n. 1, luglio-agosto, 1994.
Dall’anno scorso, e di recente, in Italia sono usciti dei dizionari della lingua dei sordomuti, tra i primi fatti con grande scrupolo scientifico e grande serietà di ricerca, con tecniche di trascrizioni molto avanzate e sottili. Mi son detto che, visto che dirigevo l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, potevo portare a questo Istituto una nuova lingua italiana: era stata trascritta, descritta, classificata, messa in dizionario, una lingua italiana, poiché la lingua dei segni non è universale, ma relativa non solo a certe lingue ma addirittura a certi dialetti e a certe zone. L’idea di far conoscere un’altra lingua degli italiani veniva dalle ricerche di semiotica, in cui io non ho niente di nuovo da dire perché a Roma c’è un’équipe straordinaria che ha studiato questo argomento a un livello assolutamente avanzato e sofisticato. Vorrei dar soltanto le ragioni per cui qualcuno come me, che s’interessa di linguistica, semiotica, filosofia del linguaggio, ha cose da apprendere da questa lingua. Vorrei rovesciare l’ipotesi che in qualche misura questa sarebbe una lingua diminuita, e insistere al contrario su cosa ci insegna sulla lingua che usiamo questa lingua, che ha la sua completa autonomia e intera semanticità e poeticità. È molto difficile, quando si usa naturalmente un linguaggio, conoscere le forme e per esempio le difficoltà. Solo uscendo da sé si può conoscere in qualche misura qualcosa, e in un certo modo la lingua dei sordomuti ci aiuta riconoscere come dall’esterno alcuni tratti, che noi non riconosceremmo altrimenti per eccesso di abitudine del nostro linguaggio.
Ne darò subito l’esempio più banale: il problema non tanto del lessico – avete visto che è possibile esprimere una quantità di lessico straordinario – ma della grammaticalità. Questa forse è la cosa che sorprende di più, ed è per questo che vorrei insistere su queste cose. Quello che noi chiamiamo i pronomi, di persona, di spazio, di tempo, cioè la spiegazione della temporalità, i verbi, con la complessa differenza che c’è tra il lessico e il verbo – pensate al gesto che dovete esprimere, “il volo”, o il verbo “volare” -, i tempi verbali, i nomi propri, i numeri, non solo, ma all’interno della grammatica, della sintassi, la complessità morfologica, la complessità del gioco dei temporali, l’aspettualità. Prendiamo l’esempio dell’aspettualità. L’aspetto è la dimensione del linguaggio che è legata al ritmo, il modo con cui nel verbo vengono notati degli aspetti di ritmicità (la puntualità, la duratività, l’iteratività, ecc). Ora, quest’idea che la lingua dei sordi avesse una così grande capacità di espressione ritmica, di morfologizzazione della ritmicità, è una cosa che deve fare ritornare sulla lingua cosiddetta nostra. Infatti, a differenza della visione banale che considera il linguaggio come una somma di parole, di regole di grammatica, di metafore, il nostro linguaggio comporta non soltanto delle forme e delle combinazioni, ma profondamente un ritmo e una melodia.
Il linguaggio dei sordi è prima di tutto, rispetto al linguaggio normale nostro, anche se capace di riprodurne tutta la complessità, suscettibile di una dimensione che chiamerei naturalmente cinematografica: è un linguaggio su più piani simultanei. È stato detto giustamente che può agire su due mani per esempio, può agire a distanze diverse dal corpo con distanze diverse tra le mani, agisce con elementi di fisiognomica, cioè dei movimenti del viso che commentano o anticipano o aggiungono,con rumori, suoni, cioè il linguaggio dei sordi, lungi dall’essere una limitazione è una polifonia, ha dimensioni polifoniche, poligrafiche, ed è, a differenza del linguaggio normale che è un linguaggio lineare – una volta un suono detto, il suono non può più essere detto, salvo che ripetuto – capace di integrare una simultaneità di elementi che accompagnano poi una trasformazione. Il fatto che per esempio nello stesso tempo voi possiate gestire col viso e gestire con una mano e con un’altra mano, fa ciò che il linguaggio fonetico, che è irreversibile, non può fare. Di qui la ricchezza visiva, di qui la ricchezza della percezione ritmica, di qui la sua facilità, se oso dire, a diventare danza e musica.
Questo fenomeno è una constatazione che può tornare, rovesciarsi, sul linguaggio normale. Per esempio, gli studi di linguistica hanno molto spesso sopravvalutato la dimensione morfologica grammaticale e semantica, hanno dimenticato la dimensione tonale, cioè l’intonazione. L’intonazione è un gesto verbale, un gesto fonico. Per capire l’intonazione, abbiamo bisogno di capire meglio i gesti. Curiosamente, comprendendo meglio il ritmo gestuale, capiremo forse meglio l’intonazione che è una parte decisiva del linguaggio, è quella che porta la forza e l’emozione del linguaggio. Alcuni momenti tra i più commoventi del film Il paese dei sordi sono dovuti al fatto di questa trasparenza dell’emozione nella gestualità. È un primo elemento che dovrebbe farci pensare a un altro fenomeno curioso della lingua verbale nella sua irriducibile irreversibilità. La lingua verbale ha una sola tecnica per sfuggire alla sua temporalità irreversibile, ed è la poesia.
Se ho deciso di fare un anno un corso all’università di Bologna, non è solo perché ero molto sedotto dalla lingua dei sordi o cosciente della sua complessità grammaticale – il libro molto popolare di Oliver Sacks l’aveva detto, gli studi di Virginia Volterra e del suo gruppo che erano stati pubblicati (La lingua italiana dei segni), sono del tutto espliciti su questo. Ero soprattutto attratto dall’idea che, per ottenere degli effetti di spazialità, il linguaggio verbale può soltanto rimare, fare rima, dato che è perduto nel tempo irreversibilmente, le parole che ho detto “più ritornar non può”. Quando voi sentite una rima, immediatamente vi ricordate la rima precedente. In altri termini, la poesia, per mezzi di parallelismi linguistici, fonetici, grammaticali, è in grado di vincere la irreversibilità fonetica e di stabilire uno spazio anche nella sonorità (la musica, la canzone), fa spazio e rende il linguaggio sonoro, lo sottrae al tempo e gli dà una durata iconica, d’immagine. Per questo credo che una frase come “questo è un linguaggio poetico” non è affatto una-frase banale. Non vuoi dire che ci commuove poeticamente nella sua debolezza o la sua estraneità, ma significa che la poeticità è un modo di trasformare la durata in spazio.
Il suono e l’immagine. Credo che sia questo uno degli insegnamenti più profondi che ci vengono ogni tanto di avere dimostrato che la falsità dell’ipotesi che il cervello sarebbe diviso in due parti, con una parte sinistra riservata al linguaggio e la parte destra riservata all’immagine. Riservando la grammatica alla parte sinistra, la gestualità sarebbe incapace di esprimere la complessità sintattico-grammaticale – verbi, morfologia, pronomi etc. – di cui essa è invece capace. La dimostrazione della flessibilità del cervello umano è data proprio dal linguaggio dei sordi, che corregge quest’ipotesi sulla divisione del cervello, costruita su un’immagine lessicalista della linguisticità.
Un altro punto mi ha colpito, che è l’effetto di estraneità. In una certa misura, il nostro atteggiamento verso i sordomuti potrebbe essere sbagliato. Il modo sbagliato: quello di dargli un’adesione che somiglierebbe alla commiserazione. Mi sembra che si tratti molto spesso, dalla parte di chi ascolta e di chi parla, d’un atteggiamento del tipo esotico, come con una comunità straniera, con i suoi riti, le sue abitudini, il suo linguaggio. Potremmo essere vittime di quella curiosità frivola, che è la curiosità del turista. Abbiamo visto questa comunità, con i suoi riti e i suoi modi, ora torniamo tranquillamente alla nostra vita, lasciandoli nelle loro riserve. Questo atteggiamento è un atteggiamento sbagliato, però, l’atteggiamento esattamente contrario sarebbe quello di dire che non c’è nessuna differenza fra noi e loro. Non c’è niente di più repressivo di affermare, volontaristicamente, un’eguaglianza che poi noi sappiamo non esistere. Qual è il giusto atteggiamento, per apprezzare questo effetto di estraneità intima? Perché ci sentiamo così profondamente e direttamente coinvolti, e nello stesso tempo li consideriamo un gruppo di estranei? Perché ci dicono profondamente e emotivamente qualcosa senza però, naturalmente, coinvolgerci fino in fondo? Credo che c’è una decisione da prendere su questo, per non fare né della commiserazione, né del volontarismo egualitaristico. Qual è la posizione da adottare? Penso che sia molto semplicemente quella della traduzione. Mettersi a vivere in stato di traduzione, come si dice “in stato di allegoria” o “in stato di metafora”. Pensare che ogni traduzione è sempre un tradimento, ma che nello stesso tempo ogni traduzione, ben fatta, arricchisce la lingua di partenza e arricchisce la lingua di arrivo. Ogni buona traduzione dovrebbe essere capace di arricchire ambedue le lingue. Il solo atteggiamento possibile che c’è nel film, almeno lo è in parte, è quello di porsi risolutamente nelle direzione di una traduzione non cessante. Perché tutte le traduzioni una volta compiute vanno rifatte. Non c’è nessun libro tradotto una volta per tutte. Quindi l’impegno verso la comunità intima e straniera che è la comunità dei sordomuti, è quella di giocare tra noi, senza fine, la traduzione.
Vorrei aggiungere tre osservazioni che mi sono venute in mente guardando Il paese dei sordi.
Abbiamo tendenza a riconoscere nel linguaggio dei sordi l’immagine che abbiamo della nostra lingua sonora, cioè l’idea che sia fatto di parole. Ora il linguaggio non è fatto di parole, è fatto di proposizioni articolate dalla sintassi. La sintassi è la messa in ritmo del lessico, la sintassi è prevalentemente un elemento ritmico. Se noi ci riducessimo ad una semplice dimensione dichiarativa del linguaggio – il linguaggio rappresenta qualcosa -, perderemmo quello che nel linguaggio è più interessante, cioè che è una forza e un’emozione. E nel linguaggio dei sordi è evidente che oltre all’aspetto dichiarativo, le cose vengono descritte per quello che sono, quello che ci affascina è meno il fatto che ci siano delle parole per dire delle cose, o dei gesti che sono equivalenti alle nostre parole, quanto il fatto che si dicono frasi e discorsi complessi che hanno forze diverse e emozioni diverse. Però, per un lungo periodo, si è ritenuto che la forza del linguaggio detto sonoro su quello gestuale sarebbe stato prevalentemente emotivo, l’idea che in fondo i gesti venivano prima delle parole. L’idea invece che entrambi i linguaggi sono capaci di rappresentazione ma anche di azione e di passione, è a mio avviso assolutamente importante, altrimenti riduciamo di nuovo la questione in termini lessicali, di rese di parole.
Il secondo punto è la questione della visualità, il problema della memoria visiva. Il momento del film in cui un gruppo di persone guarda il professore che insegna a visualizzare metafore mi è sembrato un momento molto importante, perché è probabile che dietro molte parole stiano già metafore. È il punto dell’apprensione del punto di vista: chi guarda gestire, non guarda soltanto delle configurazioni nello spazio, spesso iconiche, figurative, guarda punti di vista su quelle immagine. La diversa visibilità nel modo di significare “albero” in lingue dei segni di diversi paesi deriva da due punti di vista sullo stesso oggetto. I sordomuti sono eccellenti spettatori cinematografici, il cinema si trova a ricapire questa complessità profonda tra l’immagine che esso rappresenta e l’immagine che c’è nel gestire. Questa è allo stesso tempo una difficoltà del film, e uno dei suoi vantaggi.
L’ultimo punto è una questione che mi ha molto toccato, e torno sul problema della traduzione. C’è un momento nel film in cui marito e moglie, appena sposati, tentano di capire quanto costa quest’appartamento, e soprattutto se l’acqua è compresa nel prezzo. Ora, lì, sembra che parlino due lingue diverse, se fossero giapponesi e italiani sarebbe uguale, non ci si capisce. Di qui la tendenza errata di pensare che siano tutti uguali, come noi pensiamo dei giapponesi: l’errore nel pensiero del discorso dei sordi è che in fondo lui è un sordo, uno qualunque, come si dice un giapponese. Quello che mi piace del film è che voi cominciate piano piano a vedere che c’è uno stile così diverso l’uno dagli altri, così singolare – non è un sordo è il sordo, quella persona lì. Per esempio, quando il professore racconta del suo matrimonio, lo stile di gesto, di segno tra il professore e la donna che lo ha sposato, è così diverso, che mi sembra molto felice come prova. Provare dunque che le persone sono sì una cultura, ma che dentro quella cultura c’è una singolarità ricca di diversità. Gli antropologi, quando sono sbarcati in paesi stranieri, hanno a un certo punto preso una sola persona, e hanno detto, dopo averla studiata, gli irochesi o gli indiani zulù sono così – l’idea di una omogeneità della comunità per il fatto che ha un certo tipo di linguaggio è un errore capitale, perché dentro una comunità che pure ha uno stesso tipo di linguaggio le differenze di stile, di soluzioni gestuali sono elevatissime. Ed è per questo che a poco a poco rivedendoli spesso, ci si accorge di questa differenza e ancora una volta si vince uno stereotipo.